Norma
In una delle sue accezioni, il termine norma indica il modo in cui un fatto si verifica abitualmente in determinate circostanze, corrispondendo a normalità e indicando cioè la condizione di ciò che si ritiene regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico. Tale concetto, quando venga applicato in ambito biologico, necessita di una serie di considerazioni e precisazioni, così da evitare l'uso improprio che spesso ne viene fatto. Nel campo della rappresentazione del corpo umano nelle arti figurative, la norma è un paradigma in grado di soddisfare una certa condizione di armonia e proporzione che sfocia nella qualità dell'equilibrio formale della figura. L'ambito biologico In statistica, l'aggettivo normale esprime una funzione di probabilità e corrisponde alla distribuzione gaussiana (curva a campana) degli errori di una serie di misurazioni eseguite in uno stesso soggetto e non in individui diversi. Anche volendo estendere il concetto alla distribuzione di una variabile biologica in una popolazione, la considerazione che tra +1,96 e -1,96 deviazioni standard dalla media è compreso il 95% degli individui (intervallo normale) e che il 5% dei soggetti che si trovano nelle due code destra e sinistra dovrebbe essere definito 'non normale' è del tutto arbitraria. Ciò che conta, in ambito biologico, è infatti la definizione delle caratteristiche, sia qualitative sia quantitative, che meglio si adattano alla sopravvivenza e che possono essere pertanto designate come ottimali o comunque desiderabili, comportando le più basse morbosità e mortalità. Non sempre, e anzi piuttosto di rado, gli indicatori di tendenza centrale - media (la somma algebrica di un insieme di valori, divisa per il numero di elementi dell'insieme stesso), mediana o 50° percentile (il valore centrale di una successione finita di valori) e moda (il valore maggiormente rappresentato in una serie di valori) - corrispondono al concetto di valore ideale. Per es., il valore medio della colesterolemia, anche nelle popolazioni ove questo non è particolarmente elevato, è sempre più alto di quello considerato desiderabile, cioè inferiore a 200 mg/dl; altrettanto può dirsi per l'indice di massa corporea, che nelle popolazioni dell'Occidente industrializzato è maggiore di 24,9, valore che rappresenta il limite superiore della categoria del normopeso. Anche la distribuzione quantile non fornisce un'idea chiara del significato di una determinata variabile in termini di 'salute', perché il valore corrispondente a un certo percentile può essere notevolmente diverso in popolazioni differenti; per restare sempre nell'esempio della colesterolemia, un concetto di normalità basato su questo tipo di distribuzione porterebbe a considerare normale il livello di 290 mg/dl di una donna norvegese e anormale lo stesso livello di una italiana. Altri tipi di normalità ipotizzabili sono poi quelli definiti da valori convenzionali (cosiddetti valori 'certificati'), stabiliti in genere per consenso sulla base dei risultati di studi osservazionali prospettici, che in determinate popolazioni hanno identificato i livelli delle diverse variabili che comportano il minor rischio per la salute: pionieristico è stato, a questo riguardo, il notissimo Framingham study (Dawber 1980). Poiché la normalità o l'anormalità dipendono dal modo in cui queste stesse vengono definite, soprattutto nell'ambito della diagnostica di laboratorio o strumentale, quando si vogliano confrontare nuovi metodi di indagine rispetto a quelli in uso e considerati come il miglior riferimento disponibile (golden standard), il giudizio di normalità o anormalità dei risultati con essi ottenibili non può prescindere dal loro valore predittivo, che viene calcolato tenendo conto della sensibilità (assenza di falsi negativi) e della specificità (assenza di falsi positivi), le quali a loro volta dipendono ovviamente, nei test quantitativi, dai livelli fissati per stabilire la negatività e la positività. Il valore predittivo positivo è dato dal rapporto tra il numero di risultati veri positivi e la somma dei veri positivi e dei falsi positivi; il valore predittivo negativo, invece, dal rapporto tra il numero di risultati veri negativi e la somma dei veri negativi e dei falsi negativi. In altri termini, la sensibilità conferma la positività nella malattia (anormalità), e la specificità quella nella salute (normalità). È piuttosto comune, in ambito biomedico, fissare dei livelli o tagli (cut-off points) per distinguere il normale dal non normale o per separare differenti categorie di rischio. Il problema sta nel come tali tagli vengono scelti, in quanto essi influenzano in maniera spesso pesante la prevalenza e l'incidenza delle condizioni morbose o di rischio. Per fare un esempio attuale, relativo a una malattia tra le più importanti e diffuse, il diabete (v.) di tipo 2 (o non-insulinodipendente), il livello di glicemia a digiuno che permetteva di porre la diagnosi era stato fissato (National diabetes data group 1979) in 140 mg/dl; poiché, però, utilizzando questo valore soglia la prevalenza del diabete risultava chiaramente sottostimata, il cut-off diagnostico è stato recentemente abbassato a 126 mg/dl, ed è stata introdotta una nuova categoria di rischio, quella dell'alterata glicemia a digiuno (IGF, Impaired fasting glucose), e ciò sulla base di valutazioni statistiche operate in alcune importanti indagini epidemiologiche condotte in differenti popolazioni (Report of the Expert committee 1997). La norma di rappresentazione Dal punto di vista strettamente antropometrico, con il termine norma si indicano sia ciascuna delle posizioni che il cranio assume (norma del cranio) dopo averlo orientato in base a ognuno dei piani di riferimento del parallelepipedo anatomico, all'interno del quale viene idealmente inscritto il corpo umano (frontale, occipitale, basilare, sagittale ecc.), sia la linea di contorno del cranio visto secondo le posizioni ricordate. Per estensione, il termine viene usato per definire quella tipologia della figura umana che rientra all'interno di un parametro stabilito e, pertanto, considerato come norma. Se lo status di equilibrio formale, nell'individuo reale, è determinato da parametri di natura fisiologica (si pensi, per es., al normotipo di G. Viola, collocato fra il longitipo e il brachitipo, oppure alla classificazione fisiologica di W.H. Sheldon e ai suoi studi protrattisi dal 1940 al 1950: v. vol. 1°, III, cap. 3: Proporzioni corporee e tipologie costituzionali: il somatotipo; v. costituzione), altrettanto non può dirsi per quel che riguarda la rappresentazione del corpo umano nelle arti figurative. Come ha chiaramente dimostrato E. Panofsky (1921), non sempre è possibile parlare di antropometria in quelle civiltà che svilupparono una teoria delle proporzioni del corpo umano. Quando i due termini non coincidono, la norma di riferimento, pur prendendo ovviamente le mosse dall'analisi della morfologia del corpo umano, può rispondere a criteri in reale contrasto con quelli che sarebbero stati dettati dall'anatomia stricto sensu. Non solo, ma le forme di rappresentazione dell'immagine dell'uomo possono soddisfare delle esigenze che nulla hanno a che vedere con la realtà fisica del corpo. È perfettamente noto, per es., che le prime grandi civiltà fiorite nell'ambito della cosiddetta Mezzaluna Fertile (l'egizia, l'assiro-babilonese, la fenicia) seguono un criterio sostanzialmente basato sulla massima leggibilità e sul valore simbolico dei vari distretti anatomici. Infatti, nelle raffigurazioni umane, la successione, dall'alto verso il basso, di testa di profilo, occhio di fronte, busto di fronte, pelvi di profilo, gambe e piedi di profilo, corrisponde al desiderio di razionalizzazione della fisicità umana che, per il fatto stesso di divenire 'norma di rappresentazione', si allontana inequivocabilmente dalla complessa organicità del corpo reale. Tuttavia, questa spinta alla semplificazione dell'immagine umana e, nel caso degli egizi, l'evidente ricerca di una geometrizzazione che si esplicita nell'impiego di una griglia di riferimento, all'interno della quale viene sistemata la figura secondo i criteri appena riportati, sono spia del desiderio di scorgere nella fisicità dell'uomo il segreto dell'armonia universale. È in questo senso che si giustifica la ricerca di una norma di rappresentazione, di una regola che permetta di ricondurre il caduco, vale a dire l'individuo limitato nello spazio e nel tempo, all'interno dell'universale e dell'assoluto, in altre parole, del divino. Si spiega, così, come è stato più volte affermato, il motivo per il quale, nella cultura figurativa dell'Egitto antico, i nemici, gli schiavi, gli sconfitti, oppure gli oggetti inanimati come le statue, venissero esclusi dal canone di rappresentazione (Bussagli l996). Questa aspirazione, volta a individuare nel corpo l'armonia del cosmo, non fu certo una prerogativa della cultura figurativa dell'Egitto antico. Per quanto siano differenti gli esiti estetici e i presupposti filosofici, la stessa idea attraversa, sia pure con varie modalità, tutta la riflessione sulla problematica della rappresentazione della figura umana nell'arte occidentale. L'analisi condotta da G. Reale (1999) sul rapporto fra anima e corpo in Platone ha infatti chiarito come il filosofo greco, accanto alla contrapposizione fra i due termini, abbia potuto vedere nel corpo un momento nodale della creazione dell'individuo di pari dignità rispetto a quello che aveva prodotto la generazione dell'anima del singolo. Platone, nel Timeo (41 segg.), se afferma che l'anima è formata della medesima sostanza di cui è costituito l'Universo, vale a dire che il principio immortale dell'uomo condivide il bagliore universale dell'eternità del cosmo, sostiene anche che i corpi mortali - la cui creazione è affidata dal Demiurgo agli dei creati - sono realizzati con quegli stessi elementi di cui è composto l'intero Universo: terra, acqua, aria, fuoco. Anche se l'anima è stretta insieme da 'legami indissolubili', mentre la sostanza del corpo mortale è tenuta insieme da 'chiodi invisibili' e perciò fragili e soggetti a decomporsi, nel senso letterale del termine (Timeo 43a), la natura di anima e corpo è la stessa, cosmica. Anzi, la struttura del corpo è 'pensata' "imitando la figura dell'universo che è rotonda" (Timeo 44d). Perciò - commenta Reale (1999, p. 217) - "il corpo, le sue membra e i suoi organi furono creati dagli dei nella maniera più perfetta possibile [...]". È in questa complessa speculazione, fra le cui pieghe non è difficile individuare l'eco del pensiero pitagorico (Gyka 1931, 1° vol.), che affondano le radici, le scelte metodologiche ed estetiche della classicità greca. Il cosiddetto canone di Policleto, vera e propria norma di rappresentazione della figura umana, infatti, non avrebbe ragion d'essere né avrebbe potuto essere concepito senza simili presupposti teorici e filosofici. È infatti il numero, inteso come risultato del rapporto proporzionale fra le parti, che garantisce l'organica relazione fra le membra del corpo e, nel contempo, la lega a quel concetto di armonia su cui si basa l'intera concezione del modello cosmologico. La concezione chiastica del canone policleteo tende a porre in armonico equilibrio, nella figura umana, tensione e distensione muscolare. Come si vede, anche gli aspetti teoretici più sofisticati, nel campo della rappresentazione, sono costretti a misurarsi con soluzioni formali e stilistiche non sempre all'altezza dei loro presupposti. Il rischio nella ricerca di una norma di rappresentazione, infatti, è quello di ridurre l'intero processo speculativo alla semplice produzione di una formula applicativa che si limiti a offrire un mero schema costruttivo di riferimento. Naturalmente non è questo il caso del canone di Policleto, ma il pericolo si fa concreto in altri contesti culturali. Così, per es., in quella sorta di manuali artistici chiamati nel mondo slavo ortodosso podlinniki, che tendono sostanzialmente a offrire formule preconfezionate a uso dei pittori di icone, la costruzione della figura umana si realizza riportando con il compasso un modulo dimensionale prestabilito e arbitrario (ma corrispondente alla lunghezza del viso), che altro non è se non il precipitato della teoria proporzionale della Grecia classica. Le stesse formule grafiche per la rappresentazione della figura umana, basate sulla deformazione del pentacolo del pentalfa, cioè della stella a cinque punte, tramandate dal taccuino di Villard de Honnecourt, architetto e trattatista del 13° secolo (Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. fr. 19093), vanno, almeno in parte, considerate secondo quest'ottica. Naturalmente non sono assenti implicazioni di carattere simbolico (il pentalfa è, insieme all'esalfa, uno dei sigilli di Salomone, il numero cinque simboleggia l'uomo ecc.), ma soprattutto quel che interessa sottolineare è, nel caso di Villard, la distanza assoluta da una problematica antropometrica. In altri termini, nel periodo medievale, si ebbe la tendenza a preferire e a sostituire a quelle che Panofsky definisce 'proporzioni oggettive' le 'proporzioni tecniche'. Si produssero cioè formule di rappresentazione grafica dell'immagine dell'uomo, individuate come norma e tali da costituire imprescindibili parametri di riferimento. Per tornare a una compiuta analisi antropometrica della figura umana, si dovrà aspettare il Rinascimento italiano e i suoi accoliti stranieri come, per es., A. Dürer. Questi dedicò grande attenzione e tempo allo studio proporzionale del corpo, proprio nel tentativo di individuare una norma generale di rappresentazione. Non è qui possibile ripercorrere partitamente i metodi seguiti dal pittore tedesco nei suoi Vier Bücher von menschlicher Proportion, pubblicati pochi mesi dopo la sua scomparsa, nel 1528; basti tuttavia rammentare che, partendo dagli studi di Jacopo de' Barbari e da quelli di Vitruvio, Dürer arriva alla definizione di vari tipi fisici (ovvero A, B, C, D), la cui corporeità è ricondotta a costruzioni di carattere geometrico, nel tentativo di definire una norma generale di rappresentazione. Per lo stesso motivo, Dürer si occupò anche di quegli aspetti della fisicità umana che esulano dalla perfezione armonica, indagando sia il grottesco sia il deforme sempre in termini di geometrizzazione. La scommessa tentata dal Rinascimento era quella di ricondurre a un principio unico proporzionale le singole individualità personali. A questo tipo di esigenza vuole infatti rispondere l'esercizio intellettuale proposto da Leonardo con la realizzazione del celeberrimo Uomo di Vitruvio (1490 circa), conservato presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia, che costituisce la riduzione in un'unica immagine delle tipologie medievali dell'homo ad circulum e dell'homo ad quadratum. Nell'immagine veneziana Leonardo trasferisce tutta la sua esperienza di anatomico, finalizzandola al problema della rappresentazione. Così, non solo spiega nella lunga didascalia che accompagna il disegno che il centro del corpo corrisponde all'ombelico nell'homo ad circulum, mentre è da individuare nel pube per l'homo ad quadratum, ma segna diligentemente l'immagine con tratti grafici tali da porre l'artista nelle condizioni di ricavare con estrema facilità il rapporto proporzionale fra le varie membra del corpo. In questo senso, il disegno leonardesco deve essere considerato come la prima tavola antropometrica moderna che rivoluziona tanto l'impostazione classica quanto quella medievale (Bussagli 1999). La sintesi leonardesca della norma di rappresentazione universale del corpo umano in un'unica immagine è probabilmente il punto di arrivo della ricerca antropometrica finalizzata alla rappresentazione artistica, ed è in funzione di indirizzi come questi che H. Butterfield (1958, trad. it., p. 48) ha potuto affermare che "l'arte italiana del quindicesimo secolo rappresenta un capitolo delle origini della scienza moderna". Da questo momento in poi, infatti, arte e anatomia si sovrapposero in un'unità d'intenti che finirono per divaricarsi soltanto con la specializzazione della ricerca e l'avvento della fotografia all'inizio del Novecento (v. vol. 1°, I, cap. 2: Tra immaginario e descrizione anatomica; cap. 3: Immagini dalle arti figurative occidentali). Al di là del maggiore approfondimento delle conoscenze anatomiche nel corso dei secoli, la norma di rappresentazione del corpo umano non ha subito che minime varianti rispetto a quella enunciata da Leonardo. È vero che dal manierismo in poi s'individuarono tipi fisici diversi in relazione al differente rapporto proporzionale fra la testa e il resto del corpo (si pensi alla sistematizzazione di F. Zuccari nella sua Idea de' scultori, pittori et architetti, pubblicata a Torino nel 1607, dove la scelta delle proporzioni è funzionale al decoro e all'argomento del soggetto trattato), ma in realtà non ci sono innovazioni di rilievo. Con l'Ottocento e il primo Novecento, infine, la ricerca di una norma di rappresentazione segue decisamente una linea medico-scientifica che va dalle ricerche di P. Richer a quelle di G. Fritsch (Bussagli 1996). Unica eccezione fu quella di Le Corbusier che, nel 1947, concepì un canone proporzionale in qualche modo finalizzato alla rappresentazione artistica. Basato verosimilmente sulle ricerche di M.C. Gyka (1931), il modulor (riconsiderato dall'architetto nel 1950 e nel 1955), si basa sullo sviluppo della sezione aurea impostata sulla fisicità di un uomo alto 1,83 m. Le Corbusier ne fece il punto di riferimento per la costruzione razionale dello spazio all'interno delle unità di abitazione costruite a partire dal 1947. È questo il momento estremo di quella norma di rappresentazione della figura umana che, sebbene con modalità e sviluppi diversi, aveva attraversato la gran parte delle problematiche dell'arte occidentale.
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