Vedi North Atlantic Treaty Organization dell'anno: 2015 - 2016
(NATO)
Il Trattato del Nord Atlantico nasce nei primi anni della Guerra fredda (1949) come alleanza difensiva tra gli Usa e i paesi del blocco occidentale. L’Alleanza e l’Organizzazione da essa sviluppatasi (Nato) hanno svolto un’implicita funzione di deterrenza nei confronti dell’Unione Sovietica e del blocco comunista, che nel 1955 ha reagito costituendo il Patto di Varsavia. Dai primi anni Novanta la dissoluzione dell’Unione Sovietica, lo smantellamento del Patto di Varsavia e dunque la fine della Guerra fredda hanno privato l’Alleanza atlantica del suo scopo originario, costringendola a rimettere in discussione i suoi obiettivi, la sua membership e persino la sua natura, pena la perdita di rilevanza o addirittura lo smantellamento. Nell’ultimo ventennio l’Alleanza atlantica è stata dunque artefice di molteplici tentativi di ridefinizione, che l’hanno portata ad attestarsi tanto come agenzia di sicurezza, tramite interventi diretti in aree di crisi, quanto come componente del dialogo politico-militare tra i suoi membri e alcuni paesi dell’ex blocco sovietico. Proprio quest’ultimo aspetto dell’azione dell’Alleanza – l‘allargamento a est - è diventato negli anni una fonte di crescenti tensioni con la Russia di Putin.
Il Trattato del Nord Atlantico si è andato istituzionalizzandosi nell’organizzazione corrispondente tra il 1950 e il 1952. L’Alleanza e l’Organizzazione sancivano lo stretto legame tra il complesso di sicurezza americano e quello europeo occidentale, cristallizzando così la logica bipolare del sistema internazionale dettata dallo scontro tra le due superpotenze. In tale contesto, il timore di un’escalation militare tra i due blocchi contrapposti, che avrebbe potuto sfociare nell’utilizzo di armi nucleari, funse da deterrente, scongiurando lo scoppio di una guerra generale in Europa. Di fatto, nel corso della Guerra fredda l’Alleanza non fu mai chiamata ad intervenire direttamente per rispondere ad un attacco sovietico.
Per altro verso, l’esistenza di un nemico comune contribuì alla coesione interna dell’Alleanza, i cui membri erano comunque divisi da attriti storici e divergenze politiche. La complessa questione del burden sharing – la ripartizione interna dei costi della Nato (in gran parte sostenuti dagli Usa) – e le ambizioni di autonomia in politica estera nutrite da alcuni membri europei furono all’origine di alcune tra le crisi più importanti. In seguito a una di queste, nel 1966, la Francia abbandonò il comando integrato dell’Alleanza, facendovi ritorno soltanto nel 2009. Nei primi anni Novanta la scomparsa dell’Urss esaurì lo scopo per il quale l’Organizzazione aveva visto la luce, rimettendone in discussione la stessa esistenza nel nuovo contesto internazionale. L’avvio di una fase di instabilità sul continente europeo, con l’inizio delle guerre balcaniche, e il tentativo da parte di alcuni dei membri Nato di trasformare l’Organizzazione in un forum di cooperazione e dialogo con i paesi prima appartenenti al blocco sovietico contribuirono tuttavia a tenere in vita l’Alleanza.
Tra il 1999 e il 2009 l’approfondimento delle relazioni con gli ex nemici condusse all’ingresso di 12 nuovi stati dell’Europa centro-orientale: tra questi, 10 sono ex membri del Patto di Varsavia e due (Slovenia e Croazia) sono stati di recente formazione, prodotto delle guerre iugoslave (nel 2016 diventerà stato membro anche il Montenegro). Parallelamente l’Organizzazione avviò nuovi programmi e inaugurò nuove strutture che miravano a favorire il dialogo con la Russia e con i paesi dell’Europa centrale e orientale (Partnership for Peace, Consiglio Nato-Ucraina, Consiglio Nato-Russia, ecc.). Malgrado ciò, l’allargamento a est è stato percepito (e continua a esserlo) da Mosca, che a sua volta sta cercando di recuperare una proiezione strategica nei paesi ex-Urss, come un’immediata minaccia alla propria sicurezza esterna. Oltre all’avvicinamento Eu-Ucraina, proprio l’azione del Consiglio Nato-Ucraina, così come il sostegno pubblicamente dato dall’Alleanza al cambio di governo a Kiev nei primi mesi del 2014, secondo la Russia hanno costituito valide ragioni per procedere all’annessione della Crimea e per una politica aggressiva nell’est Ucraina voluta dal presidente Putin attraverso il sostegno militare e finanziario ai separatisti filorussi delle autoproclamatesi Repubbliche di Donetz’k e di Luhansk. La politica di potenza della Federazione Russa si è poi estesa ai paesi baltici, membri a tutti gli effetti della Nato, ma anch’essi considerati a rischio in quanto ‘storicamente’ parte del bacino d’influenza di Mosca, e soprattutto perché abitati da forti minoranze russofone (delle quali Putin si proclama assoluto ‘difensore’).
Le mutate condizioni internazionali hanno spinto la Nato ad allargare, oltre alla membership, anche il suo raggio d’azione militare. Tutti gli interventi militari dell’Alleanza sono infatti avvenuti out of area, ovvero sul territorio di paesi non membri dell’Alleanza e quasi sempre senza che l’Alleanza certificasse un’aggressione diretta nei confronti di uno dei suoi membri. Nel 1995 la Nato, che sin dal 1993 operava nel Mar Adriatico per far rispettare il blocco navale contro la Iugoslavia autorizzato dalle Nazioni Unite, intervenne nella guerra in Bosnia con una campagna di bombardamenti della durata di venti giorni, guidando successivamente nel paese due missioni internazionali di peace-keeping: Implementation Force, Ifor, e Stabilisation Force, Sfor. Lo stesso accadde nel 1999, quando durante la guerra del Kosovo la campagna di bombardamenti Nato sulla ex Iugoslavia (questa volta non autorizzata dalle Nazioni Unite) costrinse Belgrado ad accettare la presenza di una missione di peacekeeping (Kosovo Force, Kfor) nella regione secessionista. Gli interventi degli anni Novanta procurarono una ricaduta positiva sul prestigio dell’Alleanza, che giunse a essere considerata l’unica organizzazione regionale efficace nel risolvere crisi internazionali.
Oggi, tuttavia, l’Alleanza si trova ad affrontare questioni sempre più complesse. Nel 2001 l’attacco alle Twin Towers di New York portò a richiedere – per la prima volta nella storia dell’Alleanza – l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato, che considera l’attacco diretto a un paese membro come un attacco a tutti. Le fasi iniziali dell’intervento in Afghanistan, tuttavia, furono condotte da una coalizione internazionale a guida statunitense al di fuori delle strutture dell’Alleanza, e solo tra il 2003 e il 2006 alla Nato furono estese funzioni di comando sulle forze internazionali. Il coinvolgimento diretto della Nato nell’interminabile conflitto afghano ha però collegato la reputazione dell’Alleanza all’andamento delle operazioni sul campo, rivelatesi inconcludenti. Il dibattito politico sull’intervento in Afghanistan ha reso sempre più evidente il progressivo divaricamento tra le due sponde dell’Atlantico. L’assenza di un chiaro nemico comune e la natura costitutivamente asimmetrica della Nato, cui dal 1991 partecipa l’unica superpotenza rimasta (gli Usa, i quali destinano al settore della difesa una somma annuale più alta rispetto a tutti gli altri paesi Nato sommati assieme), hanno infatti provocato l’apertura di solchi sempre più ampi tra Washington e le capitali europee, tanto in merito al tipo di azione adeguata a rispondere alle comuni minacce alla sicurezza, quanto per ciò che concerne l’identificazione stessa di tali minacce. Tali divergenze rischiano di aggravare ulteriormente il problema del burden sharing, dal momento che quasi tutti i paesi dell’Europa hanno costantemente disatteso l’obiettivo minimo di spesa nel settore della difesa deciso di comune accordo in ambito Nato (il 2% del pil).
La decisione dell’Alleanza, nei primi mesi del 2011, di intervenire in Libia sotto mandato delle Nazioni Unite per proteggere la popolazione civile non ha fatto che acuire la sensazione di disagio di cui sono preda molti membri. La crisi libica ha sin da subito interessato solo una piccola frazione dei membri europei (Francia e Regno Unito, cui s’è poi aggiunta l’Italia), e l’utilizzo delle strutture Nato per il comando delle operazioni ha incontrato le resistenze della Turchia, da una parte, e la prudenza degli stessi Stati Uniti dall’altra, questi ultimi restii a prender parte a un nuovo conflitto mentre erano in via di conclusione le operazioni in Iraq e in Afghanistan.
Nel maggio 2012, al vertice di Chicago, per volontà dell’allora Segretario generale, Anders Fogh Rasmussen, è emerso il tema della Smart Defence, la cosiddetta ‘difesa efficace’ che si sarebbe dovuta basare su una migliore organizzazione delle capacità militari, un rafforzamento della collaborazione tra paesi membri e un utilizzo più razionale del bilancio della difesa. Il progetto della Smart Defence è poi venuto meno al cambio di Segretario generale. Il mandato di Rasmussen doveva inizialmente concludersi il 31 luglio 2013 ma, il Consiglio Nord Atlantico ha preferito prorogarlo di un anno fino al 31 luglio 2014. Il vertice di Chicago ha inoltre ratificato la strategia di ritiro dallo scenario afghano, impegnandosi ad assistere il paese durante la fase di transizione dopo la missione Isaf, terminata nel 2014. Alla conclusione di Isaf, avvenuto come da programma, la Nato ha quindi optato per restare in Afghanistan con compiti di addestramento delle truppe locali, nell’ambito della missione Resolute Support. A Chicago è stato poi sanzionato il progetto di scudo antimissilistico voluto dal presidente statunitense Barack Obama, che ridimensiona il vecchio progetto varato dall’amministrazione Bush e che dovrebbe diventare pienamente operativo nel 2018. La crisi in Ucraina del 2014 ha poi ridefinito le priorità strategiche della Nato. L’out of area è stato per il momento accantonato, privilegiando al contrario il back in area, ossia il ritorno ai compiti di deterrenza anti-Mosca che gli alleati avevano già svolto durante la Guerra fredda. Una politica, questa, che tiene conto in via pressoché esclusiva del fianco est dell’Alleanza e che è avversata dall’Italia, che vorrebbe una Nato concentrata anche sul fianco sud.
Il Segretariato è l’organo che garantisce la continuità istituzionale dell’Organizzazione, la sua gestione amministrativa e la sua rappresentanza esterna. Segretario generale della Nato è, per prassi, un europeo, mentre il vertice militare dell’Alleanza è costituito da generali dell’esercito statunitense. Dal 1958 il vice segretario generale della Nato è sempre stato un italiano, salvo una breve parentesi tra il 1964 e il 1971, quando a essere italiano fu lo stesso segretario generale. Dal febbraio 2012, tuttavia, la carica di vice segretario è stata affidata all’americano Alexander Vershbow, ex ambasciatore Usa alla Nato, in Russia e in Corea del Sud. L’organo decisionale è invece il Consiglio del Nord Atlantico: composto dai 28 paesi membri, in seduta ordinaria vi partecipano i rappresentanti permanenti, ma esso può anche essere composto in seduta straordinaria dai loro ministri degli esteri, della difesa o direttamente dai capi di stato e di governo. Per tutte le questioni non procedurali, il Consiglio delibera per consensus: una decisione è presa solo se nessun membro vi si oppone. Vi è poi l’Assemblea parlamentare, che si riunisce una volta all’anno e ha funzioni consultive. Il perno normativo attorno a cui ruota l’Alleanza è l’articolo 5 del Trattato, che prevede che ogni attacco contro uno specifico membro dell’Organizzazione sia considerato come un attacco a tutti i paesi membri, e che ciascuno si impegni a prendere tutte quelle misure che reputa necessarie per rispondere a tale minaccia della sicurezza collettiva.
Per rispondere alle minacce esterne l’Alleanza si è dotata di una struttura militare permanente, che affianca quella civile. Il Comando militare alleato, che per tutta la Guerra fredda fu diviso in due comandi, uno europeo e uno ‘atlantico’ (negli Usa), dal 2002 è stato unificato sotto l’Allied Command Operations, con sede a Mons, in Belgio. Il Comando atlantico con sede a Norfolk, nella Virginia statunitense, è invece stato rinominato Allied Command Transformation: il suo compito è quello di riplasmare la struttura di comando dell’Alleanza per consentirle di intervenire in uno scenario internazionale in costante mutamento.
di Davide Borsani
Fin dalla conclusione della Guerra fredda, la Nato è andata alla ricerca di una nuova ragione d'essere all'interno di un mutato contesto strategico, quello post-bipolare, che non rispecchiava più la logica della deterrenza nucleare e che, ancor più rilevante, nemmeno delineava un nemico preciso da combattere. Negli anni tra il 1990 e il 2010, prima la dissoluzione della Iugoslavia e poi la lotta al terrorismo, in particolare in Afghanistan, avevano imposto all’Alleanza una prima trasformazione tutt'altro che semplice tanto nel suo concetto strategico quanto nei suoi compiti operativi. Come annunciò nel 2010 Anders Fogh Rasmussen, segretario generale tra il 2009 e il 2014 questa era stata la «Nato 2.0». La versione successiva, la 3.0, avrebbe continuato sul medesimo percorso promuovendo il rapido passaggio dell’Alleanza da un’organizzazione divisa tra compiti di sicurezza e difesa collettiva, ad una più orientata al crisis management a scapito della difesa territoriale, quest’ultima comunque alla base del Patto fondativo del 1949. Costituire nuove forze rapidamente dispiegabili oltre i confini euro-atlantici, perciò, e accelerare lo sviluppo di capacità innovative in grado di prevenire e fronteggiare attacchi cibernetici avrebbero rappresentato due tra le maggiori priorità per la Nato del futuro. Eppure oggi, a distanza di pochi anni, la crisi ucraina ha mischiato le carte mettendo radicalmente in discussione quanto annunciato nel 2010. Il vertice in Galles del 2014, dove Rasmussen ha ceduto il posto al norvegese Jens Stoltenberg, ha infatti prospettato il ritorno della Nato alla versione forse non 1.0, ma almeno 1.5. «Le azioni aggressive della Russia in Ucraina», hanno affermato i capi di stato e di governo a margine del vertice, «hanno radicalmente sfidato la nostra concezione di un'Europa unita, libera e in pace» e dunque «la più grande responsabilità dell’Alleanza è proteggere e difendere i nostri territori e le nostre popolazioni». Una visione, questa, particolarmente sostenuta dai paesi appartenenti a ciò che l'ex Segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, definì nel 2003 la 'nuova Europa', quella centrorientale, e, in particolare dalla Polonia e dai paesi baltici. L’Europa dell'Est, difatti, guarda con ammirato interesse alla potenza militare di Washington per controbilanciare le storiche ambizioni egemoniche di Mosca nell'area, oggi riaffacciatesi sulla scena internazionale dopo due decenni di riflusso. Tuttavia all'interno dell’Alleanza vi sono altri paesi, in primo luogo l'Italia e dal novembre 2015 la Francia, che desidererebbero una Nato più attenta e coinvolta nelle dinamiche del fianco meridionale, ovvero nel Mediterraneo, dove l'avanzata dello Stato Islamico costituisce a loro dire una minaccia ben più pressante della sfida russa. Nell'immediato futuro, dunque, per mantenere credibilità e coesione gli alleati dovranno trovare una sintesi efficace a tale dibattito determinando, in conclusione, quale sarà il destino della Nato.
Albania, Belgio, Bulgaria, Canada, Croazia, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Usa, Turchia, Ungheria.