nulla
Problema filosofico originato nel pensiero greco dall’antitesi tra «essere» e «non essere» (➔) nella filosofia eleatica.
In Parmenide è centrale l’opposizione «ἔστιν»/«οὐκ ἔστιν» (framm. 28 B 2 Diels- Kranz, vv. 3 e 5), nella quale il secondo termine viene inteso sostanzialmente come «è nulla». Parmenide viene così a essere il primo ad aver esplicitamente elaborato il concetto di n. assoluto, cioè come assoluto non essere, che pertanto è «impensabile» e «inesprimibile». Le conseguenze più estreme di questo concetto saranno una sorta di cavallo di battaglia della sofistica, che ne traeva la conclusione dell’impossibilità dell’errore, dal momento che errare significa dire ciò che non è (Platone, Eutidemo, 283 c-284 c; 286 a-28 b). Antistene, stando a quanto riferisce Proclo nel commento al Cratilo platonico (429 b), avrebbe sfruttato le conseguenze implicite nel dettato parmenideo fino a sostenere che «ogni discorso è veritiero». Il paradosso implicito nelle premesse parmenidee è espresso ripetutamente in Platone che riesce a superarlo attraverso l’ammissione dell’essere del non-essere, definendo il n. come «alterità» (Sofista, 257 b). Platone, consumando così il celebre «parricidio» del maestro eleate, pone la distinzione tra n. assoluto e n. relativo: «quando diciamo il ‘non ente’ non diciamo qualcosa di contrario all’ente, ma soltanto qualcosa di diverso», che proprio per questo possiede «in modo stabile» la natura dell’essere (258 c). Aristotele rafforzerà questa conclusione nella Fisica (➔) (I, 3, 187 a 5-6), e non intendendo l’essere univocamente, bensì come qualcosa che si attualizza in una pluralità di determinazioni, potrà parlare di privazione e potenza come n. rispettivamente di forma e atto riguardo a una specifica condizione di un dato ente. In Plotino l’identificazione del n. con la materia, intesa come assoluta privazione delle forme, anticipa in qualche modo la conclusione di Agostino nelle Confessioni (➔): «Se si potesse dire che il n. è e non è qualcosa, direi questa è la materia» (XII, 2, 2).
Il problema del n. ha accompagnato poi l’intero sviluppo della filosofia e della teologia, nella misura in cui vi è stato dibattuto il concetto di creazione come possibilità che qualcosa divenga o venga fatto dal nulla. Tra le trattazioni più interessanti del n. nel pensiero medievale è quella di Fredegiso di Tours (9° sec.), che nella Epistola de nihilo et de tenebris mette in rilievo la difficoltà di negare in modo assoluto il n. nell’atto stesso in cui se ne parla. Nel pensiero moderno, a parte la problematica della creazione, si trova un’analisi particolarmente accurata del n. nella Critica della ragion pura (➔) (1781) di Kant, dove ne vengono individuati quattro significati: il n. come ens rationis, in quanto concetto vuoto senza oggetto; come nihil privativum, in quanto oggetto vuoto di un concetto; come ens imaginarium, in quanto intuizione vuota senza concetto; come nihil negativum, come oggetto vuoto senza concetto. Con Hegel poi, all’inizio della Scienza della logica (➔) (1812-16), il n. appare come un termine essenziale della dialettica, e precisamente come il momento della negazione mediante la quale dall’essere indeterminato (e perciò identico al n.) si passa al divenire come loro unità: il n. pertanto non è qualcosa di assoluto, ma sempre soltanto il n. di qualche cosa in funzione di un ulteriore sviluppo dialettico. Sempre nell’Ottocento, con le filosofie pessimistiche e nichilistiche di Schopenhauer e di Stirner è invece evidenziato il senso esistenziale del n., che viene a indicare la sostanziale inanità e inconsistenza di ogni realtà. In molte correnti del pensiero del Novecento, infine, soprattutto nella fenomenologia e nell’esistenzialismo, ha assunto molta importanza quello che Scheler, nel libro L’eterno nell’uomo (1921), ha chiamato il tema «dell’abisso del n. assoluto» come problema pregiudiziale della filosofia e della metafisica. Questo tema trova ampio sviluppo in Heidegger, in polemica contro la pretesa di ridurre il n. alla semplice negazione logica. Riprendendo il tema kierkegaardiano dell’angoscia, Heidegger sostiene infatti che l’angoscia rivela il n. come condizione essenziale della libertà e della stessa rivelazione dell’essere. Il n. infatti è la limitazione originaria ed essenziale dell’essere, e per questo il problema del n. è il problema essenziale della metafisica. Anche per Sartre il n. occupa un posto fondamentale nel costituirsi della coscienza, in senso non soltanto teoretico ma anche pratico, poiché la stessa libertà della coscienza comporta sempre l’annientamento di ciò a cui si rapporta e da cui reciprocamente viene minacciata di annientamento.