Nullità del matrimonio e prolungata convivenza
Chiamate a pronunciarsi sulla delibabilità delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario pronunciate a seguito di protratta convivenza tra i coniugi, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno sciolto il contrasto aderendo all’indirizzo che nega la delibazione per contrarietà con un principio dell’ordine pubblico italiano, purché si tratti di convivenza consolidatasi per almeno tre anni. Per quanto l’opposta soluzione (già sancita dalle S.U. nel 1988) si lasciasse preferire perché più aderente sia al sistema del diritto matrimoniale italiano che al principio concordatario, la pronuncia 17.7.2014, n. 16379 costituisce l’occasione per affrontare il problema di più larga portata sotteso alla questione decisa, cioè l’insufficiente tutela del coniuge economicamente più debole in caso di invalidità che segua ad una durevole comunione di vita, suggerendone una soluzione nell’equiparazione degli effetti dell’invalidità intervenuta a distanza
di anni a quelli del divorzio.
In tema di delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, a partire dal 2011 si è riproposto presso la Suprema Corte un contrasto giurisprudenziale tra un indirizzo (invero esiguo) incline a negare la delibazione qualora la nullità sia pronunciata a seguito di protratta convivenza tra i coniugi1 e l’orientamento consolidato che afferma la delibabilità in tale ipotesi2: contrasto, questo, riproduttivo di quello apertosi intorno allametà degli anni ’80 del secolo scorso3 e sciolto pianamente dalle Sezioni Unite n. 4700 del 20.7.1988 nel senso della delibabilità della sentenza pronunciata dopo il decorso di un anno dalla celebrazione del matrimonio concordatario o dopo che i coniugi abbiano convissuto successivamente alla celebrazione stessa4.
Con sentenza 17.7.2014, n.16379, le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto aderendo al primo, isolato indirizzo ed affermato così il principio per cui la convivenza come coniugi protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione costituisce una «situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano” » ed osta pertanto (ex art. 797, co. 1, n. 7, c.p.c., rinviato dal punto 4, lett. b), Protocollo addizionale all’Accordo del 1984 di revisione del Concordato tra Stato e Chiesa) alla delibazione delle relative sentenze ecclesiastiche di nullità, quale che sia il vizio genetico da queste accertato5. A completamento di questo principio, la Corte ha affermato che tale convivenza costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, sollevabile soltanto dal coniuge convenuto in sede di delibazione (a pena di decadenza, nella comparsa di risposta), e che il giudice della delibazione può disporre un’apposita istruzione probatoria, salvo il divieto di riesame del merito della controversia imposto dal richiamato Protocollo.
L’autorevolezza del Collegio che ha statuito il summenzionato principio non esime dal vagliare, sine ira et studio, una soluzione che, apparendo prevalentemente ispirata all’intento di stroncare il ricorso alla delibazione della nullità canonica in funzione delle più blande conseguenze patrimoniali civili dell’invalidità rispetto a quelle del divorzio e di supplire così alla colpevole inerzia del legislatore italiano nell’impedire la sopraffazione del coniuge economicamente più debole, sembra però – oltre che trascurare il vincolo di coerenza con i propri precedenti, testimoniato dall’imponente catena di pronunce di contrario segno – sacrificare le ragioni del diritto più di quanto all’apprezzabile sforzo di accomodare le storture normative sia consentito, entro un ordinamento retto dalla divisione dei poteri e dall’accentramento del controllo di costituzionalità in capo alla Corte costituzionale.
Preliminarmente, è utile chiarire che il problema dell’abrogazione della riserva di giurisdizione ecclesiastica sulla nullità del matrimonio concordatario non gioca alcuna rilevanza sulla questione esaminata6.
Anche ad ammettere il concorso della giurisdizione ecclesiastica e di quella civile sulla nullità canonica, resterebbe invero da dimostrare che il giudice civile possa giudicare della validità del matrimonio canonico secondo il diritto civile anziché secondo il diritto canonico, che pur l’Accordo di revisione continua a prevedere quale fonte di disciplina del matrimonio come atto. Ma ammessa anche tale dimostrazione, in ogni caso la cognizione del giudice della delibazione rimane circoscritta dalla domanda di parte e quindi limitata alla delibazione stessa: pertanto essa non è né nuova cognizione della nullità canonica – impedita dal divieto di riesame comminato dall’Accordo del 1984 – né tantomeno cognizione dell’invalidità civile.
Ciò posto, la soluzione data alla questione si giova del risalto che le norme costituzionali, convenzionali e codicistiche, valorizzando la vita familiare, presterebbero alla centralità del matrimonio-rapporto rispetto al matrimonio-atto7. Al riguardo, emerge anzitutto come l’enfasi sul rapporto quale baricentro di tutela dell’istituzione familiare non vada esente proprio in questa sede da un triste paradosso, sia perché se ne fa ricorso entro un matrimonio in cui per l’appunto il rapporto è venuto meno per effetto della separazione tra i coniugi che si accompagna all’introduzione del giudizio canonico di nullità, sia perché il rimedio civilistico che la negazione della delibazione rende ineluttabile per formalizzare la crisi familiare agli effetti civili è allora il divorzio, che a tale rapporto porrà fine. Nel momento in cui si invoca un fatto (la convivenza pregressa), non può ignorarsene uno più recente e definitivo e, come tale, più significativo nella graduatoria della significatività giuridica dei fatti (quella convivenza non c’è più, quando si chiede la delibazione): in altri termini, non si può, in nome della stabilità del consorzio coniugale, fare finta che la famiglia sia ancora unita, quando in realtà essa è venuta meno, al più tardi dalla nullità canonica, senza con ciò disattendere il principio della «verità della forma giuridica»8.
Il declamato favor validitatis incentrato sul primato del rapporto sull’atto – cui fa da singolare contrappunto l’accentuata friabilità del rapporto stesso, conseguente alla soggettivizzazione dei presupposti della separazione personale e del divorzio, assecondata da ultimo dalla Cassazione stessa9 – non riesce quindi a nascondere che l’alternativa in gioco non è tra un matrimonio finito perché invalido ed un matrimonio vitale perché valido, bensì tra un matrimonio finito perché invalido ed un matrimonio finito perché scioltosi.
Questa prospettiva si rivela allora ispirata ad una argomentazione «orientata alle conseguenze»10 ed in specie preordinata a che trovino applicazione gli effetti patrimoniali del divorzio a preferenza di quelli dell’invalidità,ma al di là di quanto il dato testuale ed il contesto sistematico permettano.
Difatti – posto che non può essere un fatto, come la convivenza, a costituire “principio di ordine pubblico”, ma solo la sua efficacia nella dinamica giuridica – resta indimostrato che la rilevanza preclusiva dell’impugnazione per invalidità del matrimonio civile, a seguito della protratta convivenza, sia nell’ordinamento italiano principio di ordine pubblico. Invero, nel diritto civile soltanto rispetto alle invalidità matrimoniali meno gravi, fondate su vizi del volere o difetti della capacità, la convivenza per il tempo stabilito dalla legge preclude l’azione,mentre per quelle più gravi (bigamia, incesto, delitto) essa non sortisce tale effetto, aggravando semmai il disvalore insito nell’atto. Poiché quindi non si può qualificare come principio generale del diritto matrimoniale italiano una regola particolare, che non abbraccia la totalità delle invalidità né fa della regola contraria, dettata per le invalidità più gravi, l’eccezione alla prima, è per ciò stesso impossibile elevare tale regola a principio di ordine pubblico – il quale ultimo costituisce un sottoinsieme dei principi generali dell’ordinamento e presidia il nucleo duro dei valori intangibili. Contrariamente opinando, d’altronde, si tratta di giustificare la distonia tra matrimonio civile e matrimonio concordatario, sotto il profilo per cui nel secondo la convivenza verrebbe a sanare, agli effetti civili, quegli stessi vizi che nel primo sono insanabili.
Peraltro, la convivenza come fatto impeditivo dell’impugnazione per invalidità del matrimonio civile, nelle ipotesi in cui assume tale rilevanza, l’assume in quanto si consolidi nella consapevolezza del vizio invalidante da parte del soggetto legittimato all’azione. Così, nell’art. 123 c.c. la convivenza in quanto tale rinnega il patto di non esecuzione del matrimonio, necessariamente bilaterale, attraverso la realizzazione del contenuto di diritti ed obblighi del matrimonio. Negli artt. 119, 120 e 122 c.c. la convivenza per almeno un anno deve seguire alla revoca della sentenza di interdizione, al recupero della pienezza delle facoltà mentali, alla scoperta dell’errore o alla cessazione della violenza o delle cause determinative del timore. Per contro, tre anni di convivenza – che le Sezioni Unite ricavano dalla disciplina dell’adozione, là dove esige che la convivenza matrimoniale sia durata tanto ai fini dell’idoneità dei coniugi ad adottare (art. 6, co. 1, l. 4.5.1983, n. 184) – non solo costituiscono un termine che, essendo diverso da quello enunciato dalle norme appena richiamate, è fondamentalmente arbitrario, ma neppure assumono alcuna efficacia impeditiva dell’impugnazione e quindi sanante rispetto al matrimonio civile, ove non seguano alla scoperta del vizio invalidante: sicché non è chiaro perché dovrebbero averla nell’ambito del matrimonio concordatario, in relazione alla delibazione della nullità11. D’altra parte, poiché si tratta di una sanatoria, assimilabile alla convalida tacita del contratto annullabile, essa non è rilevabile d’ufficio, come sarebbe se si trattasse di decadenza, che in materia sottratta alla disponibilità delle parti costituisce causa di improponibilità dell’azione (arg. ex art. 2969 c.c.)12: conseguentemente, è a maggior ragione arduo qualificare come principio di ordine pubblico, espressivo di un valore cogente ed irrinunciabile, una preclusione che nel diritto interno è rimessa alla disponibilità della parte interessata.
In conclusione, se è esatto che lo Stato italiano esprima favor per l’efficacia delle sentenze ecclesiastiche di nullità, acconsentendo ad un controllo di compatibilità delle stesse con l’ordine pubblico italiano meno rigoroso di quello riservato alle sentenze di altri ordinamenti stranieri e negando così la delibazione alle sole sentenze che si pongano in un contrasto assoluto con l’ordine pubblico13, allora è ingiustificato che si neghi la delibazione addirittura in mancanza di contrasto con l’ordine pubblico ed in presenza di quella che resta una differenza di disciplina tra i due ordinamenti, che lo Stato italiano si è impegnato a tenere in conto, accettando la «specificità dell’ordinamento canonico dal quale è regolato il vincolo matrimoniale, che in esso ha avuto origine» (punto 4, lett. b), Protocollo addizionale)14. L’enunciata valenza preclusiva della convivenza triennale finisce pertanto non solo, sul piano empirico, per impedire la delibazione della stragrande maggioranza delle sentenze ecclesiastiche di nullità, ma pure, sul piano normativo, per violare l’impegno concordatario – entro il quale l’esecutivo ben avrebbe potuto ritagliare un’eccezione collegata alla protratta convivenza, apponendo una riserva all’Accordo – ed in definitiva per incrinare il principio della bilateralità della fonte regolativa dei rapporti tra Stato e Chiesa, fissato all’art. 7, co. 2, Cost.
Aver rilevato che la soluzione data dalle Sezioni Unite alla questione della delibabilità della nullità canonica che segua ad una protratta convivenza non sia corretta non può far tralasciare che, qualora – com’è auspicabile – essa venisse in futuro superata, occorrerebbe porre fine al più ampio problema dell’insufficienza della tutela patrimoniale che la disciplina civile accorda al coniuge economicamente più debole pur quando l’invalidità sia pronunciata a seguito di una consolidata comunione di vita: problema, questo, che da una parte «non è addebitabile allo strumento concordatario (...) ma al legislatore ordinario»15, al quale soltanto compete risolverlo «nella prospettiva di un accostamento»16 con la disciplina divorzile, e che d’altra parte il pronunciamento delle Sezioni lascia insoluto sia per l’annullamento della trascrizione del matrimonio concordatario, che per le invalidità imprescrittibili del matrimonio civile, immuni da sanatoria.
A questo proposito, si tratterebbe di intervenire sugli artt. 129 e 129 bis c.c. assimilando gli effetti patrimoniali dell’invalidità a quelli del divorzio, a condizione che la convivenza coniugale si sia consolidata per un lasso di tempo omogeneo a quello che la legge ritiene necessario per far operare la sanatoria delle invalidità meno gravi e che il coniuge privo di adeguati redditi propri non fosse in malafede al tempo della celebrazione17. A questa stregua, con un intervento solo si gioverebbe a due cause. La prima è quella di garantire un trattamento identico in situazioni ragionevolmente analoghe, a beneficio dell’eguaglianza sostanziale. La seconda è quella di non snaturare definitivamente il matrimonio concordatario, la cui identità originaria di matrimonio canonico con effetti civili è oggi sempre meno decifrabile18, per essersi esso trasformato in un matrimonio canonico con vigorosi innesti di diritto civile già sul piano dell’atto. Se è vero che l’ibridazione della sua fisionomia provocata da interventi normativi e giurisprudenziali quali quelli che hanno allargato le cause di non trascrivibilità dell’atto o dato rilevanza all’atto di scelta degli effetti civili da parte dei nubenti per il tramite della trascrizione ha costituito il prezzo necessario ad una più alta tutela della sovranità statale ed all’unicità del modello familiare, quale che sia il tipo matrimoniale che vi dà origine, la modifica ventilata consentirebbe di risparmiare al matrimonio concordatario un colpo – qual è quello della negata delibazione per protratta convivenza – che rischia di essere più deleterio, senza essere affatto altrettanto necessario. Resta, sullo sfondo, l’esigenza di un ripensamento complessivo anche del matrimonio civile, la cui stessa identità è in pericolo di opacizzazione ove si rinunci a cogliere che nell’art. 29, co. 1, Cost. l’«inscindibile endiadi»19 tra società naturale e matrimonio implica che in questo vi sia un nesso biunivoco tra atto e rapporto, in cui ciascuno illumina l’altro. Il rapporto, come costituisce l’orizzonte di senso del matrimonio, così non è – al pari di quanto si ha nella convivenza more uxorio – “brivido da assenza di forma, di limitazioni, di condizionamenti”20 e cioè pura fattualità, ma è un dover-essere nel quale si sostanzia in dinamica di vita il valore già racchiuso nell’atto.
Esserne consapevoli consente di non appiattire la nozione di rapporto coniugale su quella di “vita familiare” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che abbraccia indifferentemente la vita matrimoniale e quella non matrimoniale21, e di sottrarsi così alla duplice virtualità negativa che tale approccio inevitabilmente manifesta. Sul piano applicativo, infatti, esso conduce a svalutare il criterio deontico informatore del rapporto, facendone dipendere l’allentamento dalla pura disaffezione tra i coniugi, a scapito della stabilità familiare protetta dall’art. 29, co. 2, Cost. Sul piano sistematico, esso porta ad offuscare la fisionomia del matrimonio moderno, sembrando sovrapporre ad esso il profilo – evidentemente incompatibile – di quello romano classico e divaricare così oltre il necessario le sorti del civile dal canonico, nella cui identità di struttura riposa invece il senso – minimo ma tuttora prezioso – della loro comunanza entro il modello del matrimonio cristiano affermatosi nella civiltà occidentale a superamento di quello romano22.
1 Cass., 20.1.2011, n. 1343, che si richiama a Cass., S.U., 18.7.2008, 19809, la quale però – come riconosce, tra gli altri, Vincenti, E., La convivenza successiva al matrimonio, in Libro dell’anno del Diritto, Roma, 2012, nell’affermare che la tesi che attribuisce alla convivenza rilevanza preclusiva della delibazione è preferibile – non enuncia un principio di diritto ex art. 384 c.p.c.,ma esprime semplicemente un obiter dictum. Di seguito, Cass., 8.2.2012, n. 1780 ha ripreso questo indirizzo, richiedendo tuttavia un’effettiva convivenza anziché una mera coabitazione tra i coniugi.
2 Cass., 4.6.2012, n. 8926; Cass., 6.8.2010, n. 18417; Cass., 1.2.2008, n. 2467; Cass., 10.5.2006, n. 10796; Cass., 12.7.2002, n. 10143; Cass., 7.4.2000, n. 4387; Cass., 7.4.1997, n. 3002; Cass., 11.2.1991, n. 1405; Cass., 17.6.1990, n. 6552; Cass., 29.5.1990, n. 5026; Cass., 12.2.1990, n. 1018; Cass., 17.10.1989, n. 4166; Cass., 24.6.1989, n. 3099.
3 In senso contrario alla delibazione, Cass., 14.1.1988, n. 192; Cass., 3.7.1987, n. 5823; Cass., 18.6.1987, n. 5358; Cass., 18.6.1987, n. 5354; Cass., 13.6.1984 n. 3536. In senso favorevole Cass., 15.1.1987, n. 241; Cass., 1.8.1986, n. 4916; Cass., 31.7.1986, n. 4897; Cass., 7.5.1986, n. 3064; Cass., 7.5.1986, n. 3057; Cass., 6.12.1985, n. 6134; Cass., 4.12.1985, n. 6064; Cass., 15.11.1985, n. 5601; Cass., 16.7.1985, n. 5077; Cass., 10.4.1985, n. 2370; Cass., 18.2.1985, n. 1370; Cass., 18.2.1985, n. 1376; Cass., 21.1.1985, n. 192; Cass., 13.6.1984, n. 3535; Cass., 3.5.1984, n. 2678; Cass., 3.5.1984, n. 2677; Cass., 12.4.1984, n. 2357.
4 Lo stesso principio è espresso da Cass., S.U., 20.7.1988, n. 4701.
5 Cfr. in particolare il § 3.9. La questione è stata rimessa da Cass., 14.1.2013, n. 712.
6 Tale abrogazione – che le SezioniUnite affermano (§ 3.2.2) – non può che rimanere qui impregiudicata: per il dibattito v. Finocchiaro, F., Diritto ecclesiastico, Bologna, 2003, 465 ss.
7 Peraltro, l’insistito riferimento alla valorizzazione del matrimonio-rapporto operato dalla Riforma del 1975 (v. Cass., 18.7.2008, n. 19809, § 3.1) va adeguatamente ripensato: per es., proprio la dilatazione del termine di convivenza da un mese ad un anno perché operi la cd. sanatoria depone (al contrario di quanto sostenuto da Cass. n. 16379/2014, § 3.7.2) per l’accrescimento della rilevanza del matrimonio-atto.
8 Castronovo, C., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 479, 675.
9 Cass., 21.1.2014, n. 1164, che stimando sufficiente per la separazione la disaffezione di uno dei coniugi la ritiene implicita nella presentazione del relativo ricorso.
10 Mengoni, L., L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Riv. trim dir. proc. civ., 1994, 1 ss.
11 Sotto questo profilo, la soluzione adottata dalle Sezioni Unite va al di là di quanto auspicato dallo stesso A. che – già Presidente del Collegio che ha deliberato Cass. 18.7.2008, n. 19809 – sembra esserne stato l’ispiratore in sede scientifica, se si tiene conto che Carbone, V., Validità del “matrimonio rapporto” anche dopo la nullità religiosa del “matrimonio atto”, in Fam. dir., 2011, 238 parla di coniugi «che avrebbero potuto, ma non hanno voluto far valere la nullità dell’atto, nel ricordato breve termine, preferendo convalidare il matrimonio» (corsivi aggiunti).
12 Renda, A., Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013, 413 nota 334. Per contro, Cass. n. 16379/2014 parla promiscuamente di sanatoria e di decadenza (§ 3.7.2).
13 Ciò proprio secondo Cass. n. 19809/2008 e Cass., S.U., 1.10.1982, n. 5026.
14 Entro tale specificità, rientra infatti palesemente l’imprescrittibilità della nullità canonica: per tutti Finocchiaro, F., op. cit., 484.
15 Cass. S.U. n. 4700/1988.
16 C. cost., 27.9.2001, n. 329.
17 Castronovo, C., Dal diritto canonico al diritto civile: nullità del matrimonio ed effetti patrimoniali, in Scritti in onore di Angelo Falzea, II, 1, Milano, 1991, 220 ss.
18 Così pure Nicolussi, A., Rosmini e il diritto di famiglia. Appunti di un giurista del ventunesimo secolo, in Dossi, M.- Ghia, F., Diritto e diritti nelle «tre società» di Rosmini, Brescia, 2014, 75 s.
19 C. cost., 18.11.1986, n. 237.
20 Bonilini,G., Il mantenimento post mortem del coniuge e del convivente more uxorio, in Riv. dir. civ., 1993, I, 252.
21 Cass. n. 16379/2014, § 3.6.
22 Cfr. Jemolo, A.C., Il matrimonio, in Tratt. Vassalli, III, 1, Torino, 1957, 6.