PAGANO, Nunziante
PAGANO, Nunziante. – Nacque a Cava de’ Tirreni nel 1681, da Alessio e Teresa Trara.
La famiglia, che fiorì per secoli nel territorio cavese, vantava tradizioni nel campo dell’arte muraria e della lavorazione dei tessuti. Dal matrimonio di Alessio e Teresa nacquero anche Michele, sacerdote, Saverio, Ferdinando e Giacomo, tutti vissuti a Cava.
La notizia, data quasi sempre per scontata, dell’origine napoletana di Pagano si deve alla scarsità di informazioni biografiche e al fatto che, a quanto pare, trascorse tutta la vita nella capitale del Regno. Ma parecchi cenni inequivocabili nella sua opera (per esempio Batracomiomachia, III, 19: «Cossì ddecette Marte; e Giove scuosso / Sajettaje co no truono spaventuso / Che nne tremmaje l’Olimpo, e pella e uosso, / E ‘nfi a la Cava a nnuje, Monte Pertuso» [Così disse Marte; e Giove scosso saettò con un tuono spaventoso che ne tremò l’Olimpo, e pelle e ossa, e perfino da noi, alla Cava, il monte Pertuso]) e soprattutto le ricerche di Ulisse Prota Giurleo, 1955 e Salvatore Milano (in Carraturo, 1986, p. 69) dissipano ogni dubbio sull’origine cavese di Pagano.
Mancano notizie sulla sua formazione. Sappiamo, come informa Pagano stesso in Le bbinte rotola de lo valanzone (XIX, 16, 1-2: «A Nnapole io porzì [= anche] fuie studentiello / e la loica studiaie a San Tommaso»), che frequentò i corsi di logica e metafisica presso il monastero di S. Tommaso a Napoli, sede della facoltà di filosofia e teologia. Passò poi a più pratici e lucrosi studi di diritto, che gli aprirono le porte della professione forense. Non si segnalò tuttavia particolarmente per la sua attività professionale (Ferdinando Galiani [1970, p. 200] lo definisce «forense di poca fortuna e di poco grido»), che dovette comunque procurargli una posizione economica di qualche rilievo, se è vero che, dopo la morte della moglie Lorenza De Marinis, si ritirò in un’ampia proprietà ai Calori (un casale nella zona di Chiaiano). Qui, in età ormai abbastanza avanzata e nel giro di pochi anni (tra il 1746 e il 1749, se si tiene conto delle date di pubblicazione), si dedicò a quella produzione letteraria, tutta in dialetto napoletano, cui è quasi sostanzialmente legata la sua fama.
Soprattutto grazie alla reputazione di cui godette in ambito cittadino come cultore del vernacolo, fu cavaliere e sindaco dell’Accademia del Portico della Stadera, con lo pseudonimo di Abuzio Arzura con cui si firmò nei frontespizi di tutte le sue opere.
L’Accademia, di cui fu membro anche Giambattista Vico e che arrivò a contare nel 1746 ben 454 soci, era nata nel 1725 per iniziativa di sette appartenenti all’Accademia legale detta de’ Semplici; aveva interessi e finalità di natura etica, giuridica e umanistica. Nel suo stemma figurava un cuore umano su cui poggiavano una bilancia (la stadera) e una colomba, con il trinomio latino «Numero, pondere, mensura». Le riunioni si tenevano in via della Zecca nella casa dell’avvocato Girolamo Morano, che aveva assunto il nome accademico di Lello. Allo stesso Morano risalgono le Viginti Tabulae sive normae Equitum Staterae, brevi regole o norme di comportamento, che i membri del sodalizio erano tenuti a rispettare, pubblicate nel 1730 e successivamente a più riprese parafrasate in versi latini, greci, italiani e napoletani, a riprova del successo che riscossero nel ceto intellettuale e professionale della città.
La prima opera di Pagano fu pubblicata nel 1746: Le bbinte rotola de lo valanzone, azzoè commiento ‘ncopp’a le bbinte nnorme de la Chiazza de lo Campejione (I venti rotoli del bilancione, cioè commento sulle venti norme della Piazza del Campione: Campione era il nome della stadera grande della Dogana e, per metonimia, anche del magistrato preposto al suo controllo). Si tratta di ampie illustrazioni in ottave delle 20 regole, destinate in prima istanza alla recitazione pubblica nel corso delle periodiche riunioni accademiche. Nell’opera risaltano, da un lato, le ambizioni civili e le generiche aspirazioni morali ed estetiche dell’intellettualità napoletana coinvolta nel clima della nuova dinastia borbonica (al cui elogio è dedicato quasi per intero il «ruotolo settemo»); dall’altro, il riferimento alla grande letteratura in vernacolo del secolo precedente. Di tali «rotoli» Pagano fu anche, a quanto pare, efficace e trascinante declamatore in prima persona, come risulta da un celebre ritratto dell’abate Galiani [1970, pp. 200 s.], tanto brioso nella descrizione del personaggio, quanto severo e astioso nel giudizio finale sull’opera: «Avea il Pagano una così grottesca e lepida figura, la voce tanto caricata, la declamazione tanto pulcinellesca, che era impossibile sentirlo recitare e non ridere. Grasso, paffuto, con sopracciglia nere, bocca larga, pirucca mal pettinata e storta, abito malconcio, chiunque se lo ricorda può contestare che portava scritta in viso l’ilarità e la buffoneria. Quindi avvenne che, nel recitar egli in ciascuna accademica adunanza uno di questi brevi canti da lui denominati ruotoli, incontrò grandissimo applauso e fu la delizia di tutti gli ascoltatori. Ma sparvero tutt’i preggi delle sue poesie allorché si viddero impresse e non più da lui recitate. Infatti sono da contarsi tralle più deboli produzioni del nostro dialetto e rispetto ai pensieri e riguardo allo stile, egualmente snervato e scorretto».
I tratti personali messi a fuoco dall’arcigno abate corrispondono probabilmente al vero, se lo stesso Pagano, nella Mortella d’Orzolone (X, 16, 1-4), dice del suo alter ego accademico «’Mmiezo a na mmora po’ de peccerille / Da li Calure venne Abbuzio Arzura / Che parea ascio ‘mmiezo a li frongille, / Chiatto, tregliuto, e tunno de centura» (Poi tra un gruppo di ragazzini venne dai Calori Abuzio Arsura, che sembrava un gufo in mezzo ai fringuelli, grasso, tarchiato e rotondo di cinta) e garantisce l’altissimo indice di gradimento delle sue esecuzioni rievocando, nel prologo de Le bbinte rotola, «le rresatelle a schiattariello» (le risatine a crepapelle) del pubblico dell’Accademia del Portico della Stadera a cui le «sfornacava».
Senz’altro ingenerosa risulta la stroncatura di Galiani, soprattutto in rapporto alla qualità non comune dello stile robusto, vario, linguisticamente assai attrezzato di Pagano. È certo d’altronde che Galiani ebbe una nozione molto approssimativa delle opere di Pagano. Oltre Le bbinte rotola aveva letto forse solo la Batracomiomachia, di cui peraltro pare disposto a riconoscere parzialmente il valore solo in base al decisivo parere dell’«illustre nostro professore di lettere greche Giacomo Martorelli» (ibid.); fornisce informazioni generiche sulla Fenizia; della Mortella non conosce che il titolo, dubitando addirittura della sua avvenuta pubblicazione.
Alla carica di sindaco dell’Accademia Pagano giunse nel 1747, in seguito alla pubblicazione della sua versione napoletana in tre libri della Batracomiomachia omerica: un coraggioso rifacimento (di là dalle ripetute dichiarazioni di fedeltà) dell’opera originale, di cui, senza giungere mai a effetti parodici, si accentua sistematicamente il versante umoristico, con soluzioni molto brillanti nella traduzione, che mira a mettere in evidenza le risorse peculiari del dialetto napoletano proprio in rapporto, e in concorrenza, con la lingua della grande tradizione letteraria (da tutti elogiato, anche dall’incontentabile Galiani, lo scintillante sforzo inventivo nel conio dei nomi napoletanizzati adeguati ai protagonisti animaleschi della battaglia omerica).
L’eventuale intento autopromozionale ai fini della carriera accademica fu forse secondario rispetto a quello che si può considerare il tratto più riconoscibile della personalità intellettuale e civile di Pagano: la volontà di attestare la dignità del napoletano come strumento di comunicazione culturale. «Napole cchiù d’ogn’aotra cetate de lo munno – troviamo scritto in un passo signifcativo del prologo della Batracomiomachia - ha mantenuto e conservato li costumme, lo gusto e lo lenguaggio grieco». Il radicale, esclusivo ‘napoletanismo’ di Pagano può essere confermato dalla singolare abitudine di dedicare ciascuna delle sue opere a un monumento insigne o popolare della città (Le bbinte rotola, ovviamente, al Portico della Stadera; la Batracomiomachia «alli Quatto de lo Muolo», le quattro statue dei più grandi fiumi del mondo collocate presso la lanterna del Molo, e così via).
Se le due opere citate offrono qualche appiglio per la ricostruzione della biografia di Pagano, in quanto membro dell’Accademia del Portico della Stadera, il poemetto («arroieco», cioè ‘eroico’) in ottave Mortella d’Orzolone (Napoli 1748) e il dramma pastorale o «chélleta tragecommeca» (‘favola tragicomica’) La Fenizia (ibid. 1749) sembrano frutto dell’«arcadica solitudine» (Malato, 1989, p. 5 ) in cui l’autore si confinò nella sua tenuta dei Calori dopo la morte della moglie. Opere di non eccelso livello letterario e di un po’ stanca matrice tradizionale, furono nondimeno valutate da Michele Scherillo (1878, pp. 308 ss.) con straordinario favore: per la Mortella Scherillo azzardò accostamenti entusiastici addirittura a Pontano e a Sannazaro, oltre che alla pittura campestre di Salvator Rosa. Più pertinente, per il dramma pastorale, il riferimento dall’autore stesso suggerito al modello della Rosa di Giulio Cesare Cortese, magari rimpolpato dalla concreta esperienza della vita campestre e delle figure dei villani maturata nel volontario ritiro ai Calori.
Pagano morì a Napoli l’11 agosto 1756.
Di quattro opuscoli contenenti egloghe in napoletano su fatti storici del biennio 1747-48 dà notizia Pietro Martorana (1874); di un poema sulle antichità di Cava, ora perduto, l’autore stesso fa menzione ne Le bbinte rotola e nella Mortella; ancora più vaghe sono le notizie di un poema su Le memorie di Napoli dalle origini al Settecento.
La Batracomiomachia d’Omero, azzoè La vattaglia ntra le rranocchie e li surece è edita a cura di E. Malato in N. Pagano - N. Capasso, Omero Napoletano. La vattaglia ntra le rranocchie e li surece. L’Iliade in lingua napoletana, a cura di E. Malato - E.A. Giordano, Roma 1989, pp. 3-72; Le bbinte rotola de lo valanzone, la Mortella d’Orzolone, La Fenizia, in Poeti e prosatori del Settecento, a cura di R. Troiano, I-II, Napoli 1994. Le Introduzioni di Malato e Troiano sono contributi critici essenziali.
Fonti e Bibl.: G. Carulli, Notizia della origine del Portico della Stadera e delle leggi colle quali si governa, Napoli 1743, passim; F. Galiani, Del dialetto napoletano (1779), a cura di E. Malato, Roma 1970, pp. 200 s.; A. Carraturo, Lo «stato attuale» della città (1784), a cura di S. Milano, Cava dei Tirreni 1986, p. 69; P. Martorana, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napoletano, Napoli 1874, pp. 316-319; M. Scherillo, Una pagina della storia letteraria del dialetto napoletano: N. P., in Giornale napoletano di filosofia, lettere, scienze morali e politiche, IV (1878), pp. 297-319; U. Prota Giurleo, in Il Fluidoro, II (1955), f. 11-12, p. 372; E. Malato, La poesia dialettale napoletana. Testi e note, I, Napoli 1959, pp. 401 ss., 620 ss.; E. De Mura, Poeti napoletani dal Seicento ad oggi, Napoli 1963, p. 61.