Nuove norme sui contratti di convivenza
Alla controversa disciplina delle «unioni civili» il legislatore ha aggiunto, inserendole nello stesso decreto legge e cogliendo l’occasione offerta dall’urgenza “politica” che ha determinato il varo della normativa, nuove disposizioni sulla convivenza more uxorio e, in particolare, sui «contratti» destinati a regolare i rapporti tra i conviventi, i quali siano disposti a disciplinare in via negoziale i loro rapporti sul piano patrimoniale. La nuova normativa appare molto analitica su questioni procedurali e, dal punto di vista strettamente giuridico, piuttosto marginali, mentre non affronta le questioni nodali relative all’ambito di autonomia concesso dall’ordinamento ai conviventi per regolare ex ante le conseguenze della cessazione della convivenza, anche per il caso di morte del partner.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 3. I profili problematici 3.1 Compenso per la cessazione della convivenza 3.2 Attribuzioni post mortem e patti successori
Il tema non è certamente nuovo, se si considera che se ne erano già occupati numerosi studiosi1, nell’ambito di un vivace dibattito2, ma anche attraverso commissioni di studio costituite ad hoc3, evidenziando una serie di problematiche e spunti di riflessione de iure condendo, che la limitatissima esperienza maturata sul piano della prassi negoziale non ha consentito tuttavia di verificare e sviluppare adeguatamente. Ciò può spiegare e, almeno in parte, giustificare una normativa decisamente deludente, a parte la sciatta (nonché visibilmente frettolosa) redazione degli enunciati normativi, non essendo stati affrontati gli snodi problematici decisivi.
È evidente, del resto, che ci si trova in presenza di un rapporto personale nascente, senza alcun dubbio, sul piano del fatto e che può rilevare, in quanto tale, soltanto a posteriori, si direbbe, ossia se (e nella misura in cui) la convivenza si sia effettivamente realizzata con carattere di stabilità (e, si aggiunge in giurisprudenza: serietà), ma che tuttavia non riesce a rimanere relegata in una dimensione meramente fattuale, dunque sul piano esclusivamente sociale: il rapporto che i conviventi non hanno voluto formalizzare mediante il matrimonio, perciò, quale effetto di un apparente paradosso, finisce per incrociare l’ordinamento, che si rifiuta di lasciare detto rapporto privo di rilevanza giuridica, in funzione della natura degli interessi e dei diritti del convivente di volta in volta in gioco (non di rado, va da sé, inseparabili, sempre sul piano fattuale, da quelli degli eventuali figli minori).
La considerazione appare oggi persino scontata, con un’immediata riprova nei diversi interventi legislativi avvenuti in passato, nei quali la convivenza è stata considerata elemento della fattispecie normativa, per dar vita alle varie forme di tutela, in contesti e rapporti giuridici molto diversi ed eterogenei4. La tendenza dell’ordinamento si conferma, del resto, nell’attuale disciplina con l’estensione – finalmente esplicitata, seppure in forma incomprensibilmente non completa, ossia limitata ad alcuni diritti patrimoniali – della disciplina dell’impresa familiare (con il nuovo art. 230 ter c.c.), così come con la disposizione sugli alimenti per il convivente bisognoso (di cui al co. 65 dell’articolo unico, che contiene la normativa in esame). Disposizioni, queste ultime, non già sul contratto – il dato non è secondario, rispetto alla riflessione sul nesso tra convivenza ed esercizio dell’autonomia privata –, bensì sul rapporto nascente dalla convivenza, come mero fatto che, s’è detto, segna l’origine della relazione destinata a consolidarsi sullo stesso piano, ma evidentemente non vale – o almeno non valeva, sino ad ora – a individuarne immediatamente la disciplina giuridica.
Diversa, evidentemente, è la prospettiva del contratto, che dovrebbe costituire la figura centrale (oltre che la cornice concettuale, per così dire) delle nuove disposizioni. L’alternativa al contratto conduce alle norme sulle obbligazioni derivanti dalla legge, nelle situazioni tradizionalmente definite “quasi contrattuali”, soprattutto con riferimento alla categoria delle “obbligazioni naturali”5.
In sintesi, se si può dire che non mancava l’interesse per il tema, nel momento in cui lo stesso andava a intrecciarsi con la più generale questione degli spazi e delle potenzialità dell’autonomia privata nei rapporti familiari6, l’esame della letteratura giuridica italiana mostra una rilevanza delle questioni essenzialmente in chiave teorico-scientifica e comparatistica, in assenza di una significativa prassi all’insegna dell’autonomia negoziale. Ciò è del resto pienamente comprensibile, trattandosi di ambiti tradizionalmente ritenuti estranei o “immuni” rispetto alla negoziabilità di rapporti, che richiamano una generale indisponibilità delle vicende e delle situazioni giuridiche soggettive così fortemente radicate nel carattere personale del rapporto stesso7. Erano note, peraltro, le discipline normative che, in altri ordinamenti, avevano già affrontato il problema della regolamentazione della materia, e che si distinguevano tanto per le linee di tendenza, quanto per le soluzioni tecniche adottate8.
Se si volesse tentare di sintetizzare un dibattito molto ricco di spunti e di considerazioni “di sistema”, si potrebbero enunciare essenzialmente le questioni relative:
a) al nesso con la disciplina dell’obbligazione naturale, ossia alla possibilità di rendere convenzionalmente coercibile la prestazione caratterizzata dall’adempimento di un dovere morale o sociale;
b) al carattere atipico del contratto e alla stessa “causa” delle attribuzioni patrimoniali, evidentemente giustificate dal legame affettivo e dunque dalla comunione di vita materiale e spirituale, quale fatto determinante le dette attribuzioni;
c) alla regolamentazione negoziale degli interessi (puramente) personali, ovvero all’incidenza sulla condizione personale dei conviventi di eventuali pattuizioni “punitive” (del tipo, ad esempio, di clausole penali, legate a condotte qualificabili in termini di inadempimento), idealmente accostabili a disposizioni speculari, ma di carattere, al contrario, “premiale”;
d) agli spazi operativi della disciplina convenzionale degli interessi economici e patrimoniali in senso stretto;
e) alla forma richiesta per la validità di tali accordi;
f) ai margini di disponibilità degli interessi dei conviventi con riferimento alle vicende successorie e, soprattutto, al divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c.9
Svolte le rapide considerazioni che precedono, va rilevato subito che la «disciplina delle convivenze» stessa, inserita all’interno – come seguito e quasi a completamento – della «regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso» (che ha così costituito l’occasione per l’introduzione delle norme sulle convivenze), appare già prima facie meno curata (o, se si preferisce, meditata) rispetto al blocco di disposizioni sulle unioni civili. La disciplina delle convivenze (tra persone di sesso diverso), riconducibili alla risalente tematica, molto dissodata da dottrina e giurisprudenza, della cd. famiglia di fatto10, non era del resto reclamata dalla società civile, avendo le più rilevanti e ricorrenti questioni già trovato risposte, più o meno plausibili, da parte della giurisprudenza (anche all’esito delle analisi dottrinali).
In tale contesto, le disposizioni appaiono, in alcuni casi, utili per fissare legislativamente la regola, che poteva risultare esposta al rischio dell’incertezza fisiologica derivante dalla decisione giudiziale del caso concreto. Esempio emblematico può essere l’aggiunta dell’art. 230 ter c.c., relativamente alla disciplina dell’impresa familiare “estesa” – correttamente, ad avviso della più attenta dottrina in materia – al convivente (se non ricorre un altro tipo di rapporto, ossia quello societario o di lavoro subordinato, all’interno del quale sono già disciplinate le forme di tutela), anche se si sarebbe potuto procedere con un’estensione più ampia, ossia “piena” dell’art. 230 bis c.c., posto che la norma riguarda, inequivocabilmente, l’attività all’interno e a vantaggio della famiglia, senza alcun riguardo al rapporto coniugale nascente dal matrimonio11. In altri e più numerosi casi gli enunciati normativi potrebbero, in linea di pura ipotesi, risultare utili nella redazione dei contratti, in quanto indicano cosa possa essere contenuto del contratto (come nel caso del co. 53), mentre in altri casi ancora sanciscono l’invalidità del contratto (co. 50, 57), disciplinano la sua opponibilità ai terzi (co. 52) ovvero dettano le regole per la risoluzione (co. 59, 60), oltre alla norma aggiunta alle disposizioni di diritto internazionale privato (con l’art. 30 bis l. 31.5.1995, n. 218), così come alla previsione degli adempimenti a carico del professionista che riceve l’atto (notaio o avvocato, «che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico», co. 51).
Le disposizioni in esame sembrano, piuttosto, essere costruite – al di là delle incongruenze terminologiche, ma anche in ultima analisi concettuali, sulle quali non è il caso al momento di soffermarsi, per non cadere nella consueta, e in larga parte inutile, lamentela ex post alla tecnica di redazione delle norme legislative – come una sorta di “guida pratica alla redazione” dei contratti, che tuttavia non riposa su (nel senso di dare attuazione, sul piano normativo a) una chiara opzione di politica del diritto, tale da orientare l’interprete. Può essere sufficiente considerare il già ricordato co. 65, dedicato alla cessazione della convivenza e all’intervento del giudice, il quale «stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento». Se l’idea di fondo fosse quella di lasciare alle parti il più ampio spazio per regolare i loro rapporti sul piano patrimoniale anche (e soprattutto, s’è detto) per il caso di cessazione della convivenza, non può non lasciare perplessi l’introduzione di un regime patrimoniale “minimo” a vantaggio del convivente che risulterà maggiormente svantaggiato dalla cessazione della convivenza, trovandosi in stato di bisogno non superabile con le sue stesse forze.
Al di là della disposizione appena menzionata, rimane dunque il nodo dell’individuazione dell’ambito di esercizio delle facoltà negoziali riconosciute dal legislatore. Si tratta, in altri termini, di comprendere se e in quale misura i conviventi-contraenti possano disciplinare i loro rapporti economici con piena (e comunque una significativa dose di) autonomia, anche – si direbbe, soprattutto – in vista della crisi della comunione di vita materiale e spirituale. Al di là della moltitudine di clausole, che astrattamente possono ipotizzarsi – ed effettivamente sono state considerate ed elaborate, nell’analitica e preziosa “guida operativa” in tema di convivenza, significativamente sottotitolata Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale, già ricordata in nt. 3 –, le questioni più spinose, sul piano giuridico – se si preferisce, sul piano dei principi – sembrerebbero ruotare, essenzialmente, intorno a due tematiche, rispetto alle quali il valore aggiunto, per così dire, della nuova disciplina sembra invero, e incomprensibilmente, assai scarso (se non inesistente).
Il primo interrogativo induce a domandarsi se vi siano dei limiti e, in caso affermativo, in che modo questi ultimi opererebbero, rispetto alla pattuizione di un compenso per la cessazione della convivenza (si deve ipotizzare: per recesso unilaterale ai sensi del co. 59, lett. b). Nessun supporto, sul piano argomentativo, offrono all’interprete le singole disposizioni, neanche con la norma che prevede l’intervento del giudice per decidere sul diritto agli alimenti del coniuge in stato di bisogno (al momento della cessazione della convivenza). Norma, quest’ultima, che dovrebbe operare – a voler seguire una logica elementare – nel caso in cui manchi qualsiasi pattuizione in tal senso (come tutela minima, s’è detto), ma l’assenza di regole di questo tipo appare inverosimile, considerando che lo scopo principale del contratto in esame dovrebbe consistere proprio nella regolamentazione ex ante degli effetti (patrimoniali) della cessazione del rapporto, con l’intento dei conviventi-contraenti di evitare l’intervento del giudice, il quale in ogni caso non potrà applicare la disciplina a tutela del coniuge, mancando il vincolo matrimoniale. La seconda questione, di carattere altrettanto generale e parimenti ignorata dal frettoloso e sciatto legislatore, attiene alla possibilità (e, in caso affermativo, all’individuazione dei limiti) per i contraenti-conviventi di pattuire attribuzioni patrimoniali a vantaggio (e rispettivamente a carico) dell’uno o dell’altro, destinate ad avere effetto alla cessazione della convivenza per morte.
Sul primo punto, la questione più complessa si colloca sullo sfondo dell’annosa questione relativa alla qualificazione della clausola che, se (formulata e di conseguenza) qualificata come «penale» (ex artt. 13821384 c.c.), rischia di incorrere nella nullità delle pattuizioni che, in qualche modo, andrebbero a comprimere l’esercizio di una libertà, ossia la libera decisione di porre termine alla convivenza (che la nuova normativa indica, tra i casi in cui il contratto «si risolve», come «recesso unilaterale»: co. 59, lett. b). Si ipotizza evidentemente, da parte di chi propende per la tesi della nullità della clausola assimilabile a una penale, che i conviventi-contraenti determinino ex ante il costo dell’inadempimento – s’intende, agli obblighi che avranno previamente individuato nel contratto: del tipo, «il convivente che viene meno all’obbligo di fedeltà o di coabitazione pagherà all’altro la somma di euro …» –, ma l’ipotesi, pur possibile in astratto, appare piuttosto improbabile, mentre è ipotizzabile, con maggiore realismo, la pattuizione di una somma legata alla cessazione imputabile alla volontà ovvero alla condotta del soggetto obbligato (ossia, come previsto dalla legge, il recesso unilaterale, eventualmente determinato dalla condotta dell’altro convivente).
Il dubbio di incorrere nella nullità della clausola qualificata come «penale», dunque, a parere di chi scrive, non dovrebbe sussistere; mentre, per altro verso, il criterio di riferimento, nonché il parametro normativo più prossimo sul piano sistematico, è certamente costituito dall’assegno di divorzio (ovvero dal contributo di mantenimento in sede di separazione). Se la violazione degli obblighi coniugali costituisce – non soltanto, s’intende, ma certamente in misura preponderante – una ragione di danno, prodotto sul piano patrimoniale (e in modo oggettivo, per così dire) con la cessazione della comunione di vita e, nella considerazione analitica di una serie di parametri eterogenei, liquidabile in danaro, rimane davvero incomprensibile la ragione per la quale tale risultato, voluto dal legislatore in presenza del vincolo matrimoniale, non possa essere raggiunto attraverso un’apposita convenzione ex ante tra i conviventi, che finirebbe per mimare quanto – assai spesso in modo molto più lungo e complesso, doloroso e in ogni caso conflittuale – accade a seguito della crisi del rapporto tra coniugi.
Piuttosto che ricercare astratte argomentazioni “di principio” per giungere all’invalidità, molto più correttamente – sempre sul piano sistematico, oltre che in funzione di una tutela effettiva per la parte avente diritto – si potrebbe seguire la logica del controllo ex post sulla congruità della somma – ma anche di altra attribuzione patrimoniale: uso o usufrutto dell’abitazione, cessione di un bene ecc. – pattuita come “corrispettivo” (liquidato anticipatamente, in via convenzionale) a fronte della cessazione del rapporto. Per quanto paradossale ciò possa apparire, sarebbe proprio la disciplina della clausola penale, di cui all’art. 1384 c.c., a fornire in questo caso il modello di riferimento, con la più emblematica espressione del controllo a posteriori sulla congruità della liquidazione anticipata del danno, ammesso e favorito dall’ordinamento (si consideri, in tal senso, la giurisprudenza che ha sancito anche la riducibilità d’ufficio della penale). Il principio, di cui la richiamata disposizione costituisce una paradigmatica manifestazione, svolgerebbe, nel caso in esame, un’utilissima funzione, consentendo al giudice di intervenire con la riduzione dell’entità dell’attribuzione patrimoniale, qualora al momento della cessazione della convivenza le condizioni dei contraenti siano mutate rispetto al momento della pattuizione, in modo tale da rendere iniqua, allo stato, la pattuizione (per rimanere al testo della norma, «manifestamente eccessiva», rispetto a quanto i conviventi avrebbero lealmente pattuito nello scenario fattuale, da considerare in senso lato ma in primo luogo con riferimento alle condizioni economico-patrimoniali dei conviventi, al momento in cui cessa la comunione materiale e spirituale). La nullità rimarrebbe fuori gioco per principio – fatti salvi i casi in cui la pattuizione incorra nella violazione di norme imperative, s’intende –, grazie a una valutazione ulteriore, tendente a considerare le ricadute concrete della prospettazione giuridica.
Sul secondo punto, relativo all’intralcio costituito dal divieto dei patti successori ex art. 458 c.c., va ricordato che a una lettura asseritamente rigorosa e intransigente – di certo poco attenta alla considerazione di contesto culturale giuridico allargato, se non altro rispetto all’ambito europeo12 – del divieto dei patti successori, si contrappongono argomenti più che spendibili per sostenere esattamente il contrario13. La specificità dell’attribuzione e la sicura meritevolezza di tutela degli interessi dovrebbero, infatti, sorreggere e giustificare la validità della pattuizione, quale donazione mortis causa (del tipo si praemoriar o cum moriar, con attribuzione attuale e produzione differita dell’effetto finale) fermo il controllo – che potrà avvenire evidentemente soltanto post mortem – sull’eventuale lesione dei diritti dei legittimari14.
I punti appena evidenziati in forma assai sintetica – ve ne sarebbero anche altri, come ad esempio quello, che davvero richiederebbe l’intervento del legislatore, concernente il regime degli acquisti e della responsabilità verso i terzi per le obbligazioni di carattere familiare, mentre il nostro legislatore si è maldestramente limitato a prevedere che i conviventi possono scegliere, nel contratto scritto, «il regime patrimoniale della comunione dei beni», co. 53, lett. c), pur essendo a tutti noto che, nei rapporti coniugali, la scelta al momento del matrimonio va normalmente verso il regime di separazione dei beni) – costituiscono la dimostrazione lampante del fatto che la disciplina emanata rappresenta davvero un’occasione mancata, da parte del legislatore, per fare chiarezza su un tema assai delicato, relativo ai rapporti tra autonomia privata e convivenza.
Note
1 Per tutti, di recente: Balestra, L., Convivenza more uxorio e autonomia contrattuale, in Giust. civ., 2014, 133 e ivi tutti i necessari riferimenti; in chiave anche comparatistica, Oberto, G., I diritti dei conviventi. Realtà e prospettive in Italia e in Europa, Padova, 2012.
2 Si veda, esemplificativamente, I contratti di convivenza, a cura di E. Moscati e A. Zoppini, Torino, 2002, con gli atti di un convegno romano del 2000, nonché Stare insieme. I regimi giuridici della convivenza tra status e contratto, a cura di F. Grillini e M.R. Marella, con presentazione di S. Rodotà, Napoli, 2001.
3 In particolare, in ambito notarile: si veda la Guida operativa in tema di convivenza. Vademecum sulla tutela patrimoniale del convivente more uxorio in sede di esplicazione dell’autonomia negoziale, 2013.
4 Per un’ampia elencazione, all’interno di una motivazione esemplare in argomento, si veda: Cass., 20.6.2013, n. 15841, in Giust. civ., 2013, 1537.
5 Di qui la questione, di stampo teorico, della “contrattualizzazione” dell’obbligazione espressiva dell’adempimento di un dovere morale e sociale: cfr. Spadafora, A., L’obbligazione naturale tra conviventi ed il problema della sua trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento negoziale, in I contratti di convivenza, cit., 157, ma anche Balestra, L., Le obbligazioni naturali, in Tratt. Cicu –Messineo – Mengoni - Schlesinger, Milano, 2004, 107, nonché Id., Convivenza more uxorio, cit., 143.
6 Nella prospettiva di studio dei temi generali sul “contratto”, ad esempio, la “interferenza” dei piani è messa in luce, tra gli altri, da Oberto, G., Contratto e famiglia, in Tratt. Roppo, VI, Interferenze, Milano, 2006, spec. 349 in tema di «contratto e regimi patrimoniali della famiglia di fatto».
7 Con la conseguente impostazione massimamente restrittiva, che caratterizzava la più autorevole dottrina coeva al codice civile: per tutti, Santoro Passarelli, F., L’autonomia privata nel diritto di famiglia, in Dir. giur., 1945, 3.
8 Si vedano i contributi di G. Giaimo, L.P. Carbone e F. Vicenzi, P. Rescigno, M. Ieva, in I contratti di convivenza, cit.; nonché, più di recente, Las Casas, A., Accordi prematrioniali, status dei conviventi e contratti di convivenza in una prospettiva comparatistica, in Contratti, 2013, 913.
9 Per una preziosa sintesi ricostruttiva, nell’ordine indicato: Balestra, L., Convivenza more uxorio, cit.
10 Si vedano i primi studi risalenti agli anni Settanta, come quelli raccolti negli atti del convegno di Pontremoli del 1976: La famiglia di fatto, Atti del convegno nazionale di Pontremoli (2730 maggio 1976), Montereggio-Parma, 1977; la riflessione di Bessone, M., Art. 29 Cost., in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1976, 32 ss.; i lavori monografici di Gazzoni, F., Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983 e di Prosperi, F., La famiglia non “fondata sul matrimonio”, Camerino-Napoli, 1980.
11 Per tutti: Balestra, L., Attività d’impresa e rapporti familiari, in Tratt. dir. priv. Alpa Patti, Padova, 2009, 211 ss.
12 Un’attenta ricostruzione del problema in chiave comparativa, ad tempus, si legge in Zoppini, A., Le successioni in diritto comparato, in Tratt. dir. comp. Sacco, Torino, 2002, 155, 172.
13 Reclamato da quanti hanno da tempo stigmatizzato l’anacronismo del divieto e prospettato l’esigenza riformatrice in materia: per tutti, Roppo, V., Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv., 1997, 5; Gazzoni, F., Patti successori: conferma di una erosione, in Riv. not., 2001, 238; nonché Palazzo, A., Istituti alternativi al testamento, in Tratt. dir. civ. C.N.N., Napoli, 2003.
14 Per la più attenta e documentata ricostruzione, si veda Carrabba, A.A., Donazioni, in Tratt. dir. civ. C.N.N., Napoli, 2009, 630 ss.