OBERTO I
– Capostipite degli Obertenghi, è attestato a partire dal 13 aprile 945, quando fu presente, con il titolo di conte, a un placito tenuto nel palazzo regio di Pavia (I Placiti del “Regnum italiae”, 1955-60, I, p. 551). Compare poi nel 951 e nel 953 come testimone di due diplomi regi, prima con il titolo di marchese, poi con quello di conte del sacro palazzo (I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, 1924, pp. 294, 311).
Le tre attestazioni, le prime in assoluto di Oberto, dei cui antenati non si ha alcuna notizia, testimoniano la rapida ascesa di un personaggio che, presumibilmente di livello sociale non eccelso, giunse ai massimi vertici del regno. Per comprendere questa ascesa (la sua eccezionalità, ma anche la sua coerenza con più ampie trasformazioni della società politica italiana), è necessario leggere più a fondo questi atti e considerare soprattutto le persone al cui fianco Oberto si trovò ad agire.
Dalla prima notizia risulta che nel 945 Oberto era già ai vertici della società italiana, come si evince non solo dalla funzione comitale, ma anche dal gruppo in cui era inserito. Il placito, con cui fu confermata una concessione fatta pochi giorni prima dal marchese Berengario (il futuro re Berengario II) al proprio vassallo Riprando di Basilica Duce, si svolse infatti, alla presenza del re d’Italia Lotario, sotto la presidenza del conte palatino Lanfranco, assistito tra gli altri dal conte Adalberto, dal conte di Parma Manfredo, dal conte di Verona Milone e da due conti del Piemonte meridionale, Aleramo e Arduino. In altri termini, non solo si tenne di fronte del re, a vantaggio di un futuro re e sotto la presidenza del conte palatino, ma tra gli astanti figuravano il futuro marchese del Friuli (Milone) e i capostipiti di tre dinastie marchionali che segnarono in modo duraturo la storia del regno d’Italia, ovvero gli Aleramici, gli Arduinici e gli Obertenghi. Aleramo, Arduino e Oberto – con l’aggiunta di Adalberto-Atto, da cui discesero i Canossa – costituirono senza dubbio una generazione di homines novi che nel giro di pochi anni arrivarono a occupare i vertici del regno.
Conte nel 945, Oberto divenne prima marchese (nel 951), poi conte del sacro palazzo (nel 953), ovvero massimo ufficiale regio, con responsabilità che si estendevano all’intero territorio del regno. Questa serie di promozioni si avviò durante il regno di Lotario, ma si completò sotto Berengario II. Il dato è rilevante, perché mostra bene come per Oberto, come per tutti questi grandi aristocratici in ascesa, il conflitto tra Ugo e Lotario, da una parte, e Berengario e Adalberto, dall’altra, fosse vissuto con grande elasticità politica; il fatto che tutti questi, già fedeli di Lotario, divennero poi fedeli di Berengario II, è prova non solo del loro opportunismo, ma ancor di più di una struttura di potere aristocratico che si affermò alla metà del X secolo e seppe riproporsi come interlocutore necessario per i diversi re che si succedettero.
Non solo la grande aristocrazia si andò raccogliendo via via attorno ai diversi re, ma i re stessi dovettero prendere atto di un’aristocrazia che era sì radicata nelle funzioni di conte e marchese, ma che trovava le proprie basi di potere prima di tutto nei ricchissimi patrimoni fondiari. La grande aristocrazia funzionariale era una delle strutture portanti del regno e i diversi re non potevano che prenderne atto e legare a sé le dinastie.
Questo meccanismo si rinnovò pochi anni dopo, con la conquista del regno da parte di Ottone I di Sassonia, transizione in cui Oberto ebbe un ruolo di primo piano. Nel 960 infatti dall’Italia partì una delegazione diretta al re di Germania, per chiedergli di scendere in Italia a prendere possesso del regno. Nella delegazione, al fianco dei legati papali, dell’arcivescovo di Milano Gualberto e del vescovo di Como Waldo, era presente l’«inlustris marchio Otbertus» (secondo la definizione di Liutprando di Cremona [Historia Ottonis, 1998, p. 169]). Oberto era quindi ai vertici di quei settori della grande aristocrazia italiana che promossero la conquista del regno da parte di Ottone e questo servizio gli fu riccamente ricompensato dal nuovo re, con la concessione di terre tratte dal patrimonio dell’abbazia di Bobbio. (I Placiti del “Regnum italiae”, 1955-60, II, p. 123).
Per comprendere questo passaggio è necessario chiarire gli ambiti su cui si espresse l’azione politica di Oberto: dove agì come ufficiale regio e dove costruì il proprio patrimonio fondiario.
Se non è del tutto chiaro quale fosse il distretto comitale a lui affidato – probabilmente Luni, ai confini tra le attuali Liguria e Toscana – più chiaro il quadro territoriale su cui si esercitò il suo potere come marchese, in quella che gli storici chiamano la marca obertenga, tra Liguria, Piemonte e Lombardia, a comprendere i comitati di Genova, Luni, Tortona e Milano. La carica di conte del sacro palazzo si proiettava invece sull’intero regno: era una funzione di affiancamento e supplenza del re, il punto più alto della gerarchia funzionariale, svincolato dal riferimento a specifici distretti.
Più difficile individuare la concreta presenza di Oberto sul territorio, ovvero la distribuzione del suo patrimonio fondiario, che di fatto possiamo cogliere solo attraverso la documentazione dei suoi eredi, proiettando all’indietro, con la dovuta prudenza, i dati relativi alle generazioni successive. Pur con questi limiti, emerge un quadro di grande chiarezza: il patrimonio delle prime generazioni obertenghe era posto in minima parte all’interno dei territori della marca affidata a Oberto e ai suoi discendenti; le terre della famiglia erano invece disperse in più di 20 comitati diversi, non governati dagli Obertenghi, che si possono approssimativamente raccogliere in tre gruppi principali: una zona padana centrale, tra Pavia, Piacenza, Cremona e Parma; la zona che si può definire ‘estense’ (dalla dinastia obertenga degli Este, che si sarebbe radicata qui), tra i comitati di Padova, Ferrara e Gavello (Rovigo); e infine la marca di Tuscia. Questo patrimonio era in larga misura costituito da beni di origine fiscale, che spesso erano posti ai confini tra diversi distretti comitali (soprattutto sugli Appennini e lungo il corso del Po) e che furono oggetto di ampi dissodamenti tra X e XI secolo.
Al di là delle vicende relative a specifici luoghi e beni, la fisionomia complessiva del patrimonio obertengo rimanda senz’altro all’esperienza di Oberto, e in particolare al periodo in cui ricoprì la funzione di conte del sacro palazzo, a partire dal 953. Fu questo infatti il periodo in cui la sua azione al servizio dei re si proiettò sull’intero territorio del regno, con un’ampia capacità di accedere ai beni fiscali. Ma se la funzione di conte palatino lo portò alla costituzione di un patrimonio fondiario così disperso, è anche evidente che la sua politica non tendeva alla trasformazione della marca in principato, o alla costruzione di solidi nuclei signorili: le prospettive erano più ampie e più alte ed erano fondate su un’«aspirazione al regno» (Nobili, 2006, p. 263), ovvero al controllo egemone sulla politica italiana, tramite l’occupazione diretta del trono (certo possibile, in un contesto di altissima fluidità dei poteri), oppure tramite un controllo indiretto, attraverso una funzione di kingmaker, quale sembra essere suggerita dal ruolo di Oberto all’interno della delegazione che andò da Ottone di Sassonia per invitarlo a scendere in Italia.
I beni fiscali giocarono un ruolo di primo piano anche nei rapporti tra Oberto e i grandi monasteri. Occorre premettere che né Oberto né i suoi immediati successori fondarono un monastero di famiglia, un ente a cui legare strettamente la propria identità politica, il proprio radicamento e la propria salvezza dopo la morte. Oberto agì in modo discontinuo in favore di diversi monasteri, posti al di fuori della sua marca, come S. Maiolo di Pavia e S. Fiora d’Arezzo. Ebbe però particolare rilievo il suo rapporto con l’antica abbazia di S. Colombano di Bobbio: un rapporto diretto è attestato nel 972, quando egli presiedette un placito destinato a risolvere una lite tra Bobbio e il monastero di S. Martino di Pavia; ma il dato interessante è il luogo in cui si tenne il placito, ovvero il villaggio di Gragio «quod est ipsa villa propria monasterii Sancti Columbani, quod nunc domnus Otbertus marhio et comes palacio da parte domnorum inperatorum in beneficio abere videtur» (I Placiti del “Regnum Italiae”, 1955-60, II, p. 123). Il dato è confermato dall’inventario del patrimonio abbaziale della fine del secolo, in cui molti beni sono classificati come «beneficia que Aubert marchio de abbacia dedit» (Inventari altomedievali, 1979, p. 181).
Attorno al patrimonio dell’abbazia di Bobbio si era quindi attuato un duplice processo di ridistribuzione: gli Ottoni avevano prima fatto valere il proprio diritto eminente su una parte delle terre del monastero per concederle in beneficio a Oberto; a sua volta, il marchese aveva usato questo patrimonio per beneficiare i propri vassalli. È una vicenda che mostra con la massima evidenza come lo stretto rapporto con il regno e le funzioni assolte per esso rappresentassero per Oberto un’importantissima risorsa, sul piano politico e patrimoniale, una possibilità di arricchimento fondiario che si tradusse direttamente in un’accresciuta capacità di aggregazione clientelare.
L’ultima attestazione di Oberto è proprio il placito del 20 agosto 972 in favore di Bobbio; nel 975 un atto di livello concesso dal vescovo di Pisa ai figli di Oberto informa che il marchese nel frattempo era morto.
Era ormai una fase in cui il potere regio della dinastia ottoniana era consolidato e in cui probabilmente apparivano chiusi gli spazi per un’aspirazione al regno; da qui in avanti il gruppo parentale – pur aprendosi a prospettive ampie per esempio all’interno del conflitto tra Enrico II e Arduino di Ivrea, tra 1002 e 1004 – avviò una lenta transizione verso progetti politici più orientati in senso regionale. In questa vicenda, Oberto rappresentò una fase generativa di impatto duraturo: tutta la storia successiva degli Obertenghi fu segnata da alcuni caratteri fondamentali (l’ampia dispersione patrimoniale, l’attenzione per le aree appenniniche e per i settori in via di dissodamento) che si possono far risalire in larga misura alla sua azione; e non appare quindi casuale che la stirpe obertenga, lungo tutto l’XI secolo, abbia fondato la propria coesione soprattutto sulla coscienza di una comune ascendenza, espressa nell’abbondante ricorso al nome Oberto.
Fonti e Bibl.: Conradi I, Heinrici I et Ottonis I Diplomata, in Monumenta Germaniae Historica, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, a cura di T. Sickel, Hannover 1879-84; Reginonis abbatis Prumiensis Chronicon cum continuatione, in Monumenta Germaniae Historica, Scriptores rerum germanicarum, L, a cura di F. Kurze, Hannover 1890; Codice diplomatico di S. Colombano di Bobbio fino all’anno MCCVIII, a cura di C. Cipolla, Roma 1918 (Fonti per la Storia d’Italia, 52-54); I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1924 (ibid., 38); I Placiti del “Regnum Italiae“, I-II, a cura di C. Manaresi, Roma 1955-60 (ibid., 92, 96, 97); Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, a cura di A. Castagnetti - M. Luzzati - G. Pasquali - A. Vasina, Roma 1979 (ibid., 92); Liudprandi Cremonensis Antapodosis Homelia Paschalis, Historia Ottonis, Relatio de legatione Constantinopolitana, a cura di P. Chiesa, Turnhoult 1998. Studi: E. Hlawitschka, Franken, Alamannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien (774-962). Zum Verständnis der Fränkischen Königsherrschaft in Italien, Freiburg im Breisgau 1960; M. Nobili, Gli Obertenghi e altri saggi, Spoleto 2006; A. Piazza, Monastero e vescovado di Bobbio (dalla fine del X agli inizi del XIII secolo), Spoleto 1997; P. Cammarosano, Nobili e re. L’Italia politica dell’alto medioevo, Roma-Bari 1998.