Oceania
(XXV, p. 139; App. I, p. 903; II, ii, p. 434; III, ii, p. 294; V, iii, p. 726)
Geografia umana ed economica
di Pasquale Coppola
Il quadro politico dell'O. risente in maniera notevole dell'enorme dispersione del popolamento e del recente passato coloniale: accanto agli assetti consolidati dell'Australia e della Nuova Zelanda esiste così una notevole serie di entità politiche dallo status giuridico molto vario, per lo più assai piccole e a volte frammentate in estesi arcipelaghi. Al novero degli Stati sovrani si è aggiunta dal 1994 l'isola di Palau, nell'arcipelago delle Caroline, la quale ha fissato la propria capitale a Koror; ma gli Stati Uniti, che esercitavano l'amministrazione fiduciaria su questo territorio vasto appena 487 km², ne curano ancora le relazioni internazionali e la difesa grazie a un accordo di libera associazione. Il riconoscimento di una pluralità di microstati nella sterminata distesa del Pacifico alimenta un dibattito internazionale sulle capacità minimali necessarie all'effettivo esercizio delle prerogative statuali; e al tempo stesso, complice la distanza tra i modesti centri di potere e le varie isole, stimola ulteriori richieste di autonomia: come quella rivendicata dai secessionisti dell'isola di Bougainville nei confronti di Papua Nuova Guinea (v. tab. e fig.).
Una tipica eredità del periodo coloniale è la vertenza che ha indotto il governo della Nuova Zelanda a offrire corposi indennizzi alle tribù maori per le terre loro confiscate nel 1863. E veri e propri movimenti di decolonizzazione sono quelli che hanno determinato il governo di Parigi ad accordare nel 1996 nuove formule di autonomia per la Polinesia Francese e a prevedere l'autodeterminazione per la Nuova Caledonia. Le relazioni della Francia con l'intero scacchiere si sono, peraltro, gravemente deteriorate dopo la sua decisione di effettuare, tra il settembre 1995 e il gennaio 1996, alcuni esperimenti nucleari nell'atollo di Mururoa, cui è seguita l'adesione al trattato di denuclearizzazione del Pacifico meridionale.
Della popolazione complessiva dell'O., che è stimata dalle Nazioni Unite in circa 32.800.000 ab. nel 1998, un terzo vive fuori dell'Australia e della Nuova Zelanda: si varia dai 4.600.000 individui stanziati nei territori di Papua Nuova Guinea agli 11.000 del microstato di Tuvalu e agli appena 1000 residenti a Midway (base navale degli Stati Uniti). Non minore è lo spettro di variazione delle densità: modestissime nei vasti spazi australiani dove si superano di poco i 2 ab./km², si fanno davvero rilevanti in alcune piccole isole, come Nauru (oltre 520 ab./km²) e Tuvalu (458), nell'arcipelago delle Marshall (331), nelle Samoa Americane (317) e nella base militare di Guam (298). Nel ritmo di crescita e nei livelli di vita degli abitanti persistono notevoli contrasti, legati in buona misura alla varietà delle mescolanze etniche e della disponibilità di risorse nelle diverse parti dell'Oceania.
Se nelle aree di assoluta dominanza del popolamento bianco, come l'Australia e la Nuova Zelanda, i comportamenti demografici ricalcano quelli tipici del mondo occidentale (con ritmi d'incremento prossimi al 12‰ annuo, tasso di fecondità di 2 figli per donna, mortalità infantile prossima al 7‰ e speranza di vita tra i 76 e i 78 anni), in altri paesi, in cui prevalgono elementi indigeni o asiatici, si registrano valori molto diversi. Così, per es., il tasso di fecondità si aggira sulle 5 gravidanze per donna in Papua Nuova Guinea e nelle Salomone, e resta di poco inferiore nelle Samoa, nelle Tonga o nelle Nuove Ebridi (l'attuale Stato di Vanuatu); inoltre l'alto tasso di natalità che ne deriva (tra il 30 e il 35‰) - pur contenuto dalla mortalità infantile ancora superiore al 50‰ - genera ritmi di accrescimento demografici tra il 2 e 2,5% l'anno, con una conseguente speranza di vita alla nascita che non supera i 63 anni nelle Tonga, i 61 a Tuvalu e addirittura i 54 negli arcipelaghi di Kiribati. Queste cifre, pur a fronte di un'alfabetizzazione in genere consistente e di discrete dotazioni sociali, forniscono indizi significativi sul permanere di ampie sacche di arretratezza e di disagio tra i popoli sparsi nei coriandoli insulari del Pacifico meridionale.
Un ulteriore forte elemento di distinzione è dato dai livelli di urbanizzazione: mentre in Australia e Nuova Zelanda la quota della popolazione urbana ha ormai superato l'85% e in Australia si contano ben 5 metropoli con oltre 1 milione di ab., altrove tale quota, pur crescente, è contenuta naturalmente dalla frammentazione insulare, e spesso il riferimento alle forme d'insediamento urbano è del tutto relativo. Così, a parte Honolulu, la capitale delle Hawaii pienamente conquistate dallo stile di vita statunitense, la cui area metropolitana supera gli 870.000 ab., le dimensioni dei centri urbani sono alquanto contenute: Port Moresby, la principale città della popolosa Nuova Guinea, conta meno di 200.000 ab. e Papeete, il capoluogo della Polinesia Francese, appena 26.000.
Sul piano dello sviluppo economico, tolte le due maggiori entità di popolamento bianco, gli spazi dell'O. possono dividersi in tre complessi, soprattutto in base alla loro ampiezza e alle loro risorse. I paesi più vasti, quali Papua Nuova Guinea, le Salomone, le Figi, la Nuova Caledonia, le Hawaii, Vanuatu, dispongono di un'economia abbastanza articolata, fondata per lo più sull'agricoltura (canna da zucchero, palma da cocco, banane), sullo sfruttamento forestale, sulla pesca e su notevoli flussi turistici. In alcuni casi si aggiungono discrete produzioni minerarie, come l'oro e il rame di Papua Nuova Guinea, il manganese di Vanuatu e, soprattutto, il nichel della Nuova Caledonia (che è il terzo produttore mondiale). Le entità territoriali di medie dimensioni, con risorse agricole, forestali e ittiche di qualche spessore, annoverano gli Stati Federati di Micronesia, le Tonga, le Samoa e la Polinesia Francese, che possono contare su mercati interni di un certo respiro. Gli arcipelaghi minuscoli e le isolette disperse nell'oceano dispongono, infine, di scarsissimi elementi di autonomia, con economie fondate perciò sugli aiuti internazionali e sulle rimesse degli emigrati. In quest'ultima schiera si distinguono però i casi di Nauru, le cui vendite di fosfati hanno per lungo tempo alimentato forti investimenti diretti all'estero, e di alcune isole trasformate in basi militari per la loro posizione strategica. In ogni caso, l'economia di queste terre risente di un tipo di sfruttamento delle risorse in vivo contrasto con un ambiente naturale che il modesto popolamento e la precarietà dei poteri locali rendono difficile tutelare: è il caso delle Salomone, dove il 70% degli introiti deriva dall'esportazione di prodotti forestali, o, ben più grave, quello dell'isola Johnston, divenuta deposito di scorie tossiche. Del resto, sull'insieme dell'ambiente dell'O. grava la forte pressione di Stati industrializzati e ben più popolosi, interessati alle risorse minerarie (compresi i noduli polimetallici di cui è ricco l'oceano), agli estesi spazi ancora da colonizzare, ad alcune posizioni strategiche, all'attrazione turistica offerta da una natura spesso incontaminata: tutte fonti di potenziale sviluppo, ma anche di possibili disastri ecologici, che fanno dell'O. una terra di grandi aspettative e di non piccoli rischi.
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Archeologia
di Gaetano Cofini
Il popolamento dell'O. è strettamente connesso con i progressi compiuti dall'uomo nella nautica e, come in altre aree del pianeta, riflette l'adattamento a un'ampia gamma di situazioni ambientali: dai vasti territori continentali dell'Australia alle isole vulcaniche e agli atolli corallini dispersi tra le immense distese d'acqua dell'Oceano Pacifico. Grazie ai risultati della ricerca archeologica, sviluppatasi sensibilmente nella seconda metà del 20° secolo, vi sono sufficienti informazioni per ricostruire le varie fasi della storia pre-europea di questo continente, fin dai primi stanziamenti umani. I dati più recenti farebbero risalire il popolamento dei territori attuali dell'Australia e della Nuova Guinea a una fase del Pleistocene finale compresa tra 60.000 e 40.000 anni fa. Tali datazioni, ottenute con le tecniche della termoluminescenza e della luminescenza ottica, sono tuttavia oggetto di discussione, in quanto si discostano notevolmente dalle datazioni al carbonio 14 che collocano i più antichi insediamenti tra 37.000 e 34.000 anni or sono. Secondo alcuni studiosi, la colonizzazione umana di queste terre potrebbe essere avvenuta in epoche assai più remote, a partire da circa 120.000 anni fa: un'ipotesi fondata per ora su testimonianze isolate (riparo di Jinmium) o indirette, quali l'aumento dei carboni nelle sequenze polliniche o la formazione di depositi di molluschi, e che necessita pertanto di ulteriori indizi. I più antichi abitanti di queste terre giunsero verosimilmente dal Sud-Est asiatico, anche se al momento non esistono prove sicure che avvalorino questa tesi. In quell'epoca il livello del mare era di circa 130 m inferiore a quello attuale; le terre oggi sommerse dal Mar di Arafura e dallo Stretto di Bass congiungevano l'Australia rispettivamente con la Nuova Guinea e con la Tasmania, formando un'unica massa continentale denominata Sahul o Grande Australia. Tuttavia, in nessuna fase del Pleistocene il Sahul fu unito alle propaggini continentali dell'Asia sud-orientale (Sundaland), obbligando i primi colonizzatori ad attraversare con zattere o natanti di tronchi o bambù l'arco insulare indonesiano che separava i due continenti.
Attualmente si conoscono più di cinquanta siti datati tra 50.000 e 20.000 anni or sono. Fin da 30.000 anni fa l'uomo aveva occupato gran parte dei territori del Sahul e le isole dell'Arcipelago di Bismarck: dagli ambienti glaciali della Tasmania (Warreen, Parmerpar Meethaner, ORS7, Nunamira) alle coste occidentali australiane (Upper Swan, Devil's Lair, Mandu Mandu Creek), dai sistemi fluvio-lacustri dell'Australia sud-orientale (Willandra Lakes, Keilor, Cuddie Springs) alla Terra di Arnhem (Malakunanja ii, Nauwalabila i) e alla Penisola di Capo York (Nurrabullgin, Sandy Creek 1), dai litorali tropicali della Nuova Guinea (Huon, Lachitu) alle isole della Nuova Britannia e della Nuova Irlanda (Yombon, Matenkupkum, Buang Merabak) (v. .).
L'adattamento dei gruppi pleistocenici ad ambienti così diversificati comportò l'adozione di una vasta gamma di strategie di sussistenza, dalla pesca e dalla raccolta di molluschi alla cattura dei mammiferi marini, dalla caccia alla megafauna pleistocenica alla raccolta di vegetali commestibili. Ciò nonostante, le industrie rinvenute in questi siti, note con la definizione di Australian core-tool and scraper tradition, mostrano fino a 6000÷5000 anni fa minime variazioni morfologiche; esse includono principalmente strumenti su ciottolo, grattatoi nucleiformi, raschiatoi, schegge ritoccate occasionalmente sui margini. Nel Nord del Sahul (Terra di Arnhem, altopiani di Papua Nuova Guinea) si segnalano i rinvenimenti di asce/accette con il tagliente levigato o abraso, che presentano una scanalatura fronto-prossimale o intaccature laterali che ne assicuravano l'immanicatura. La cultura materiale dei gruppi pleistocenici comprendeva inoltre macine per la frantumazione dell'ocra o per la molitura di semi e frutti edibili, strumenti di osso e grani di osso o conchiglia utilizzati a scopo ornamentale. Tra le testimonianze artistiche attribuite al Pleistocene spicca un particolare stile di incisioni rupestri denominato Panaramitee, che trova le maggiori espressioni in vari siti della Penisola di Capo York e del Sud dell'Australia e che risalirebbe, secondo recenti datazioni, oggetto di controversie, a circa 40.000 anni fa. In Australia sono state raccolte preziose informazioni sulle pratiche funerarie e sull'antropologia fisica dei cacciatori-raccoglitori pleistocenici. A Lake Mungo sono state rinvenute due sepolture datate a circa 32.000 e 26.000 anni fa e contenenti rispettivamente i resti di un adulto inumato e di una giovane donna cremata; nella necropoli di Kow Swamp, sul fiume Murray, sono state messe in luce numerose deposizioni con i resti di almeno 40 individui attribuiti a un'epoca compresa tra 14.000 e 9000 anni fa. Lo studio antropologico di questi e di altri resti scheletrici ha consentito agli specialisti di distinguere due principali gruppi. Il primo, a cui appartengono i fossili di Kow Swamp, un cranio recentemente scoperto a Lake Mungo datato a 29.000 anni fa e i fossili di Cohuna e di Talgai, presenta caratteri morfologici più robusti; del secondo gruppo, di struttura più gracile, fanno parte le due sepolture di Lake Mungo e il cranio di Keilor. Per alcuni studiosi, sostenitori della teoria della 'continuità regionale' (regional continuity) secondo cui l'uomo moderno si sarebbe evoluto in maniera differenziata da Homo erectus in differenti aree del mondo, gli esemplari del primo gruppo discenderebbero dall'Homo erectus di Giava, mentre quelli del secondo dall'Homo erectus cinese. La presunta arcaicità dei caratteri morfologici più robusti è tuttavia contraddetta dalle datazioni che collocano i fossili gracili di Lake Mungo in fasi anteriori agli esemplari robusti di Kow Swamp. La robustezza potrebbe in realtà essere attribuita a processi derivati dall'adattamento ad ambienti specifici o a fattori socioeconomici. Le variazioni riscontrate nei due gruppi sembrano rientrare infatti, secondo recenti studi, nell'arco di variabilità generale evidenziato dalle morfologie degli aborigeni moderni.
Nel periodo corrispondente all'apice dell'ultima glaciazione (20.000÷18.000 anni fa) si assiste a un deterioramento delle condizioni ambientali. Le fasi massime di regressione marina, l'abbassamento delle temperature e l'inaridimento di vasti territori causarono l'abbandono di molti siti e, verosimilmente, un calo della popolazione; l'inasprimento climatico giocò, con molta probabilità, un ruolo determinante anche nell'estinzione della megafauna pleistocenica. Il mare iniziò a risalire circa 16.000 anni or sono separando l'Australia dalla Nuova Guinea e dalla Tasmania e raggiungendo 6000 anni fa il livello attuale. Dal 3° millennio a.C. si diffonde in gran parte del continente australiano, ma non in Tasmania, un nuovo strumentario di dimensioni molto più ridotte (Australian small-tool tradition) in cui predominano punte, lame a dorso e accette scheggiate. Esso rappresenta un'importante innovazione, frutto dello sviluppo in loco di nuove tecnologie e attività, che, con l'arrivo del dingo e l'assenza di vegetali e animali domestici, distingue culturalmente l'Australia dalla Nuova Guinea e dagli arcipelaghi del Sud-Est asiatico.
Il quadro archeologico della Nuova Guinea e dei vicini arcipelaghi di Bismarck e delle Salomone è più complesso; ne sono prova le grandi diversità biologiche, culturali e linguistiche che contraddistinguono tuttora queste aree. Le maggiori testimonianze per questo periodo provengono dalle valli intermontane e dai bacini dei fiumi Sepik e Ramu in Papua Nuova Guinea, dalle maggiori isole dell'Arcipelago di Bismarck e da Buka e Guadalcanal nelle Salomone.
Negli altopiani neoguineani sono stati messi in luce i resti di un complesso sistema di drenaggio delle piane paludose che documentano la diffusione dell'orticoltura da 6000÷5500 anni fa (Kuk), e forse fin da 9000 anni fa. Si presume che in queste prime fasi venissero coltivati la colocasia e, in periodi più recenti, l'igname, la canna da zucchero, il banano e la patata dolce. Negli strumentari delle popolazioni degli altopiani si diffondono a partire da circa 6000 anni fa asce/accette levigate a sezioni ovali o lenticolari. Attivo è inoltre il commercio di manufatti di conchiglia fin da 10.000 anni fa, mentre a circa 6000 anni fa viene datata la comparsa del maiale negli altopiani. Nei bacini dei fiumi Sepik e Ramu sono stati rinvenuti chiocciolai risalenti al 4° millennio a.C.; nel 3° millennio compaiono in queste aree ceramiche incise con i bordi dentellati associate a frammenti di asce/accette litiche, asce di tridacna, schegge di ossidiana, frammenti di bracciali ottenuti dalle conchiglie dei Trochidi, resti ossei di Sus e di Canis. Nell'Arcipelago di Bismarck vari siti in grotta e ripari sotto roccia, alcuni frequentati sin dal Pleistocene finale, attestano l'esistenza di contatti commerciali basati sullo scambio dell'ossidiana (da 12.000÷10.000 anni fa, e in un caso sin da 19.000 anni or sono), che comportavano spostamenti per mare lungo le coste della Nuova Britannia o dalla Nuova Britannia alla Nuova Irlanda. Va ricordato che alcuni elementi culturali rinvenuti diffusamente nei depositi più recenti della cultura Lapita (ami, asce e ornamenti di conchiglia, ceramica semplice, un forno in terra) risultano già attestati da numerosi secoli nel Nord-Est della Nuova Guinea e nelle isole del Mare di Bismarck e Salomone.
L'apparizione nell'Arcipelago di Bismarck di un complesso culturale contraddistinto da produzioni vascolari finemente decorate, segna l'avvento della cultura Lapita (3600÷1800 anni fa). Secondo una recente teoria, il processo di formazione di questa cultura è collegato all'introduzione di elementi esterni, originari verosimilmente degli arcipelaghi del Sud-Est asiatico (asce litiche quadrangolari, particolari tipi di asce di tridacna, coltivazione dell'igname), all'integrazione di componenti culturali preesistenti e allo sviluppo di tratti innovativi, quali le eleganti decorazioni vascolari, le asce planilaterali e piano-convesse, le forme e le strutture dell'insediamento, le nuove tecnologie e conoscenze nella navigazione (piroga a doppio scafo con vela triangolare, rotte orientate contro la direzione prevalente dei venti). I portatori di tale cultura, occupando in modo permanente insediamenti prevalentemente costieri, popolano nell'arco di circa 5÷6 secoli un'area vastissima: dagli arcipelaghi di Bismarck e delle Salomone settentrionali alle isole di Reef nel gruppo di Santa Cruz, Vanuatu, Nuova Caledonia, fino a colonizzare i territori non ancora abitati di Figi, Futuna, Uvea, Tonga e Samoa.
Le dimensioni degli insediamenti variano da alcune centinaia di metri quadrati a diversi ettari; indagini estensive sono state effettuate tuttavia solo in una dozzina di siti, tra cui Talepakemalai (Isole Mussau, nell'Arcipelago di Bismarck), Nenumbo (Isole del Main Reef, nelle Salomone sud-orientali) e Sigatoka (Figi). Nei depositi Lapita sono stati messi in luce abbondanti frammenti di ceramiche sia inornate sia decorate con elaborati motivi geometrici realizzati con varie tecniche (v. .). Sono state rinvenute inoltre varie forme di asce litiche, ami, e numerosi ornamenti in conchiglia, strumenti per la manipolazione degli alimenti, utensili in osso, manufatti di ossidiana, di selce e di altri tipi di rocce, percussori, pestelli, macine. Materie prime e prodotti finiti (selce, ossidiana, rocce coralline, pietre da forno, asce, ceramiche) erano inseriti in un'estesa rete di scambi che implicava in alcuni casi traversate oceaniche di migliaia di chilometri: è il caso, per es., dell'ossidiana estratta nella Nuova Britannia (Talasea, Mopir) e nelle Isole dell'Ammiragliato (Lou) ed esportata in siti che si distribuiscono tra l'Arcipelago di Bismarck e le Figi (v. fig.). La sussistenza si basava sulla pesca e sulla raccolta di molluschi, integrata dalla cattura di tartarughe, mammiferi marini e uccelli, dall'allevamento (Canis, Sus, Gallus) e dal consumo di una specie commensale (Rattus exulans), dall'arboricoltura e dalla coltivazione dei principali tuberi dell'Oceania.
Nei secoli che precedono l'inizio dell'era volgare, nei nuclei insulari di Tonga, Samoa, Futuna e Uvea (Polinesia occidentale) vengono gettate le basi di una cultura polinesiana ancestrale (Ancestral Polynesian society) rappresentata da popolazioni che parlavano lingue protopolinesiane e che si avvicinavano morfologicamente ai polinesiani moderni. Gli aspetti materiali ed economici di questa cultura, sviluppatisi nel corso di un processo millenario di differenziazione dai complessi Eastern Lapita, furono in parte influenzati dagli ambienti colonizzati da questi gruppi.
Il popolamento degli arcipelaghi vulcanici e corallini della Polinesia, a eccezione della Nuova Zelanda, impose trasformazioni dettate da una sensibile riduzione delle materie prime, dei suoli coltivabili, delle fonti idriche e delle nicchie ecologiche. Nella cultura materiale continua, per es., la lavorazione soltanto di alcuni tipi di asce rinvenute nei depositi Lapita (a sezione piano-convessa e rettangolare), mentre nei primi secoli dell'era cristiana se ne aggiungono di nuovi (a sezione triangolare). Tali cambiamenti possono essere in parte collegati alla limitata disponibilità di rocce (basalti) e all'utilizzo di nuove tecniche di lavorazione. La produzione di vasellame conosce nella Polinesia occidentale un graduale declino che porta nelle sequenze Lapita alla scomparsa delle forme e delle decorazioni più elaborate, mentre prosegue la fabbricazione di ciotole prevalentemente inornate (Polynesian plain ware). La produzione fittile termina in quest'area intorno ai primi secoli dell'era cristiana e i vasi in terracotta vengono sostituiti da contenitori di legno. Le trasformazioni osservate nei repertori litici e vascolari dei complessi culturali Eastern Lapita costituirebbero le prove archeologiche più significative dello sviluppo di una nuova tradizione culturale (Ancestral Polynesian society), dalla quale deriveranno secoli dopo le culture della Polinesia orientale.
Le datazioni sul popolamento della Polinesia orientale oscillano, a seconda delle aree e dei pareri espressi dagli studiosi, dall'inizio dell'era volgare ai secoli finali del 1° millennio d.C. Per alcuni specialisti vi sarebbe stata una pausa di circa un millennio tra la colonizzazione dei nuclei insulari delle Figi e della Polinesia occidentale e quella degli arcipelaghi polinesiani più remoti. Tale intervallo sarebbe attribuibile principalmente all'aumento delle distanze che separavano le isole da raggiungere. Secondo un'altra ipotesi, il popolamento di questa regione rappresenterebbe l'ultima fase di un processo continuo iniziato alcuni secoli prima del 1° millennio a.C. con l'espansione Lapita negli arcipelaghi a est delle Salomone (Remote Oceania). I più antichi insediamenti della Polinesia orientale risalirebbero, per molti studiosi, ai primi secoli del 1° millennio d.C., e forse anche a prima dell'inizio dell'era volgare; questa ipotesi, pur plausibile, si basa per ora unicamente su testimonianze indirette, poiché le datazioni radiometriche, sottoposte a una recente revisione, collocano le prime tracce di occupazione nella seconda metà del 1° millennio d.C. Ai complessi culturali più antichi della Polinesia orientale è stata attribuita la definizione di Archaic East Polynesia o Early East Polynesia, con la quale si sottolineavano le affinità osservate nella cultura materiale di alcuni siti, in particolare Hane e Ha´atuatua nelle Isole Marchesi, Maupiti e Vaito´otia/Fa´ahia nelle Isole della Società. Tuttavia questa definizione è stata recentemente messa in discussione da un riesame generale dei dati a disposizione.
I manufatti tipici di questi complessi (teste di arponi; pendenti a forma di 'e', in alcuni casi fatti con dente di cetaceo; ornamenti ottenuti da cilindri perforati con scanalature laterali, o reels) comparirebbero infatti nelle Isole Marchesi e, verosimilmente, nelle Isole della Società e nelle Cook soltanto in una fase successiva ai primi insediamenti (1000÷1200 d.C.) e risulterebbero inoltre assenti dai depositi più antichi delle Isole Hawaii e dell'Isola di Pasqua. Gli elementi tipici della cultura arcaica della Polinesia orientale definirebbero quindi uno stadio intermedio di sviluppo, posteriore alla comparsa dei primi complessi culturali. La presenza di questi materiali sarebbe inoltre attestata in un ambito cronologico e spaziale ben più ampio. Manufatti analoghi sono stati rinvenuti in contesti coevi o più antichi di altre regioni del Pacifico, mentre in alcuni casi (reels, pendenti) la loro fabbricazione è proseguita fino a epoche storiche. Il termine arcaico indicherebbe pertanto non un complesso culturale ben definito, ma più genericamente un periodo iniziale di colonizzazione dell'area contraddistinto dall'adattamento a nuovi ecosistemi e dall'introduzione di una gamma di manufatti in pietra, osso e conchiglia distribuiti estesamente nel Pacifico. Le somiglianze osservate nella cultura materiale dei siti più antichi sono riconducibili alla rete di contatti che collegava le isole della Polinesia centro-orientale tra loro e con gli arcipelaghi occidentali e forse con quelli melanesiani, grazie ai quali venivano scambiati madreperla, basalto e vasellame. I continui scambi favorirono la diffusione di elementi innovativi (teste di arponi, asce con tallone differenziato) nella Polinesia centro-orientale, inclusa la Nuova Zelanda, ma non le Isole Hawaii o l'Isola di Pasqua. Il raggio e la frequenza dei contatti diminuirono con il tempo fino a interrompersi quasi del tutto nei primi secoli di questo millennio, quando iniziarono a svilupparsi tratti culturali circoscritti ad ambiti locali.
Le fasi preistoriche più recenti della Polinesia orientale sono contraddistinte dall'intensificarsi dei sistemi di coltivazione e dalla comparsa di strutture politiche gerarchiche, i cui vertici erano preposti al controllo di territori ben definiti e delle loro risorse. Lo sviluppo architettonico dei complessi cerimoniali polinesiani (ahu-moai nell'Isola di Pasqua, marae nelle Isole della Società, nelle Isole Tuamotu, Cook e Australi, tohua e ma´ae nelle Isole Marchesi, heiau nelle Hawaii) riflette la crescente autorità di un potere centralizzato che rafforza la sua influenza a livello locale creando un legame simbolico tra il gruppo sociale e una porzione di territorio. Nella cultura materiale si assiste alla formazione di repertori locali dovuta in gran parte all'isolamento tipico delle fasi preistoriche più recenti degli arcipelaghi polinesiani orientali, mentre lo sviluppo di attività economiche specializzate sembra riflettersi nella lavorazione standardizzata di alcuni manufatti, in particolare le asce.
Il popolamento della Micronesia viene collegato, secondo un modello comunemente accettato, a successivi movimenti migratori di comunità neolitiche provenienti sia da Ovest che da Est. Gruppi originari delle isole del Sud-Est asiatico si insediarono circa 3500 anni fa nelle isole Marianne e, 1500 anni più tardi, negli altri gruppi insulari della Micronesia occidentale. Gli arcipelaghi orientali della regione sarebbero stati invece colonizzati dalla Melanesia orientale, o forse dagli arcipelaghi delle Figi e della Polinesia occidentale, intorno alla fine del 1° millennio a.C. Costituiscono un'eccezione gli atolli di Nukuoro e Kapingamarangi, a sud delle Caroline, raggiunti da popolazioni di lingua polinesiana nei primi secoli del 1° millennio d.C. I dati a disposizione non consentono tuttavia ancora di definire accuratamente le varie fasi del popolamento della Micronesia e le rotte seguite dai primi colonizzatori (v. fig.). Sul piano archeologico sono state evidenziate somiglianze generiche tra alcuni complessi vascolari delle Marianne (Achugao), attribuiti al 1° millennio a.C. e coevi al tradizionale vasellame a ingobbio rosso di questo arcipelago (Marianas Red), e i repertori fittili filippini e indonesiani.
Il vasellame attestato nei primi secoli dell'era cristiana a Truk e Pohnpei, nella Micronesia centrale, non consente di stabilire confronti diretti con le produzioni contemporanee della Melanesia orientale, anche se si esclude una sua derivazione dalle tradizioni vascolari delle isole più occidentali. Analogamente, la cultura materiale messa in luce nei siti della Micronesia orientale evidenzia chiare affinità con i complessi melanesiani (ceramica semplice, pietre per fionde, asce, ami, ornamenti e sbucciatori in conchiglia), ma gli elementi che la caratterizzano non permettono comunque di individuare una precisa area di provenienza. L'alimentazione dei micronesiani si basava sui prodotti tipici dell'O.: pesca e raccolta di molluschi e crostacei, orticoltura (colocasia, igname), arboricoltura (albero del pane, cocco, banano, pandano) e allevamento (Sus, Canis, Gallus). In molte isole e atolli la disponibilità limitata di acqua non permise una piena diffusione delle pratiche agricole; i tuberi (Colocasia, Cyrtosperma chamissonis) venivano talvolta coltivati in pozzetti scavati nei banchi corallini, il cui fondo era ricoperto dall'acqua del mare e da materiale organico aggiunto come fertilizzante.
L'attenzione degli archeologi è stata a lungo attratta dalle vestigia monumentali che si conservano sulle maggiori isole micronesiane; tra queste spiccano le grandiose sculture di Belau (Great Faces), gli imponenti resti delle abitazioni nobiliari Chamorro (Isole Marianne, 11°-12° sec. d.C.) e i monumentali centri di Leluh a Kosrae e Nan Madol a Pohnpei (12°-16° sec.). Quest'ultimo sito era formato da oltre 90 isolotti artificiali separati da canali e protetti da alte mura, sui quali furono costruiti complessi cerimoniali, sepolcreti, le dimore dei dignitari e dei sacerdoti. I resti di Nan Madol e di altri centri costituiscono gli indizi tangibili di un processo di gerarchizzazione e segmentazione delle società micronesiane, iniziato verosimilmente già verso la fine del 1° millennio d.C. e collegato allo sviluppo di attività economiche e produttive altamente specializzate.
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