Olimpiadi invernali: St. Moritz 1948
Numero Olimpiade: V
Data: 30 gennaio-8 febbraio
Nazioni partecipanti: 28
Numero atleti: 669 (592 uomini, 77 donne)
Numero atleti italiani: 57 (54 uomini, 3 donne)
Discipline: Bob, Hockey, Pattinaggio, Pattinaggio artistico, Sci alpino, Sci nordico, Skeleton
Numero di gare: 22
Giuramento olimpico: Riccardo 'Bibi' Torriani
Ai tempi dell'antica Grecia il mito olimpico era così amato e rispettato da indurre a una pausa anche i nemici impegnati in una guerra. Non così nell'era moderna. Dopo Garmisch-Partenkirchen e Berlino 1936 il CIO aveva deciso di assegnare le successive Olimpiadi a due città del Giappone, rispettivamente Sapporo, per nevi e ghiaccio, e la capitale Tokyo per le discipline estive. Ma, indipendentemente dall'autorevolezza dei reggitori dello sport, altri governanti avevano pianificazioni diverse e affatto agonistiche, Germania in prima linea e Giappone da par suo. E fu proprio il conflitto Giappone-Cina che nel 1938 indusse il CIO a mutare programma spostando le manifestazioni estive nella capitale finlandese Helsinki e le invernali a Oslo. Ma i gravi e dolorosi accadimenti di quegli anni, la costituzione dell'Asse Roma-Berlino nel 1936, l'invasione della Polonia nel settembre 1939 da parte dei militari del terzo Reich, il Patto Tripartito con il Giappone, fecero sì che i Giochi Olimpici del 1940 venissero annullati, così come quelli eventuali del 1944.
La guerra si esaurì nell'estate 1945. Gli alti gestori delle vicende sportive non si adagiarono in attese peraltro superflue e decisero che, nello spirito della pace, la bandiera a cinque cerchi avrebbe dovuto essere assegnata a una nazione che aveva vinto il conflitto, la Gran Bretagna, e a una che era stata neutrale, la Svizzera. E così, dopo vent'anni, le Olimpiadi invernali tornarono a St. Moritz.
Nonostante il dogma universale della fratellanza sportiva, gli atleti dei paesi che avevano acceso la guerra, Germania e Giappone, furono costretti a non presentarsi, mentre tornarono gli austriaci avendo riguadagnato l'indipendenza persa nel 1938 quando i nazisti li avevano cancellati dalla carta geografica, occupandone l'intero territorio. L'Italia aveva combattuto la sua guerra a fianco di quelle due nazioni, ma a metà del dramma si era emancipata per poi schierarsi a fianco dei portatori della democrazia. Non fu quindi accomunata alle due nazioni sconfitte.
Per la storia, dello sport almeno, è opportuno ricordare che un fuoriclasse tedesco dello sci, l'ancor giovane Pepi Jennewein, pilota cacciatore, si era immolato nei cieli dell'Unione Sovietica, così come erano caduti altri grandi sportivi, quali il fratello di Cristl Cranz, Harro, e il primatista del mondo nella corsa degli 800 m Rudolf Harbig. Lo sport italiano invece aveva cautelato di più i suoi campioni, almeno per le discipline invernali. Mentre per ciclismo e atletica qualche illustre emblema come Fausto Coppi e Ottavio Missoni pagò con la prigionia in Africa il suo dovere di militare combattente chiamato come altri a dare l'esempio, gli sciatori furono più 'fortunati', se la parola non è eccessiva, perché furono raggruppati nelle Fiamme Gialle e nella Milizia Confinaria, armi benemerite per lo sport, e molti nella Pattuglia sci veloci della nota Scuola Alpina di Aosta. Fra essi il migliore, il più audace, era l'abetonese Zeno Colò.
La loro stanza era a Breuil-Cervinia e nel giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, quegli alpini e alcuni ufficiali, come Giuliano Babini, discesista azzurro e più volte littore, trovarono facile e forse anche naturale salire al Plateau Rosà e, anziché sciare verso Cervinia, scendere sul pendio opposto verso l'elvetica Zermatt. Si salvarono tutti. Benché fossero internati, gli svizzeri, grazie anche ad alcuni campioni, quali Karl Molitor, avversario di Colò, fecero in modo che Zeno e amici potessero continuare a sciare e pure gareggiare, magari sotto pseudonimo per evitare problemi con qualche belligerante. Colò divenne Blitz, "Lampo", e come tale nei due successivi inverni si impose in alcune sfide ovviamente tutte su piste svizzere.
Poi giunse l'immensa gioia della pace. E questa gioia la si sentì molto nel 1948 a St. Moritz dove le nazioni convenute furono ben 28 e l'atmosfera eccelsa, davvero simbolo del ritorno dello sport a simbolo di agonismo e amicizia. Il ricordo di St. Moritz in quello scenario olimpico, con musiche, bandiere e tante divise patriottiche, sogni di medaglie e incontri di amici contenti di sfidarsi e riabbracciarsi è ancora carico di straordinaria emozione. Gli italiani avvertivano anche un clima in qualche modo casalingo perché in Engadina, così vicina a Milano, si parlava tanto italiano. Alla stessa impressione contribuivano anche i quadri del pittore Giovanni Segantini, trentino ma vissuto lungamente fra quelle montagne del Maloia, che esponeva per l'occasione olimpica.
La cerimonia di apertura era fortemente attesa, soprattutto dai molti giovani che non avevano idea precisa del suo fascino, della sua solennità. Non c'era ancora la televisione, ci si chiedeva quali sarebbero state le sorprese, le musiche e come avrebbero sfilato gli italiani, come sarebbero stati i loro vestiti, chi avrebbe portato il tricolore. Qualcuno diceva che l'onore sarebbe stato affidato a Celina Seghi, più volte campionessa d'Italia e affermatasi anche in prove internazionali. Si sussurrava che il conte Alberto Bonacossa avrebbe voluto Zeno Colò, mentre il presidente del CONI Giulio Onesti propendeva per Vittorio Chierroni, soprattutto per carriera e anzianità. E lui fu di fatto il prescelto che, in completo blu scuro e berretto a visiera bianco, precedette i colleghi, assai acclamati durante la sfilata davanti alle autorità schierate sul proscenio.
Finita la cerimonia, nelle strade e nei caffè si cominciò a pensare e a discutere della discesa, prima sfida dello sci. Contemporaneamente entravano in scena bob e hockey, ma la discesa, il rischio, la velocità, facevano più presa sull'immaginario degli appassionati. Si temeva la pista chiamata 'del Sass Ronzoll' ‒ dal nome del monte pietroso da cui scende ‒ che era quasi sconosciuta, cioè senza precedenti agonistici, e sicuramente ostica, con gobbe, traverse, e passaggi cosiddetti 'trappola'. Qualcuno diceva che la neve fresca e umida "era simile a quella dell'Abetone", con il suo fondo non compatto, ma poi fu battuta come meglio si poteva.
Le speranze degli italiani stavano tutte nello sci perché molte altre aspettative rispetto ad altre discipline non c'erano. Nel fondo qualche vecchio campione gareggiava ancora, ma la guerra aveva spento gli slanci e le nuove leve stavano maturando. L'hockey italiano si era quasi dissolto. Il pattinaggio, artistico e di velocità, non aveva ancora raggiunto un livello di qualità. Solo il bob, forse, avrebbe potuto dare qualche soddisfazione. D'altra parte non si trascuravano i quattro alpini della prova dimostrativa di fondo e tiro che tanta soddisfazione aveva dato a Garmisch dodici anni prima. Ma per molti si trattava di una tenzone in dissonanza con lo spirito olimpico votato all'amicizia e alla pace: sembrava un po' curioso sciare e poi fra una falcata e la successiva sparare con il fucile e premiare chi centrava meglio i bersagli. Comunque così era e il biathlon, adesso universalmente bene accreditato, è nato proprio da lì.
Per quanto riguarda la discesa, gli italiani che vincevano erano Zeno Colò, Vittorio Chierroni e, molto meno, Roberto Lacedelli detto 'Kobe', ampezzano. La discesa, chiamata anche 'libera' da quando il fascismo volendo abolire ogni termine d'importazione straniera, volle distinguerla dallo slalom che chiamò 'discesa obbligata' (dai paletti), è la prova emblema del coraggio, dell'istinto e anche di una certa resistenza al gelo, ai venti, al ghiaccio e alla velocità. Altri due azzurri erano forti, Carlo Gartner e Silvio Alverà, ma non da podio, si diceva. C'era rivalità fra questi campioni, campanilismo pure, anche se Colò aveva indubbiamente una classe in più e scorrevolezza senza pari, probabilmente assoluta.
Quando la gara iniziò, c'erano migliaia di persone assiepate lungo il tracciato, mentre all'interno erano schierati gli addetti al servizio d'ordine e a quanto altro potesse essere utile per la regolarità della prova, vestiti con una giacca rossa che spiccava sul bianco della neve ricordando i colori della bandiera svizzera.
Il primo a lanciarsi fu il francese James Couttet, fuoriclasse titolato, campione del mondo a 16 anni: lo si vide scendere rettilineo nel Canalone per poi scomparire dietro una protuberanza come risucchiato dalla neve, quindi riapparire sul gobbone e sfilare verso il traguardo. Non impressionò e la sua prova risultò soltanto buona. Primo degli italiani fu Silvio Alverà, raccolto, sicuro, al traguardo appena più lento del francese. I tifosi aspettavano gli altri tre italiani, ma Lacedelli cadde e ruppe gli sci, poi vacillò Chierroni e deviò catapultando a bordo pista nella neve fresca, urlando di rabbia. Anche Colò fece la stessa fine, rompendo anche uno sci. Era apparso all'ingresso del Canalone senza ombra di titubanza, sciando raccolto, in una posizione che anticipava quella 'a uovo', ma poi cadde forse proprio per la troppa velocità. Intanto sfilò sorprendendo per la capacità di equilibrio il giovane francese Henri Oreiller: fu lì lì per catapultare mentre percorreva almeno una trentina di metri su un solo sci, ma seppe ricomporsi e poi trionfare da campione. Rivelazione autentica, titolo meritato, Oreiller era anche estroverso e spiritoso. Il luogo della gara sfortunata fu chiamato 'fossa degli italiani', ma va anche detto che Silvio Alverà e Carlo Gartner si piazzarono sesti con l'identico tempo, allora una rarità.
Lungo la stessa pista, abbreviata, vennero poi fatte scendere le discesiste e Celina Seghi affrontò la sfida alquanto trattenuta per gli infortuni patiti dai suoi compaesani Colò e Chierroni. Si piazzò quarta. A gara ultimata, Colò commentò: "avessi fatto una curva in più e lei una in meno, adesso saremmo tutti due con una medaglia al collo". Considerazione amara, ma vera. La prova femminile fu vinta dalla svizzera Hedy Schlunegger giunta per 8 decimi prima dell'emergente austriaca Trude Beiser e della sua connazionale Resi Hammerer. L'altra italiana in gara, l'universitaria Renata Carraretto, assai emozionata, fu appena trentaduesima.
Novità, rispetto al 1936, fu l'aggiunta di un'altra gara di slalom. La prima, senza medaglie, era valida soltanto per la combinata discesa-slalom da affrontare con calcolo e la seconda, indipendente, veniva disputata per le medaglie. Nella prima il tempo era trasformato in punti e così quello della discesa. Oreiller guadagnò la seconda medaglia d'oro, l'argento andò allo svizzero Karl Molitor e il bronzo a Couttet. Alverà fu ancora quinto. Caduta Schlunegger, il titolo femminile combinato premiò Beiser davanti alla sorprendente statunitense Gretchen Fraser e all'austriaca Erika Mahringer. Seghi fu ancora una volta quarta.
Nello slalom indipendente gli italiani ebbero un'altra giornata nera, salvati soltanto da un ottimo quarto posto di Alverà, campione senza punte eccelse ma di eccezionale garanzia. Colò e il suo amico Chierroni fecero molti errori arrivando rispettivamente quattordicesimo e trentesimo. La vittoria, meritata, andò allo svizzero Edi Reinalter, con soli 5 decimi di vantaggio rispetto a Couttet e 2,5″ rispetto a Oreiller, alla sua terza medaglia.
Gran sorpresa invece al femminile, per merito della statunitense Fraser, peraltro eccellente nel precedente slalom ma da nessuno considerata all'altezza di superare tutte le più note e già affermate. Al secondo e terzo posto arrivarono la svizzera Antoinette Meyer e l'austriaca Mahringer e, appena quattordicesima, Celina Seghi.
Notevole era la tensione nell'attesa della prima sfida di fondo, la 18 km. L'attesa era legata da una parte ai pronostici relativi a quale delle tre nazioni nordiche avrebbe potuto vincere le medaglie, perché nessuno pensava che un fondista dei paesi delle Alpi potesse salire sul podio, dall'altra alle speranze, per quanto minime, del cosiddetto 'resto del mondo'. I fondisti italiani erano buoni e anche un po' di più. La guerra li aveva sì rallentati, ma non fermati. Nei Campionati del Mondo 1941 a Cortina d'Ampezzo, i cui titoli furono poi annullati perché a causa della guerra qualche Stato non vi aveva partecipato, era stata memorabile la frazione in staffetta di Aristide Compagnoni.
Il giorno della 18 km a St. Moritz il tempo era bello. In zona partenze-arrivo l'atmosfera era molto tesa, concentrata, ma anche viva e allegra. I concorrenti erano quasi 100, fra cui 7 azzurri. Il giovane svedese Martin Lundström, che non era considerato il più forte, tuttavia giunse primo all'arrivo con una falcata ancora assai energica dopo aver superato ben 15 avversari. Gran stupore si diffuse fra tutti, fra i quali il direttore della Gazzetta dello Sport Emilio De Martino, gran sportivo che però nulla o quasi sapeva dello sci di fondo; guardando ammirato il biondo svedese gridò: "quello lì non lo batte più nessuno!". E così fu. I suoi compagni di squadra lo affiancarono sul podio e il granfondista Nils Karlsson arrivò quinto. Soltanto il finlandese Heikki Hasu si inserì nel quartetto. I norvegesi 'tradirono' la loro gloriosa epopea, ma va sottolineato che avevano pagato i dolenti anni della guerra che indubbiamente non avevano voluto ma soltanto subito. Vanno inoltre considerati i tempi: il vantaggio di Lundström fu di soli 32″ sul secondo e di oltre 2 minuti sul terzo, ma di più di 8 minuti su Severino Compagnoni.
Ancor più tremenda fu l'altra sfida, la Gran fondo dei 50 km, chiamata anche la maratona dello sci, dominata da Karlsson, indubbio fuoriclasse che si guadagnò poi in pochi anni il supremo titolo di 're dello sci' per essere anche salito alla vetta di vincitore del maggior numero di trionfi nella mitica Vasaloppet. Svedese fu anche il secondo, Harald Eriksson, seguito da due finlandesi mentre stupefacente fu il piazzamento dello svizzero Edi Schild, sesto, e migliore di tutti i norvegesi. Ma una considerazione meritano ancora una volta i distacchi, veramente abissali, quasi 5 minuti fra il vincitore e il secondo classificato, 10 minuti al terzo, 11 minuti al quinto, e oltre mezzora al primo italiano, l'asiaghese Cristiano Rodeghiero. L'altro italiano al traguardo, il velocista Silvio Confortola, si piazzò a mezza via, diciottesimo (i partenti furono 38), a 44 minuti. Si deve considerare che 50 km di allora erano più impegnativi di 100 odierni, perché la preparazione fisica era minore, sci e scioline molto più lenti e le piste venivano preparate alla meglio senza i battitori meccanici.
Le altre sfide nordiche furono la combinata fondo-salto, le cui prime due medaglie premiarono i finlandesi Heikki Hasu e Martti Huhtala, e la terza lo svedese Sven Israelsson, con una nuova sorpresa che eccitò largamente gli organizzatori e tutti gli elvetici: il quarto posto del connazionale Niklaus Slump. Degli italiani si piazzarono secondo gli esperti 'con onore' i due migliori, Alfredo Prucker tredicesimo e Rizieri Rodeghiero quattordicesimo, mentre l'alpino Alberto Tassotti fu ventottesimo.
Il salto, tradizionalmente norvegese ancor più delle contese del fondo, mantenne fede alla consuetudine consegnando il titolo al giovane Petter Hugstedt che seppe saltare più lungo (70 m contro 67) dell'asso Birger Ruud, già medaglia d'oro a Garmisch 1936 e ancor prima a Lake Placid 1932. I concorrenti erano 46 e molti apprezzamenti ebbe la prova dell'atleta italiano Bruno Da Col, diciottesimo con lunghezze del volo pari addirittura a quelle di Ruud , 65 e 66 m. Due altri azzurri si librarono nell'aria, il valtellinese della Valmalenco Aldo Trivella trentottesimo e il lombardo di Pontedilegno Igino Rizzi, quarantacinquesimo
Nell'ultima sfida nordica, la staffetta 4 x 10 km, il successo andò, come da pronostico, agli svedesi, che si imposero sulla Finlandia per ben 9 minuti, e sulla Norvegia per oltre 11 minuti. I numerosi italiani presenti non furono ripagati per il loro patriottico entusiasmo, giustamente motivato anche dal quarto posto del 1936. Il primo frazionista, il valdostano Vincenzo Perruchon, aveva patito un'indisposizione notturna e non fu al suo abituale livello. L'Italia, con Perruchon, Silvio Confortola, Rizzieri Rodighiero e Severino Compagnoni, arrivò sesta con un tempo di 2h51′00″ contro 2h32′08″ dei trionfatori. La sorpresa comunque giunse dal quartetto dell'Austria, quarto come non era mai avvenuto, e dagli svizzeri, quinti, che invece erano pronosticati alle spalle dei nordici.
Restando nel campo delle gare segnate dalla fatica, ancora una era la sfida molto attesa dall'Italia, la prova dimostrativa riservata alle pattuglie militari, enfatizzata dalle autorità e dalla nostra stampa per il ricordo sempre vivissimo del trionfo italiano nel 1936. Si sperava in una ripetizione, e, male che andasse, in una collocazione sul podio, ma non fu così. I quattro militari, tenente Costanzo Picco, sergente Aristide Compagnoni, caporale Giacinto De Cassan e alpino Antenore Cuel si batterono assai bene nella prima parte dei 27 km del durissimo tracciato, reso ancora più impervio dalla costante nevicata del giorno e della notte precedente. I concorrenti salirono fin quasi a quota 3000 m del Passo Julier in due salite rese ancora più faticose dalla bufera e dalla scarsa visibilità che a tratti rendevano problematico seguire le linee del percorso. Ci fu un calo di rendimento di Cuel che per continuare degnamente dovette cedere per un po' zaino e fucile al tenente Picco e commise anche errori al tiro, dove pure i suoi compagni furono piuttosto imprecisi. Così dalla seconda posizione gli italiani retrocessero a un pur sempre onorevole quarto posto finale. La vittoria premiò gli svizzeri e si parlò e scrisse di trionfo ma non si poté tacere che essi, più degli avversari, conoscevano meglio l'ostico tracciato.
Nelle discipline dal fondo ghiacciato, il pattinaggio artistico e di velocità, il bob, l'hockey e lo skeleton, ci furono conferme e sorprese in eguale misura. Per la prima volta gli italiani si cimentarono in tutte le specialità. Secondo i pronostici furono le vittorie nel pattinaggio artistico individuale da parte della canadese Barbara Ann Scott e dello statunitense Dick Button, ambedue campioni del mondo, e in quello a coppie dei belgi Micheline Lannoy e Pierre Baugniet, vincitori dopo una durissima lotta su un fondo ghiacciato rovinato per le pessime condizioni atmosferiche e l'alta temperatura (il ghiaccio era naturale e lo stadio non coperto). Per l'Italia il milanese Carlo Fassi fu quindicesimo, Grazia Barcellona ventiquattresima e gli stessi in coppia decimi.
Sorprese si ebbero nella velocità. Si pensava a ripetuti trionfi dello svedese Åke Seyffarth; invece fu sua soltanto la sfida più lunga, i 10.000 m, mentre le altre tre distanze premiarono tre diversi norvegesi, Finn Helgesen per i 500 m, Sverre Farstad per i 1500 m e Reidar Liaklev per i 5000 m.
Nell'hockey dopo la sconfitta del 1936, il Canada tornò alla vittoria, ma non con la sua tradizionale superiorità. Anzi concluse il torneo a parità di punteggio con la Cecoslovacchia che, appena affacciatasi al mondo dell'élite mondiale, riuscì a non farsi battere in un furioso incontro conclusosi a reti inviolate. La medaglia d'oro premiò i canadesi per il cosiddetto vantaggio del quoziente reti. Le prove degli italiani furono mortificanti, con risultati incomprensibili a tutti, tecnici inclusi (Svizzera-Italia 16-0, Stati Uniti-Italia 31-1, Cecoslovacchia-Italia 22-3, Canada-Italia 21-1, Svezia-Italia 23-0). Dopo siffatta figuraccia a Oslo, nel 1952, gli hockeysti italiani non furono neanche presenti.
Anche nel bob, allora chiamato ancora bobsleigh, vi furono conferme e sorprese. Gli USA erano favoriti in tutto, invece dovettero cedere il due, oro e argento, alla Svizzera, mentre nel quattro vinsero l'oro, con un equipaggio del quale faceva parte anche un italoamericano di nome William D'Amico, e anche il bronzo. Una sorpresa fu la medaglia d'argento dei belgi. Gli italiani non si portarono bene, considerando la tradizione dolomitica con la bella pista a Cortina d'Ampezzo. Nel due, arrivarono sesti i milanesi Mario Vitali e Dario Poggi e ottavi lo sconosciuto Nino Bibbia con Edilberto Campadese. Più o meno analogo risultato si ottenne nel quattro, dove l'Italia si piazzò ancora sesta con Bibbia, Giacarlo Ronchetti, Campadese e Luigi Cavalieri e appena undicesima con Ravelli, Folonari e i fratelli Airoldi.
Chi fosse questo sconosciuto Bibbia lo si scoprì nelle audaci discese dello skeleton, disciplina quasi affatto conosciuta almeno in Italia. In verità lo era ben poco anche nel resto del mondo, fatta eccezione per Svizzera, USA e Inghilterra, perché qualche anglosassone benestante la praticava a St. Moritz. Bibbia era un giovane ventiquattrenne lombardo della Valtellina, emigrato in Engadina con la famiglia dedita a un'attività commerciale in frutta e verdura. Il coraggioso giovanotto aveva cominciato a frequentare la pista di Cresta Run quale frenatore del bob di qualche amico, poi si era dedicato allo slittino, quindi allo skeleton, attrezzo sul quale ci si sdraia con la testa a valle, cioè in avanti, e in posizione prona per poi scendere fino a una velocità di 100 km orari. I favoriti erano ovviamente svizzeri, americani e inglesi, collaudati da onorate carriere, ma Bibbia li batté a somma di tempi, alla fine delle sei discese previste e dunque non certo per un caso. La sfida si svolse su due giorni. I discesisti sembravano giocatori di football americano: casco di sughero e acciaio, enormi ginocchiere, proteggimano pure di acciaio, così come certe specie di unghie adattate e usate per governare la direzione. Le scarpe erano lucenti, anch'esse munite di pungiglioni direzionali ed eventualmente frenanti, anche se di rado si rendeva necessario l'uso di questa opzione. Era uno spettacolo di straordinario coraggio quello offerto da quei giovani che scendevano lungo il budello ghiacciato che partiva da Cresta Run e, nel silenzio, si avvertiva diffusa ed eloquente un'atmosfera di attesa. Quando, dopo ore, la contesa si esaurì in un crescendo tricolore, si seppe che Nino Bibbia aveva trionfato dimostrando più audacia e bravura di tutti. Fu il primo oro italiano nei Giochi Olimpici invernali e venne accolto come un premio alla passione e al tifo che avevano contraddistinto ogni competizione. Esplose gran festa fino a notte fonda, dal passo Maloia a Celerina. Ancora una volta simpatica e pertinente fu l'affermazione di Emilio De Martino: "grande il Bibbia, perché avendo trovato il benessere qui è rimasto italiano e ha onorato la patria". E, aggiungiamo, ha pure elevato a un risultato quanto meno onesto la partecipazione italiana a quei Giochi.