Abstract
Si analizzano i vari aspetti del tema, con riferimento alla regola generale sull’onere della prova e i suoi vari limiti oggettivi. Si analizzano inoltre le numerose eccezioni e variazioni che tale regola subisce sia ad opera del legislatore, sia ad opera della giurisprudenza.
L’onere della prova costituisce una delle più importanti situazioni nelle quali si possono trovare le parti nel processo civile, e non a caso è stato oggetto di un’ampia e approfondita letteratura (v. in particolare Micheli, G.A., L’onere della prova, rist. Padova, 1966; Verde, G., L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974; Comoglio, L.P., Le prove civili, III ed., Torino, 2010, 249; Taruffo, M., La valutazione delle prove, in La prova nel processo civile, in Comm. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012, 244; Id., Taruffo, M., Onere della prova, in Dig. civ., XIII, Torino, 1995, 66; Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., Droit de la preuve, Paris, 2015, 203). Si tratta di un onere in senso proprio, in quanto la relativa regola prevede la necessità di una condotta strumentale per il conseguimento di un risultato costituito dalla dimostrazione del fatto costitutivo posto dall’attore a fondamento del diritto di cui chiede la tutela, e dalla dimostrazione dei fatti allegati dal convenuto come base delle sue eccezioni (Taruffo, M., L’onere come figura processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 429; Comoglio, L.P., op. cit., 253).
Nel formulare questa regola l’art. 2697 c.c. si esprime, per così dire, in positivo, in quanto prevede che cosa deve fare l’attore e che cosa spetta invece al convenuto (Commentario breve al codice civile, XII ed. a cura di G. Cian, Padova, 2016, sub art. 2967, 3477) ma questa formulazione richiede una serie di precisazioni, necessarie anche al fine di comprendere l’effettiva natura dell’onere della prova.
Si dice solitamente che la regola dell’onere della prova deriva, oltre che dal tradizionale brocardo per cui onus probandi incumbit ei qui dicit (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 207), dall’obbligo, che grava sul giudice in tutti gli ordinamenti processuali moderni, di decidere la causa in ogni caso, non avendo egli il potere di evitare la decisione in caso di incertezza (il cd. non liquet del giudice romano). Quindi tale regola serve a consentirgli di decidere anche quando manchi la possibilità di considerare provati i fatti rilevanti della causa (Comoglio, L.P., op. cit., 258, 263).
Quanto alla distribuzione soggettiva delle conseguenze negative della mancata prova di questi fatti, si dice ad esempio che l’onere della prova spetta a chi chiede l’applicazione del diritto in suo favore (Gaskins, R.H., Burden of Proof in Modern Discourse, New Haven-London, 1992, 23) pretendendo di modificare in suo favore una situazione giuridica (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 198), ovvero sulla parte che provoca l’intervento del giudice (Nance, D.A., The Burdens of Proof. Discriminatory Power, Weight of Evidence and Tenacity of Belief, Cambridge, 2016, 3). Un altro criterio consiste nell’attribuire l’onere a chi allega un fatto che non corrisponde alla normalità degli eventi di quel tipo (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 205, 209). Tuttavia si fa anche riferimento ad un principio fondamentale di correttezza della comunicazione, secondo il quale chi fa un’affermazione deve anche essere disponibile a dimostrare che essa è vera (Grice, P., Studies in the Ways of Words, Cambridge (Mass.)-London, 1989, 27; Taruffo, M., L’onere come figura processuale, cit., 430), ed anche agli analoghi principi della comunicazione dialogica (Walton, D., A dialogical theory of presumption, in Artif. Int. Law, 2008, 209).
Un primo problema riguarda la dimensione “soggettiva” oppure “oggettiva” dell’onere in questione. Se avesse una dimensione soggettiva, la regola riguarderebbe la provenienza necessaria delle prove nel corso del processo, nel senso che le prove del fatto costitutivo dovrebbero essere dedotte dall’attore mentre le prove relative ai fatti che fondano le eccezioni dovrebbero essere dedotte dal convenuto. Tuttavia, benché la lettera dell’art. 2697 c.c. sembri esprimersi in questo modo, distribuendo tra le parti gli oneri delle iniziative probatorie, sicché ad esempio il convenuto non potrebbe presentare una prova del fatto costitutivo, e l’attore non potrebbe provare fatti dedotti dal convenuto, questa interpretazione dell’onere della prova, pur presente nella dottrina di altri ordinamenti, non viene generalmente accolta nell’ordinamento italiano. In esso, infatti, si ritiene che non esista una dimensione soggettiva dell’onere della prova che riguardi – appunto – la necessaria provenienza delle prove. Al riguardo si adducono solitamente due argomenti. Il primo di essi consiste nel considerare che le prove possono essere acquisite non solo per iniziativa delle parti, ma anche quando il giudice dispone prove d’ufficio. La prova disposta dal giudice può avere l’effetto di dimostrare l’uno o l’altro dei fatti rilevanti della causa, ma essa non ha nulla a che fare con l’attività delle parti. Il secondo argomento, connesso al primo, si fonda sull’esistenza – nel nostro processo civile – di un principio detto della acquisizione probatoria, in virtù del quale ogni prova può essere utilizzata per la dimostrazione di qualsivoglia fatto indipendentemente dalla sua provenienza dall’iniziativa di una parte o dell’altra, o anche del giudice (Taruffo, M., La valutazione delle prove, in La prova nel processo civile, a cura di M. Taruffo, in Comm. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012, 248; Comoglio, L.P., op. cit., 296, 317). Ovviamente ogni parte ha un concreto interesse a produrre tutte le prove che possono dimostrare i fatti che ha allegato a fondamento delle proprie pretese, ma questo interesse non costituisce di per sé oggetto di un obbligo o di un dovere. Tuttavia, se si muove dalla premessa che il processo debba essere orientato all’accertamento della verità dei fatti, si potrebbe giungere a configurare un dovere per tutte le parti di presentare in giudizio ogni prova rilevante a tal fine (De Paula Ramos, V., Ȏnus da prova no processo civil, Sâo Paulo, 2015, 93).
La regola sull’onere della prova ha comunque una funzione epistemica, in quanto impone alla parte che ha allegato un fatto di dimostrare con prove che quel fatto si è davvero verificato (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 246; Id., L’onere come figura processuale, cit., 429).
La dimensione oggettiva dell’onere della prova si intende osservando che in realtà la regola dell’art. 2697 c.c. non riguarda, come si è visto, le iniziative probatorie delle parti nel corso del processo, ma si applica soltanto al momento della decisione finale sui fatti, come regola di giudizio su di essi (Taruffo, M., L’onere come figura processuale, cit., 429; Id., La valutazione delle prove, cit., 245; Comoglio, L.P., op. cit., 249, 293). Si può peraltro osservare che – quasi paradossalmente – questa regola non si applica quando risulta proprio quello che l’art. 2697 c.c. prevede, ossia che appare provato il fatto costitutivo allegato dall’attore e sono provati i fatti allegati dal convenuto. In questo caso emerge un altro aspetto rilevante della regola in questione, che funziona come norma di rinvio: infatti, al fine di stabilire quali sono i fatti giuridicamente rilevanti del caso occorre far riferimento alla norma sostanziale che dev’essere applicata come criterio giuridico di decisione. Sarà questa norma, in altri termini, a stabilire quali sono i fatti che doveva provare l’attore e quali sono i fatti che doveva provare il convenuto (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 248; Taruffo, M., Onere della prova, cit., 67; Patti, S., Le prove. Parte generale, Milano, 2010, 115). È dunque in base alla norma sostanziale che regola la fattispecie, e in base alle allegazioni delle parti, che si individuano i fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore e i fatti che fondano le eccezioni proposte dal convenuto (Comoglio, L.P., op. cit., 273, 282).
Tuttavia, la regola di giudizio in cui si esprime l’onere della prova produce i suoi effetti non quando questi fatti sono stati provati, poiché in questo caso è la norma sostanziale a determinare la decisione, ma – invece – quando manca la prova di essi. In altri termini, la regola dell’onere della prova serve a determinare la decisione quando manca la prova del fatto costitutivo allegato dall’attore o manca la prova di un fatto allegato dal convenuto. Tale regola, dunque, serve a ripartire fra le parti le conseguenze negative della mancata prova dei fatti, in base alla ripartizione dell’onere di fornirne la prova: soccombe l’attore se manca la prova del fatto costitutivo; soccombe il convenuto se il fatto costitutivo è provato ma non è provato il fatto estintivo, impeditivo o modificativo allegato dallo stesso convenuto. Vale la pena di osservare che la mancanza della prova di un fatto, tale da determinare la soccombenza della parte che lo aveva allegato a fondamento della sua pretesa, può verificarsi in varie situazioni, ossia: 1) quando su quel fatto manca qualsiasi elemento di prova; 2) quando su quel fatto esistono elementi di prova, ma non sono sufficienti a darne dimostrazione; 3) quando risulta provata la falsità dell’enunciato che riguarda quel fatto; 4) quando sulla falsità di questo enunciato esistono elementi di prova non sufficienti a provarla; 5) quando sulla falsità di questo enunciato non esiste alcun elemento di prova (Taruffo, M., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009, 222). Bisogna considerare, infatti, che dalla mancata prova della falsità di un enunciato non deriva automaticamente la verità di esso.
Quanto si è detto finora intorno alle modalità di applicazione della regola sull’onere della prova incontra alcune limitazioni, in casi nei quali la legge processuale prevede che questa regola non venga applicata nella decisione finale sui fatti. Queste limitazioni sono previste principalmente dall’art. 115 c.p.c.
Da un lato la norma, nel testo modificato nel 2009, prevede che il giudice fondi la sua decisione, oltre che sulle prove prodotte dalle parti e dal pubblico ministero, anche sui «fatti non specificamente contestati dalla parte costituita» (Taruffo, M., Art. 115, in Carratta, A.-Taruffo, M., Poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Chiarloni, Bologna, 2011, 483). Pare che in proposito il legislatore abbia inteso applicare il cd. ”principio di non contestazione”, in base al quale – appunto – se una parte non contesta specificamente un fatto allegato dall’altra parte non è necessario che quel fatto venga provato, essendo considerato “pacifico”, e il giudice può ugualmente tenerne conto in sede di decisione. Il fenomeno della non contestazione è stato oggetto di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale che qui non può essere analizzato in dettaglio (Taruffo, M., Art. 115, cit., 486; Ciaccia Cavallari, B., La contestazione nel processo civile, I, La contestazione tra norme e sistema, Milano, 1992, e II, La non contestazione: caratteri ed effetti, Milano, 1993; Carratta, A., Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995; Comoglio, L.P., op. cit., 107). In ogni caso, e quale che sia la ricostruzione che ne viene data, pare evidente che l’intenzione del legislatore sia stata semplicemente quella di realizzare una sorta di economia processuale evitando la necessità di acquisire prove su un fatto non specificamente contestato (Taruffo, M., Art. 115, cit., 484). Va escluso, comunque, che un fatto non contestato debba presumersi vero, dato che esso può benissimo essere – in realtà – falso, e il giudice non ha il dovere di affermare che esso è vero. Quindi la non contestazione non “produce” la verità del fatto non contestato (Taruffo, M., Art. 115, cit., 490; Id., La semplice verità, cit., 122). I suoi effetti sono ben minori e – per così dire – soltanto processuali: al riguardo si parla giustamente di una relevatio ab onere probandi per effetto della quale l’attore non ha l’onere di provare il fatto costitutivo della sua domanda se il convenuto non lo ha specificamente contestato (Taruffo, M., Art. 115, cit., 492). Ciò non esclude, peraltro, che il fatto non contestato possa risultare vero, o falso, se le prove comunque acquisite al processo forniscono elementi di convincimento nell’uno o nell’altro senso.
Lo stesso art. 115 c.p.c., nel co. 2, dice che il giudice può «senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza». Secondo l’opinione generalmente condivisa la norma si riferisce a due diverse “nozioni di fatto”, ossia i fatti notori e le massime d’esperienza. Si tratta di nozioni che secondo il legislatore appartengono al conoscere ordinario del giudice, e per questa ragione egli può farne uso senza che esse vengano provate, e senza violare il divieto di utilizzare la sua “scienza privata” previsto dalla stessa norma (Taruffo, M., Art. 115, cit., 477).
Il fatto notorio è tale, secondo la definizione corrente, in quanto è conosciuto nell’ambito della cultura media (che si suppone propria anche del giudice) o può essere individuato e accertato con i “normali” mezzi di informazione (Taruffo, M., Art. 115, cit., 496; Comoglio, L.P., op. cit., 302). Ciò ne assicurerebbe l’attendibilità e consentirebbe di prenderlo in considerazione come vero anche in mancanza di qualsiasi dimostrazione probatoria. Lo stesso vale quando esso è conosciuto non dall’opinione pubblica generale, ma anche soltanto da comunità particolari di soggetti o in luoghi specifici, sicché in proposito si parla di notorietà ristretta (Comoglio, L.P., op. cit., 302). Peraltro la notorietà del fatto non esclude in modo assoluto che esso possa essere oggetto di prova: può essere necessario provare, appunto, che esso è notorio e quindi non è necessario provare che esso è vero (Taruffo, M., Art. 115, cit., 500). D’altronde, l’attendibilità delle fonti di normale conoscenza del fatto può non essere affatto garantita: basti pensare alla quantità di notizie false o errate che si incontrano in internet per ritenere che occorra la prova specifica di circostanze di cui la rete non assicura la veridicità (Taruffo, M., Art. 115, cit., 498).
Le massime d’esperienza sono generalizzazioni che si suppongono derivate –appunto – dall’esperienza delle più diverse situazioni e che proprio per la loro appartenenza al senso comune (di cui anzi costituiscono una parte molto importante) possono essere impiegate dal giudice nel suo ragionamento intorno ai fatti della causa, senza che di esse si dia specifica dimostrazione probatoria (Taruffo, M., Art. 115, cit., 501; Schauer, F., Profiles, Probabilities and Stereotypes, Cambridge (Mass.)-London, 2003, 7). Si tratta, tuttavia, di una estrema e pericolosa semplificazione. Da un lato, infatti, è facile osservare che le massime d’esperienza hanno contenuti estremamente variabili nel tempo, nei luoghi e nelle culture, sicchè ciò che era frutto dell’esperienza decenni o secoli fa in Italia non lo è più e ciò che lo è in un luogo non lo è in un luogo diverso. Dall’altro lato occorre considerare che insieme a generalizzazioni che hanno qualche valore conoscitivo (magari perché sono semplicemente volgarizzazioni di leggi o conoscenze scientifiche) ve ne sono molte che sono spurie, ossia prive di qualunque significato e di qualsiasi attendibilità (Schauer, F., op. cit., 7, 12, 17; Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 226). Non ha caso a proposito del senso comune si è scritto che esso è un «ill-defined agglomeration of belief» che equivale a una «complex soup» in cui sono presenti le cose più varie, dai miti ai proverbi, dalle invenzioni ai pregiudizi (Twining, W., Rethinking Evidence. Exploratory Essays, II ed., Cambridge, 2006, 310, 335; Taruffo, M., La semplice verità, cit., 58). Di conseguenza il semplice riferimento ad una massima d’esperienza che si suppone presente nella cultura media e nel senso comune non offre alcuna garanzia di attendibilità della massima stessa e di validità del suo impiego nel ragionamento probatorio. Nulla esclude, quindi, che di una massima – e soprattutto della sua efficacia conoscitiva – si debba dar prova in giudizio, soprattutto quando la sua qualità venga contestata.
L’art. 2698 c.c. prevede che le parti possano concordemente modificare la distribuzione degli oneri probatori prevista in linea generale dall’art. 2697 c.c., a condizione che si tratti di diritti che rientrano nella loro disponibilità, e purché in questo modo non si renda troppo difficile ad una parte la tutela del proprio diritto. In questo modo il legislatore rende omaggio al principio di autonomia privata, estendendolo anche alle modalità con cui i fatti dovrebbero essere provati in giudizio (Comoglio, L.P., op. cit., 405; Patti, S., op. cit., 255; Taruffo, M., Onere della prova, cit., 74). Anche se pattuizioni di questo genere paiono frequenti in diversi contratti per adesione, si può rilevare la vaghezza e genericità della formulazione che fa dipendere la validità del patto dalla condizione che esso non renda eccessivamente difficile ad una parte l’esercizio del suo diritto (Comoglio, L.P., op. cit., 409).
Pure in omaggio al principio dell’autonomia privata, si ammette solitamente che l’onere della prova venga invertito anche per iniziativa di una sola parte, ossia quando una parte si assuma un onere di prova che non le spetterebbe secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c. Perché ciò avvenga non è però sufficiente che una parte deduca una prova su un fatto che non avrebbe l’onere di provare: se questa prova fallisse la parte che l’ha dedotta senza averne l’onere non subirebbe alcuna conseguenza. Perché si verifichi una reale inversione occorre che la parte manifesti chiaramente la volontà di assumersi l’onere in questione: solo a questa condizione, infatti, essa subirebbe le conseguenze negative della mancata prova del fatto (Patti, S., op. cit., 260; Taruffo, M., Onere della prova, cit., 75).
La regola generale enunciata dall’art. 2697 c.c. viene spesso derogata dal legislatore, normalmente per mezzo della previsione di presunzioni legali (Fabbrini, G., Presunzioni, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, 280). In proposito occorre peraltro distinguere le presunzioni assolute, rispetto alle quali non è ammessa la prova contraria, e le presunzioni relative, che invece ammettono la prova contraria (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 236, 251). Si ritiene peraltro che le presunzioni assolute non siano rilevanti in ambito probatorio, poiché esse apparterrebbero alla disciplina sostanziale delle situazioni per le quali sono previste (Comoglio, L.P., op. cit., 651; Taruffo, M., Onere della prova, cit., 76; Verde, G., op. cit., 220; Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 254), sicché solo le presunzioni relative hanno realmente un effetto di modificazione degli oneri probatori. Tale effetto consiste sostanzialmente in una relevatio ab onere probandi in favore della parte che avrebbe l’onere di dare la prova del fatto che viene presunto; sarà quindi l’altra parte a dover dimostrare che quel fatto non si è verificato (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 238). Il legislatore interviene con presunzioni legali in una pluralità di situazioni, e per ragioni diverse. A volte si tratta di ipotesi nelle quali la prova di un fatto appare eccessivamente difficile o impossibile; altre volte la presunzione corrisponde a ciò che si considera come il normale o più probabile andamento delle cose, sicché andrebbe provato il fatto che non corrisponde alla normalità (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 252; Id., Onere della prova, cit., 76). In molti casi, peraltro, il legislatore utilizza le presunzioni con lo scopo di facilitare la tutela dei diritti di soggetti che si considerano “deboli”, e che per varie ragioni avrebbero difficoltà a fornire la prova dei fatti su cui fondano le loro pretese (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 249; Cendon, P.-Ziviz, P., L’inversione dell’onere della prova nel diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 757). Si tratta ad esempio del lavoratore (Comoglio, L.P., op. cit., 365; Vallebona, A., L’inversione dell’onere della prova nel diritto del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 809; Vallebona, A., L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988; Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 221), del soggetto che intende eliminare una discriminazione sul luogo di lavoro (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 250; Id., La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992, 481), dei soggetti che si trovano a subire pregiudizi di varia natura ma incontrano rilevanti difficoltà nel fornirne la prova (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 250; Patti, S., op. cit., 155). A parte la varietà di queste situazioni, il meccanismo delle presunzioni legali è sempre il medesimo: se manca la prova contraria il giudice è tenuto a considerare il fatto presunto come se fosse vero, anche se su di esso non è emersa in giudizio alcuna prova (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 252).
Il riferimento a ciò che si considera essere “normale” non caratterizza solo – come si è visto – l’intervento del legislatore che introduce presunzioni legali. Si tratta invece di un fenomeno che assume particolare importanza, soprattutto negli Stati Uniti, proprio per il fatto che quando un fatto rientra nella normalità di quel tipo di eventi, esso può essere “presunto” anche quando non vi sia al riguardo nessuna norma espressa (Rescher, N., Presumption and the Practices of Tentative Cognition, Cambridge, 2006, 13, 27, 88). Non si tratta dunque di una presunzione legale in senso proprio, ma di un aspetto importante del ragionamento pratico (Petroski, K., The Public Face of Presumptions, in Episteme, 5, 2008, 392), nel quale in molte situazioni si presume, senza darne specifica dimostrazione, che un certo fatto si sia verificato o che esista una determinata situazione, semplicemente sulla base dell’esperienza o del senso comune che induce a considerare normali (e quindi ad ipotizzare implicitamente come veri) quel fatto o quella situazione. Un esempio interessante è quello della “presunzione di costituzionalità” che viene presupposta tutte le volte in cui la legittimità costituzionale di una norma non è in discussione, semplicemente perché è “normale” che tale norma si consideri costituzionalmente legittima (Barnett, R.E., The Power of Presumptions, in Harv. J. Law & Publ. Policy, 17, 1994, 614; Petroski, K., op. cit., 390; Gaskins, R.H., op. cit., 50). L’effetto di queste presumptions è analogo a quello che viene prodotto dalle presunzioni legali: la parte che si giova della presunzione non è tenuta a dar prova del fatto presunto, mentre si verifica un’inversione dell’onere della prova a carico della parte che intende dimostrare che nel caso specifico quel fatto non si è verificato (Yablon, Ch.M., A theory of presumptions, in Law, Prob. & Risk, 2, 2003, 227; Gaskins, R.H., op. cit., 27).
La distribuzione originaria degli oneri probatori tra le parti può essere modificata o invertita non solo nelle ipotesi che si sono considerate in precedenza, ma anche per intervento del giudice, che di volta in volta assegna all’una o all’altra parte oneri che esse non avrebbero secondo l’art. 2697 c.c. (o secondo i principi generali stabiliti nei codici: Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 212). Nel lessico processuale italiano si parla, a questo proposito, di “presunzioni giurisprudenziali”, dato che l’effetto dell’intervento del giudice è analogo a quello delle presunzioni legali: un fatto che dovrebbe essere provato da una parte viene assunto come noto, e il giudice assegna invece all’altra parte l’onere di dimostrare il contrario (Verde, G., op. cit., 135, 142; Patti, S., op. cit., 139, 226; Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 254; Id., Onere della prova, cit., 77; Comoglio, L.P., op. cit., 321). In giurisprudenza le situazioni in cui il giudice provvede in questo senso sono numerose e varie (Comoglio, L.P., op. cit., 326, 365; Patti, S., op. cit., 140; Verde, G., op. loc. ultt. citt.; Vallebona, A., L’inversione, cit., 816; Id., L’onere della prova, cit., 23, 153); normalmente – quando viene seguito un criterio identificabile – l’onere di fornire la prova viene attribuito alla parte che più agevolmente può disporne, così favorendo la parte che sarebbe inizialmente onerata ma che si trova nell’estrema difficoltà o nell’impossibilità di provare il fatto (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 251). È ad es. il caso che si verifica con notevole frequenza, della responsabilità medica, in cui il giudice attribuisce al medico l’onere di dimostrare che l’assistenza è avvenuta in maniera regolare, così evitando che tocchi al paziente fornire la prova –difficile o impossibile – del pregiudizio causato da un’assistenza errata (Scalamogna, M., La ripartizione dell’onere probatorio nella responsabilità medica: l’ultimo (?) “revirement” giurisprudenziale, in Riv. crit. dir. priv., 2005, 361; Jaramillo J., C.I., La culpa y la carga de la prueba en el campo de la responsabilidad médica, Bogotá, 2011, 183, 199). Benché il fenomeno delle presunzioni giurisprudenziali sia frequente e vario, come si è detto, e benché talvolta esso trovi delle giustificazioni ragionevoli, è lecito dubitare della sua legittimità, soprattutto quando – come accade con l’art. 2697 c.c. – la legge prevede in generale, ma specificamente, una ripartizione degli oneri probatori tra le parti. È chiaro, infatti, che quando il giudice “crea” una presunzione che la legge non prevede sta semplicemente violando la norma generale (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 254; Patti, S., op. cit., 141; Jaramillo J., C.I., op. cit., 287), e sta predeterminando l’esito finale della decisione sui fatti, sostituendo un suo criterio a quello del legislatore. Ciò è tanto più grave quando, come spesso accade, solo con la sentenza che chiude il processo il giudice manipola l’onere della prova attribuendolo ad una parte diversa da quella che era originariamente onerata. Si tratta infatti di decisioni “a sorpresa” che pongono nel nulla il diritto di ogni parte di difendersi conoscendo in tempo utile ciò che dovrà o non dovrà dimostrare (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 259; Jaramillo J., C.I., op. cit., 294).
L’intervento del giudice sulla distribuzione degli oneri probatorio è un fenomeno che – con poche differenze – è presente nella maggior parte degli ordinamenti processuali moderni. È ad es. il caso dei sistemi processuali dell’America latina, ove si parla di onere dinamico della prova per indicare che il giudice può “muovere” l’onere spostandolo da una parte all’altra, solitamente in base ad un criterio equitativo consistente nel favorire la parte che sarebbe onerata della prova di un fatto ma che si trova nella difficoltà o nell’impossibilità di farlo (Carpes, A., Ȏnus dinâmico da prova, Porto Alegre, 2010, 67; Midón, M.S., La carga de la prueba, in Tratado de la prueba, Chaco (Arg.), 2007, 167; Peyrano, M.L., De las cargas probatorias dinamicas, ivi, 190; Jaramillo J., C.I., op. cit., 214; Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 255). Un criterio analogo viene applicato anche in Francia (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 205).
Qualche somiglianza con le presunzioni giurisprudenziali mostra il pur discusso esempio della cd. prova prima facie (o Anscheinsbeweis), di frequente applicazione nell’ordinamento tedesco (Comoglio, L.P., op. cit., 323; Patti, S., op. cit., 232; Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici, cit., 483, anche per riferimenti). Si tratta di possibili inversioni degli oneri probatori fondate sulla premessa che un fatto “appaia” verosimile sulla base di massime d’esperienza riferibili al caso concreto, e sull’idea –pur dubbia- che siffatta apparenza attribuisca al fatto allegato da una parte una sorta di probatio inferior, sufficiente comunque ad invertire l’onere della prova attribuendo all’altra parte l’onere della prova contraria (Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici, cit., 485; Patti, S., op. cit., 234).
Nell’ambito dei sistemi processuali di civil law l’esempio più interessante è senz’altro quello spagnolo dopo l’introduzione, nel 2000, della nuova Ley de Enjuiciamiento Civil. L’art.217 della LEC enuncia nei primi commi la regola generale relativa all’onere della prova, in termini analoghi a quelli del nostro art.2697, ma nel n.5 dell’art.217 si prevede espressamente la possibilità che norme specifiche regolino diversamente la distribuzione degli oneri probatori tra le parti, e nel n. 6 si prevede espressamente che il giudice tenga conto della “disponibilidad y facilidad probatoria que corresponde a cada una de las partes del litigio”. E’ dunque proprio il legislatore del codice che attribuisce al giudice il potere discrezionale di “adattare” l’interpretazione delle regole sugli oneri di prova alla disponibilità della prova e alla facilità con cui una parte –che può non essere quella in linea di principio onerata- è in grado di presentare una prova. Non si tratta peraltro di una discrezionalità assoluta, poiché il giudice se ne può servire solo quando esistono le condizioni indicate dalla norma e relative alla possibilità che una parte possa –meglio dell’altra- fornire la prova (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 253; Abel Lluch, 373; Pazos Méndez, S., Los criterios de facilidad y disponibilidad probatoria, Abel lluch, X-Picó i Junoy, J., dir., Objeto y carga de la Prueba Civil, Barcelona, 2007, 79; Jaramillo J., C.I., op. cit., 327). Non a caso un orientamento analogo esiste anche nella dottrina francese (Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., op. cit., 199).
Anche il giudice americano dispone di ampi poteri di intervento sulla distribuzione degli oneri probatori, ma in proposito occorre tener conto delle peculiarità dell’ordinamento processuale statunitense. In esso esistono infatti due oneri della prova: il cd. burden of producing evidence, che ha effetto nel corso del processo, e il cd. burden of proof (o of persuasion) che costituisce la regola di giudizio per la decisione finale sui fatti (Nance, D.A., op. cit., 2; Macagno, F.-Walton, D., Presumptions in Legal Argumentation, in Ratio Juris, 25, 2012, 271, 275; Gaskins, R.H., op. cit., 4, 21, 49, 141). Il burden of production serve a stabilire sin dall’inizio del processo (Walton, D., op. cit., 213) se esistono prove sufficienti a giustificare la prosecuzione del processo sino al trial e quindi sino alla sentenza; in caso contrario il processo non viene proseguito. In proposto non esiste una regola generale che dica quale parte ha l’onere di presentare prove: è a questo proposito che il giudice dispone di un potere discrezionale amplissimo, che gli consente di ordinare a qualunque parte la produzione delle prove di cui essa dispone, onde stabilire se continuare o bloccare il processo nella fase preliminare (Nance, D.A., op. cit., 201; Gaskins, R.H., op. cit., 27). In concreto si tratta peraltro di stabilire chi è nella condizione migliore per presentare le prove (Walton, D., op. cit., 226), e una presumption può incidere nel senso di invertire il burden of production (Yablon, Ch.M., op. cit., 228, 230; Rescher, N., op. cit., 13). Se le prove necessarie vengono presentate e si giunge alla decisione finale, la regola di giudizio si fonda sul burden of proof, ossia sull’accertamento della verità dei fatti rilevanti. Al riguardo, peraltro, non esiste un criterio generale uniforme, e le corti seguono una varietà di criteri diversi al fine di attribuire la vittoria all’una o all’altra parte (Nance, D.A., op. cit., 3; Frankel, 760).
Come si è visto nei paragrafi che precedono, il panorama complessivo degli oneri probatori è assai ampio, vario e complesso. Da un lato, infatti, vi sono in alcuni sistemi, come in Italia e in Francia, regole generali codificate che ripartiscono tra le parti l’onere della prova, in funzione della loro posizione nel processo e relativamente ai fatti che esse hanno allegato a fondamento delle loro pretese. Anche quando una regola generale non viene espressamente enunciata, come ad es. in Germania, un analogo principio viene tuttavia ricostruito sulla base delle numerose norme che regolano fattispecie particolati (Taruffo, M., Onere della prova, cit., 62). Dall’altro lato, però, lo stesso legislatore interviene in un gran numero di casi invertendo o comunque modificando la ripartizione degli oneri probatori, sicché si può avere l’impressione che la regola generale abbia ora un campo d’applicazione residuale, o comunque assai ridotto, in confronto alla estesa varietà dei casi in cui il legislatore evita che essa venga applicata.
Questa impressione si rafforza ulteriormente se si guarda alla ancora più vasta area delle fattispecie in cui il legislatore non interviene, ma è la giurisprudenza ad attribuire al giudice – in vario modo – ampi poteri discrezionali in base ai quali egli può redistribuire tra le parti gli oneri probatori in base alle circostanze del singolo caso. Come si è accennato, queste eccezioni (comprese quelle stabilite dal legislatore) vengono giustificate con vari argomenti, che consistono spesso nell’opportunità di assicurare pari possibilità difensive a tutte le parti, ed in particolare alle parti “deboli, e di fare in modo che queste parti siano in grado di tutelare effettivamente i loro diritti (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 255). Si tratta allora di demandare al giudice valutazioni sostanzialmente equitative (per non dire giustizialiste), che tuttavia presentano il rischio dell’arbitrarietà che è sempre insito in decisioni prese caso per caso, senza considerare che il modo e il momento in cui queste valutazioni sono formulate possono portare a lesioni anche gravi della garanzia della difesa (v. supra, § 7).
Assai spesso le eccezioni alla regola generale (ancora comprese quelle stabilite dal legislatore) vengono giustificate in base ad un criterio di vicinanza o di prossimità della prova (Besso, C., La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, 1383; Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 255). Secondo questo criterio sarebbe ragionevole disapplicare la regola di base sull’onere della prova, attribuendolo alla parte che non ne sarebbe onerata l’onere di fornire la prova a lei più “vicina” in quanto ne ha o ne può avere più facilmente la disponibilità. Si tratta di un criterio a prima vista ragionevole ed opportuno, poiché rende più probabile l’effettiva presentazione della prova, che non avverrebbe ad opera della parte che ne sarebbe onerata ma è per qualsiasi ragione “lontana” dalla prova. Si realizzerebbe anche l’esigenza di massimizzare per quanto possibile l’acquisizione di tutte le prove rilevanti per la decisione (Nance, D.A., op. cit., 103, 186). Non pare dubbio che queste finalità debbano essere valutate positivamente, posto che la qualità della decisione sui fatti si incrementa, consentendo una migliore approssimazione alla verità, quanto più numerose sono le prove che vengono acquisite al giudizio, indipendentemente dalla loro provenienza “soggettiva”. Si può tuttavia dubitare che la manipolazione caso per caso degli oneri probatori da parte del giudice sia il modo più opportuno per conseguirle. A parte il rischio di valutazioni arbitrarie che pure sussiste in questi casi, si può osservare che se lo scopo è di far sì che vengano presentate in giudizio tutte le prove disponibili e rilevanti, un metodo più opportuno – e non idoneo a predeterminare implicitamente la decisione finale – consiste nel conferire al giudice il potere-dovere di ordinare a chiunque (parti o terzi) disponga di una prova rilevante, di produrla in giudizio. Con un ordine di esibizione, o di informazione, adeguatamente sanzionato, il giudice potrebbe raggiungere lo scopo senza manipolare l’originaria distribuzione degli oneri probatori (Taruffo, M., La valutazione delle prove, cit., 256).
Artt. 2697-2698 c.c.; art. 115 c.p.c.
AA.V.V., Tratado de la prueba, Chaco (Arg.), 2007; AA.VV., Cargas probatorias dinamicas, Buenos Aires, 2008; Abel Lluch, X., Derecho probatorio, Barcelona, 2012; Abel lluch, X-Picó i Junoy, J., dir., Objeto i carga de la Prueba Civil, Barcelona, 2007; Barnett, R.E., The Power of Presumptions, in Harv. J. Law & Publ. Policy, 17, 1994, 614; Besso, C., La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, 1383; Carpes, A., Ȏnus dinâmico da prova, Porto Alegre, 2010; Carratta, A., Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995; Carratta, A.-Taruffo, M., Poteri del giudice, in Comm. c.p.c. Chiarloni, Bologna, 2011; Cendon, P.-Ziviz, P., L’inversione dell’onere della prova nel diritto civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 757; Ciaccia Cavallari, B., La contestazione nel processo civile, I, La contestazione tra norme e sistema, Milano, 1992, e II, La non contestazione: caratteri ed effetti, Milano, 1993; Comoglio, L.P., Le prove civili, III ed., Torino, 2010; De Paula Ramos, V., Ȏnus da prova no processo civil, Sâo Paulo, 2015; Fabbrini, G., Presunzioni, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, 279 ss.; Frankel, T., Presumptions and Burdens of Proof as Tools for Legal Stability and Change, in Harv. J. Law & Publ. Policy, 17, 1994, 759 ss.; Gaskins, R.H., Burden of Proof in Modern Discourse, New Haven-London, 1992; Grice, P., Studies in the Ways of Words, Cambridge (Mass.)-London, 1989; Jaramillo J., C.I., La culpa y la carga de la prueba en el campo de la responsabilidad médica, Bogotá, 2011; Macagno, F.-Walton, D., Presumptions in Legal Argumentation, in Ratio Juris, 25, 2012, 271; Micheli, G.A., L’onere della prova, rist. Padova, 1966; Nance, D.A., The Burdens of Proof. Discriminatory Power, Weight of Evidence and Tenacity of Belief, Cambridge, 2016; Patti, S., Le prove. Parte generale, Milano, 2010; Petroski, K., The Public Face of Presumptions, in Episteme, 5, 2008, 388; Rescher, N., Presumption and the Practices of Tentative Cognition, Cambridge, 2006; Scalamogna, M., La ripartizione dell’onere probatorio nella responsabilità medica: l’ultimo (?) “revirement” giurisprudenziale, in Riv. crit. dir. priv., 2005, 361; Schauer, F., Profiles, Probabilities and Stereotypes, Cambridge (Mass.)-London, 2003; Taruffo, M., La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1992; Taruffo, M., Onere della prova, in Dig. civ., XIII, Torino, 1995, 65; Taruffo, M., La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Bari, 2009; Taruffo, M., a cura di, La prova nel processo civile, in Comm. Cicu-Messineo-Mengoni-Schlesinger, Milano, 2012; Taruffo, M., L’onere come figura processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 425; Twining, W., Rethinking Evidence. Exploratory Essays, II ed., Cambridge, 2006; Vallebona, A., L’inversione dell’onere della prova nel diritto del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, 809; Vallebona, A., L’onere della prova nel diritto del lavoro, Padova, 1988; Verde, G., L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974; Vergès, E.-Vial, G.-Leclerc, O., Droit de la preuve, Paris, 2015; Yablon, Ch.M., A theory of presumptions, in Law, Prob. & Risk, 2, 2003, 227; Walton, D., A dialogical theory of presumption, in Artif. Int. Law, 2008, 209.