Onorio I
Nativo della Campania, proveniva certamente dagli strati più elevati della società locale, essendo figlio del "consul" Petronio. Non se ne hanno notizie prima dell'ascesa al soglio pontificio, che avvenne il 27 ottobre del 625, appena due giorni dopo l'inumazione del suo predecessore Bonifacio V. La rapidità con cui giunse la conferma imperiale fa ritenere che, per la prima volta, essa dovette essere assicurata dall'esarca Isacio, in quel momento a Roma.
Non si sa molto dell'attività di O. nel corso dei primi anni di pontificato. Del resto, le scarse informazioni che si hanno al riguardo giungono per lo più da epistole, a lui attribuite, di tradizione manoscritta tarda e isolata. Alcune sopravvivono infatti solo in una raccolta di canoni approntata nel XII secolo da Ivo di Chartres, mentre altre furono incluse da Andrea Dandolo nella sua cronaca di Venezia, alla metà del XIV secolo. È probabile tuttavia che il nuovo pontefice si trovasse immediatamente coinvolto nelle vicende politiche e religiose dell'Italia settentrionale. In un momento in cui l'appartenenza religiosa era ancora considerata, nel mondo longobardo, carattere qualificante nella lotta per la legittimità regia, il re Adaloaldo, cattolico, doveva fronteggiare la rivolta guidata dal duca di Torino, l'ariano Arioaldo. O. prese le parti del sovrano, chiedendo anche l'aiuto dell'esarca ravennate per punire i vescovi padani che spingevano la popolazione a violare il giuramento di fedeltà al re e a schierarsi con il suo avversario. In seguito egli dovette comunque stabilire relazioni pacifiche con quest'ultimo, che era intanto riuscito a salire al trono e, pur senza convertirsi, aveva mostrato atteggiamenti benevoli nei confronti dei cattolici. Una manifestazione di questa concordia si può forse intravedere nella concorrenza di favori di cui pare avere goduto il monastero regio di Bobbio, nell'Appennino emiliano. Con una lettera del giugno del 628 - giunta in una copia posteriore al IX secolo sulla cui genuinità la critica non è unanime - O. avrebbe infatti dichiarato il cenobio immune dall'autorità vescovile.
Il pontefice ebbe inoltre modo di intervenire con efficacia nelle vicende della sede di Aquileia-Grado. Il metropolita Fortunato, tra il 627 e il 628, aveva aderito alle posizioni tricapitoline ed era riparato a Cormons, in territorio longobardo. O. privò il clero locale del diritto di eleggere il successore di Fortunato e, applicando le procedure solite per le terre di missione, inviò a Grado il suddiacono regionario romano Primigenio, già insignito del pallio. Certamente non fu O. a porre fine allo scisma dei Tre Capitoli, come dichiara la sua epigrafe funebre. Tuttavia è vero che proprio durante il suo pontificato - forse in virtù dei buoni rapporti che ebbe con Arioaldo e del fatto che questi, divenuto re, non mostrava di ritenere le questioni di fede un rilevante strumento di affermazione politica - le posizioni scismatiche si andarono estinguendo in gran parte dell'Italia longobarda.
O. sostenne anche con vigore l'attività missionaria in Inghilterra. Nel 627 inviò una lettera al re Edwin di Northumbria, che da poco aveva ricevuto il battesimo, esprimendo il proprio compiacimento per la sua adesione alla fede cattolica. Nello stesso tempo concesse il pallio al vescovo di York, il monaco romano Paolino, artefice di quella conversione. Nel 634 egli inviò poi a Dorchester, nella regione del Wessex, Birino, secondo una tradizione più tarda un cittadino di Roma che si era offerto per la missione, con il compito di evangelizzare i Sassoni occidentali. Il papa non ebbe invece successo quando tentò di convincere i Celti cristiani ad abbandonare il loro modo di calcolare la data della Pasqua. Essi continuarono infatti a celebrare la festività il quattordicesimo giorno, qualunque esso fosse, del mese nis¯an (il primo del calendario ebraico) e non, secondo quanto prescritto dal concilio di Nicea (325), la domenica seguente il plenilunio primaverile. Anche in Sardegna, Illirico e Spagna, O. intervenne con fermezza per riorganizzare le gerarchie religiose, e nella penisola iberica incitò i vescovi a proseguire con autorità nell'opera di conversione degli ebrei.
Nel 634 O. ricevette una lettera da Sergio I, patriarca di Costantinopoli (610-638). Questi proponeva di bandire ogni menzione di uno o due modi di operazione nel Cristo. Bisognava piuttosto affermare che un solo e unico figlio era il soggetto di tutte le operazioni, umane e divine, del Dio uomo. La formula "due nature distinte, una sola operazione", egli spiegava, si era rivelata molto efficace in Oriente per recuperare all'ortodossia i monofisiti che, presenti in gran numero nelle province orientali, erano stati rianimati dalla temporanea occupazione persiana di Siria (611-629) ed Egitto (618-629). Essa era stata tuttavia rifiutata da Sofrone, nuovo vescovo di Gerusalemme (634-638), in quanto a suo parere non propagandava altro che un monofisismo mascherato. O. rispose con due lettere che, perduto l'originale latino, sono oggi possedute solo nella traduzione greca approntata nel 680 per l'esame conciliare del Costantinopolitano III (e nella successiva retrotraduzione latina) e in forma frammentaria per quanto riguarda la seconda di esse (l'edizione critica più recente è quella di G. Kreuzer, pp. 32-46, 48-53). Il pontefice si espresse in modo tale da lasciare adito a interpretazioni diverse, e talora opposte, del suo pensiero. Egli, infatti, non solo manifestò la propria adesione alla proposta di Sergio, ma affermò inoltre che, poiché il Verbo agiva attraverso le sue due nature, non poteva che avere una sola volontà. Tale opinione si prestava a opportuni travisamenti che si accordavano bene con la politica di Sergio e dell'imperatore Eraclio. Nell'autunno del 638 quest'ultimo pubblicò un decreto (Ecthèsis) che proibiva qualunque menzione di una o due operazioni nel Cristo e ordinava di professare che egli aveva una sola volontà. O. era appena morto (12 ottobre) ed era stato sepolto in S. Pietro. È anzi possibile che a Costantinopoli si fosse ritardata a bella posta la pubblicazione dell'Ecthèsis per potere con più facilità usare dolosamente le incaute formulazioni del pontefice.
Il pontificato di O. ebbe nel complesso tratti chiaramente ispirati all'opera di Gregorio. Non solo infatti egli, come mettono in rilievo sia il biografo sia la sua epigrafe funebre, trasformò in monastero la propria casa presso il Laterano e favorì il clero regolare, ma ebbe anche particolarmente a cuore l'amministrazione dei patrimoni della Chiesa romana. Alcuni estratti dal suo Registrum, inclusi nel Liber Censuum, manifestano un'evidente consonanza tra i sistemi di gestione delle risorse finanziarie impiegati da O. e quelli applicati da Gregorio. Sembra anche (Le Liber Censuum, p. 351) che egli fosse nelle condizioni di proporre ai funzionari imperiali - a quelli di Napoli in particolare - un modello di amministrazione cittadina. Durante il pontificato di O. la Sede apostolica poté in sostanza disporre di notevoli mezzi che erano certamente il frutto dell'accorta amministrazione dei beni ecclesiastici, ma che furono forse incrementati grazie a un uso fraudolento della delega al pagamento dei soldati imperiali a Roma. Due anni dopo la morte di O., in occasione di alcuni tumulti scoppiati in città, il Palazzo del Laterano fu infatti preso d'assalto su istigazione del patrizio Maurizio, che poteva contare sull'approvazione dell'esarca Isacio. Maurizio giustificò la propria iniziativa con il fatto che proprio O. aveva depositato nel palatium ingenti ricchezze, frutto dell'appropriazione indebita dei fondi affidatigli in deposito per il soldo delle truppe.
In ogni modo O. seppe di certo fare fruttare le risorse di cui disponeva, e fu ad esempio in grado di destinare almeno 2000 libbre d'argento (circa 680 kg) a vari luoghi di culto della città. Egli ordinò inoltre imprese edilizie di portata rilevante, anche se talvolta difficili da determinare con esattezza. Il programma di costruzioni, e restauri, che egli attuò fu caratterizzato da tratti fortemente propagandistici e da una singolare corrispondenza con quello intrapreso, poco più di un secolo prima, da Simmaco. Lungo la via Nomentana, egli fece completamente ricostruire la basilica ad corpus dedicata alla martire Agnese, e ne fece decorare l'abside con un mosaico - nel quale egli era ritratto alla destra della santa nell'atto di offrirle il modellino della chiesa mentre alla sinistra di lei si trovava papa Simmaco, che in passato aveva ampiamente restaurato la chiesa - e un'epigrafe dedicatoria. La basilica intitolata a s. Pancrazio sulla via Aurelia, anch'essa dovuta in origine a Simmaco, fu egualmente ricostruita dalle fondamenta. O. adornò con argento la tomba del martire, fece dono di oggetti preziosi, e pose un'iscrizione nell'abside. Egli ordinò inoltre che nella basilica vaticana fossero sostituite sedici travi del tetto, che venne ricoperto con le tegole di bronzo tolte, con l'autorizzazione dell'imperatore Eraclio, dal Templum Romae, cioè il tempio di Venere e Roma nel Foro. Il portale maggiore della basilica fu inoltre rivestito d'argento. È possibile che fra gli abbellimenti commissionati da O. vi fossero, all'interno dell'edificio, arredi musivi e una nuova ornamentazione del soffitto. Anche in questo caso epigrafi furono poste a ricordo e dedica dell'impresa edilizia. Nei pressi del tratto meridionale del portico di S. Pietro, detto ad Palmata, e attiguo ai resti del circo di Nerone, O. fece poi erigere una cappella intitolata a s. Apollinare, ancora visibile agli inizi del XVI secolo (C. Hülsen-H. Egger, Die Römischen Skizzenbücher von Marten van Heemskerck, Berlin 1916). Il pontefice stabilì inoltre che ogni sabato una processione partisse di lì e raggiungesse la basilica vaticana. O., dedicando al culto del patrono di una città come Ravenna, che spesso si atteggiava ad antagonista di Roma, una cappella in così stretto contatto con la basilica del principe degli apostoli, si propose certo di fare cosa grata ai Ravennati, al loro arcivescovo e all'esarca, ma volle certamente anche ricordare che fra le due città esisteva un intimo legame religioso, fondato sulla preminenza della Chiesa di Roma. Di grande impegno furono poi i lavori edilizi promossi nel cimitero dei SS. Marcellino e Pietro sulla via Labicana. Le indagini archeologiche hanno consentito di riferire i rinnovamenti di cui parla il biografo non tanto alla basilica costantiniana, quanto piuttosto al sotterraneo santuario presso la tomba dei due martiri. All'iniziativa del pontefice si dovrebbe infatti la basilichetta ipogea che venne ottenuta distruggendo tutti gli ambienti circostanti. Una nota interpolata alla biografia di O. - significativa perché tradita da uno dei pochi manoscritti del Liber pontificalis attribuibili con una certa sicurezza all'ambiente romano (il ms. Vat. lat. 3764) - gli assegna inoltre il merito di aver restaurato l'Aqua Traiana, l'acquedotto che portava l'acqua dal lago di Bracciano fino sulla sommità del Gianicolo, e di avere fatto costruire un mulino sulle pendici del colle, per sfruttare l'energia del canale di scolo che scendeva al Tevere. Sulla via Ostiense, a metà tra Roma e Ostia, nel punto oggi detto Mezzocammino, egli innalzò una chiesa a s. Ciriaco nel punto in cui si trovavano le tombe del santo e dei suoi compagni di martirio, già da secoli oggetto di venerazione; sulla via Flaminia, presso ponte Milvio, restaurò la chiesa eretta intorno alla metà del IV secolo da Giulio I e dedicata a s. Valentino. Infine presso Tivoli sorse per volontà del papa una chiesa dedicata a s. Severino. Certamente, in qualche caso, il tono celebrativo del biografo maschera interventi di poco rilievo. Così nel "titulus" dei SS. Quattro Coronati, i frammenti di pavimento musivo nella navata laterale nord, attribuiti - in maniera peraltro assai cauta - da R. Krautheimer (R. Krautheimer-S. Corbett-W. Frankl, Corpus basilicarum christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma [Sec. IV-IX], IV, Città del Vaticano 1976, pp. 32-3) all'iniziativa di O., sono stati più di recente riferiti al pieno IX secolo (F. Guidobaldi-A. Guiglia Guidobaldi, Pavimenti marmorei di Roma dal IV al IX secolo, Roma 1983, pp. 434-35). È quindi possibile che in questo caso il pontefice si limitasse alla consacrazione di un edificio preesistente, ipotesi suffragata, in parte almeno, dall'assenza nella biografia di O. della specificazione "a solo" - dalle fondamenta - in riferimento al verbo "fecit", presente invece in altri casi di effettiva fondazione di chiese. Nel caso della chiesa di S. Adriano in tribus Fatis, l'intervento di O. si limitò poi, nella sostanza, alla trasformazione in luogo di culto della Curia senatus nel Foro. Furono infatti lasciati inalterati i livelli pavimentali e l'aspetto complessivo dell'aula, mantenendo in opera la decorazione parietale a crustae marmoree policrome di età dioclezianea e la porta bronzea. L'unica novità di rilievo fu l'apertura di un'abside con lesena centrale nella parete nord-est. Lungo il "clivus Suburanus" sull'Esquilino O. fece inoltre erigere la chiesa di S. Lucia in Orfea, probabilmente riadattando l'aula di una basilica civile risalente alla fine del III-inizi del IV secolo.
È indubbio tuttavia che il pontificato di O., a dispetto dell'ampiezza della sua azione, sia collegato in gran parte al problema della nascita e della pur breve affermazione dell'eresia monotelita. La Honoriusfrage (questione onoriana), ancora oggi talvolta caratterizzata da toni di accesa rivendicazione ideologico-dottrinale, continua infatti a destare l'interesse degli studiosi. Va ricordato che una vera presa di coscienza contro il monotelismo comparve solo verso il 640, quando cominciò a emergere appieno il valore eterodosso, o comunque affatto monotelita, che l'espressione "una volontà" assumeva nell'Ecthèsis. In quel testo, infatti, l'equivoca frase onoriana "ὃθεν καὶ ἕν θέλημα ομολογούμεν" ("unde et unam voluntatem fatemur" nella retrotraduzione latina: "e dunque proclamiamo una sola volontà") era presentata abilmente avulsa dal suo contesto originale e collegata ad argomentazioni che ne legittimavano interpretazioni eterodosse o, in ogni caso, propriamente monotelite (v. Martino I, santo e Teodoro I). In Occidente - come dimostrerebbero ad esempio le prime indagini del presbitero Anastasio di cui parla Massimo il Confessore nella sua Epistola Ad Marinum (in I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum [...], X, Florentiae 1764, pp. 687 c-d), o l'Apologia pro Honorio papa del pontefice Giovanni IV - sin dall'inizio sembra essere invece prevalsa una lettura puramente ortodossa di quegli stessi testi. È stata infatti giudicata poco sostenibile una pur suggestiva ipotesi (G. Kreuzer, pp. 227 ss.), secondo la quale, quasi subito dopo la morte di O., si sarebbe tentato di accreditare un'interpretazione delle lettere in senso pienamente ditelita. Al fine di sostenere meglio tale tesi le copie delle epistole onoriane, conservate negli archivi papali, sarebbero state soppresse già in epoca molto antica. P. Conte (Note, pp. 154 ss.) ricorda infatti che esse erano conosciute da parte di Massimo, il che proverebbe la loro esistenza a Roma nel corso del pontificato di Martino (su quest'ultimo aspetto cfr. anche R. Riedinger, Lateinische Übersetzungen griechischer Häretikertexte des siebenten Jahrhunderts, Wien 1979, p. 18 n. 170).
Fu comunque soprattutto Massimo - formatosi al pensiero teologico orientale, palestinese di origine ma profondo conoscitore del mondo bizantino - a difendere con energia la dottrina e l'opera di Onorio. Massimo, capo spirituale del monacato greco che a Roma guidava la resistenza antimonotelita, si pronunciò in più occasioni a favore del defunto pontefice, ma ciò non valse a evitare che O. fosse ufficialmente colpito da anatema nel III concilio di Costantinopoli (680-681), che proclamò l'esistenza delle due volontà, umana e divina, nel Cristo. Questa condanna, ratificata da Leone II, che approvò gli atti del concilio nel 680-681, è stata oggetto di accese discussioni a partire dal XV secolo. Di essa si servirono infatti, ad esempio, protestanti, giansenisti, sostenitori della superiorità conciliare, gallicani, per confutare l'infallibilità dei pontefici. Dal canto suo, la storiografia cattolica tradizionale, preoccupata degli attacchi portati al dogma proclamato nel Vaticano I (1869-1870), anche di recente si è sforzata di attenuarne il significato, riducendo nello stesso tempo l'errore di O. dal piano dogmatico a quello pratico-pastorale. Del resto anche la formula con cui Leone II proclamò la condanna di O. e degli iniziatori di quell'eresia, Teodoro, Ciro, Sergio, Pirro, Paolo, Pietro, fu volutamente ambigua. Al contrario dei vescovi bizantini, il papa non era infatti esplicitamente qualificato come eretico, ma come colui che "prophana proditione immaculatam fidem maculari permisit" (cfr. anche la lezione di un codice dell'VIII secolo, il vaticano Reg. lat. 1040, c. 84: "prophana pro traditione immaculatam fidem dari permittendo conatus est"). Egli sarebbe stato in sostanza non propugnatore cosciente di dottrine eterodosse, ma vittima ignara (pur se negligente) dei raggiri del patriarca Sergio di Costantinopoli. D'altra parte, su un diverso versante, anche le proposte dottrinali di quest'ultimo sono state di recente sottoposte a revisione, e ne è stata affermata la sostanziale ortodossia (cfr. F. Carcione, Enérgheia, Thélema e Theokínetos, pp. 263-76). Riguardo ad O., posizioni più equilibrate (cfr. E. Zocca, Onorio e Martino, pp. 103-47) se, da un lato, affermano con decisione la sua perfetta aderenza all'ortodossia cristologica latina sul problema dell'enérgheia, dall'altro analizzano con cautela le proposte onoriane in materia di volontà del Cristo. È vero infatti che il pontefice, per le proprie formulazioni, avrebbe tratto dai Padri (Agostino in particolare) ispirazione testuale e di contenuti. Tuttavia egli, forse condizionato dalle peculiarità della problematica avanzata dal patriarca di Costantinopoli, non avrebbe colto il punto centrale della questione. Sergio infatti, partendo da un'impostazione cristologica di tipo alessandrino, rifiutava la possibilità di una professione dienergita poiché a questa avrebbe dovuto conseguire necessariamente una parallela affermazione ditelita, cosa a suo avviso inammissibile. O., che già sul problema dell'enérgheia aveva cercato di destrutturare la prospettiva suggerita da Sergio per ricondurre il discorso a schemi di pensiero che riteneva più conformi all'ortodossia, si trovava ora nuovamente di fronte a un'impostazione cristologica che non condivideva e gli appariva forse lesiva di una reale umanità di Cristo. Per questo motivo avvertiva l'esigenza di porre in luce il ruolo fondamentale svolto dal Cristo-uomo nel quadro del disegno salvifico, pur dichiarando esplicitamente di non volere con ciò riconoscere alcuna legittimità alla professione monotelita (cfr. I lettera, pp. 43-4, rr. 262-82, dell'edizione di G. Kreuzer).
È comunque molto difficile, e forse non del tutto utile, determinare con certezza le reali intenzioni che animarono Onorio. Ciò che sembra più interessante è proprio il fatto che, dolosa o meno che fosse la lettura che a Bisanzio veniva proposta delle lettere onoriane, quei testi rappresentarono per secoli, in Occidente, terreno di confronto tra fautori e avversari del primato papale. Da notare, infine, che Anastasio Bibliotecario, volendo scagionare O., avanza la compiacente ipotesi che le lettere su cui si fondavano i suoi detrattori non fossero state scritte personalmente da lui (cfr. Anastasii Bibliothecarii Epistolae sive prefationes, a cura di E. Perels-G. Laeher, in M.G.H., Epistolae, VII, Epistolae Karolini aevi V, a cura di E. Caspar-G. Laeher, 1993, nr. 9, p. 424, rr. 2-4).
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