ORAZÎ e CURIAZÎ
. Sorta guerra tra Alba e Roma sotto il regno di Tullo Ostilio (data tradizionale 673-642 a. C.), si stabilì che l'esito d'un duello fra tre guerrieri di ciascuno dei due popoli avrebbe deciso intorno alla supremazia dell'una o dell'altra delle due città. Campioni romani furono i tre Orazî, albani i tre Curiazî, gli uni e gli altri trigemini. Nel combattimento sulle prime i Curiazî ebbero il vantaggio: feriti tutti e tre, uccisero due degli Orazî. Il terzo Orazio, incolume, con una finta fuga riuscì a separare i Curiazî feriti che si diedero a inseguirlo e poi, rivolgendosi, li uccise l'uno dopo l'altro e decise così della supremazia romana. Tornando in Roma vîttorioso s'incontrò con la sorella, che, riconosciute tra le spoglie dei vinti da lui portate quelle d'uno dei Curiazî, ch'era suo fidanzato, scoppiò in alti lamenti e rampogne, onde il fratello sdegnato la uccise. Tratto in giudizio fu condannato a morte, ma si appellò al popolo che lo assolse.
Tale la tradizione riferita in modo concorde da Livio e da Dionisio e già nota a Cicerone e così esposta probabilmente nelle linee fondamentali da Ennio nei suoi Annali. Sappiamo però da Livio (I, 24,1) che c'erano in proposito divergenze tra gli annalisti: "in re tam clara nominum error manet utrius populi Horatii utrius Curiatii fuerint: auctores utroque trahunt". D'altronde già qualche antico confrontava una leggenda greca sulla singolare tenzone fra trigemini di Tegea e di Feneo in Arcadia; e qualche moderno non ha esitato a vedere nella leggenda di Feneo l'originale della romana. Ma ora i più tra i critici sono d'avviso che tale favola greca, scarsamente testimoniata, sia invece una copia dell'antica leggenda romana. Con ciò non si vuol dire che questa debba essere ritenuta sostanzialmente storica. Essa è ricca d'elementi poetici (tanto che è stata argomento anche di drammi moderni: più famoso l'Horace di Corneille), e, sebbene sia erroneo pensare che ciò si debba ad Ennio o ad altri poeti o annalisti, dev'essere messa accanto alle più belle leggende della tradizione romana e ritenersi elaborata dalla fantasia o dalla poesia epica nazionale dei secoli V e IV a. C.; e quindi non le si può assegnare altro valore storico che quello degli antichi carmi epici nazionali d'ogni popolo. Essa è documento in ogni modo del vivo patriottismo, dello spirito guerriero e dell'alto sentire dei Romani nei primi secoli dell'età repubblicana. Notevole è altresì il desiderio di sopire il ricordo delle lotte cruente che certo hanno preceduto la distruzione di Alba: caratteristico anche questo dell'età in cui Romani e Latini procedevano insieme all'unificazione d'Italia.
La leggenda si collegava con alcuni monumenti: 1. le credute tombe degli Orazî e dei Curiazî sulla Via Appia (da non confondersi con quell'antico monumento sepolcrale che si soleva designare con questo nome tra Albano e Aricia); 2. un luogo nel Foro che portava il nome di Pila Horatia. Si trattava nell'età augustea d'una colonna o pilastro all'estremità della basilica Giulia o della basilica Emilia presso il Foro, e si riteneva che ivi o ivi presso fossero state appese le spoglie dei vinti Curiazî. Se il monumento prendesse nome da pila, pilastro, o da piluui, giavellotto, non è chiaro; 3. il cosiddetto "tigillo sororio", trave lignea orizzontale sovrapposta a due stipiti verticali presso cui erano due are, l'una di Giano Curiazio, l'altra di Giunone Sororia, Giano cioè considerato in relazione con le curie e Giunone considerata come sorella di Giano (Ianus Iunonius). Colà avevano luogo cerimonie espiatorie. Era probabilmente una antichissima porta da cui rientrava nel pomerio l'esercito cittadino dopo essersi purificato del sangue versato in guerra. Che questi monumenti abbiano fornito alla leggenda qualche spunto etiologico, è evidente ed è pure evidente che le ha fornito qualche particolare il desiderio di dare un'origine antichissima all'appello al popolo (provocatio) nelle cause capitali e di esemplarne la procedura. Ma la leggenda non si riduce a questi elementi e nel suo insieme, come accade di regola nelle leggende più poetiche e più genuinamente popolari, essa non è analizzabile.
Bibl.: A. Schwegler, Römische Geschichte, I, 2ª ed., Tubinga 1867, p. 586 segg.; O. Gilbert, Geschichte und Topogr. der Stadt Rom im Altertum, I, Lipsia 1883, p. 178 segg.; II, ivi 1885, pp. 55 segg.; 67 segg.; C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica, Firenze 1903; p. 16 segg.; E. Pais, Storia critica di Roma, I, ii, Roma 1913, p. 456 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 368 seg.; F. Münzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VIII, col. 2332 segg.; S. B. Platner, Topographical dictionary of ancient Rome, Oxford 1929, pp. 390 seg. e 538 seg.