Oreficeria
La mobilità delle opere di oreficeria, dei cammei, delle gemme ha provocato la rapida dispersione del tesoro svevo. Talvolta Federico stesso provvide ad alienare propri preziosi per gratitudine o devozione, in segno di regale munificenza. Le disfatte militari con i conseguenti saccheggi fecero il resto. In condizioni così difficili, ben poco è stato censito fino a oggi di quella che sotto l'impero di Federico dovette essere una fiorente produzione, non solo per l'alto rango del committente, ma anche per la sua specifica passione e competenza che ne hanno fatto quasi un collezionista ante litteram (Calò Mariani, 1993). A restituirci un'eco della consistenza e della varietà dei prodotti di oreficeria sveva, per anni è rimasto poco oltre la testimonianza delle fonti. L'inventario del tesoro svevo dato in pegno ai genovesi elenca un gran numero di cammei, gemme e pietre dure, accanto a vasi di pietre dure con o senza guarnizioni d'oro, anelli, croci auree e reliquiari (Byrne, 1935). Analogamente Salimbene de Adam ci informa che, in seguito alla disfatta di Vittoria nel 1248, i parmensi s'impossessarono delle insegne regali, tra cui una corona d'oro e pietre preziose arricchita di figure scolpite a rilievo, "come cesellate" (1966, I, p. 293). Proprio questa descrizione tramandataci da Salimbene ha indotto Ferdinando Bologna (1969) a formulare l'ipotesi che la perduta corona dovesse presentare delle affinità con la produzione scultorea del celebre orafo Nicola di Verdun, interpretata come una prova della presenza nel tesoro imperiale di manufatti di provenienza transalpina. Lipinsky (1970) credette addirittura di trovare nelle fonti una notizia che attestasse l'attività in Italia, nell'orbita di Federico II, dell'orafo tedesco Dietrich von Boppard, a suffragio dell'intensità degli scambi tra il Regno e l'area germanica. Tuttavia, in seguito a una più attenta lettura delle medesime fonti (Historia diplomatica, II, pp. 169 ss.; Regesta Imperii, V, 1, pp. 54, 750, 1002), tale notizia è stata fortemente ridimensionata e riproposta in termini ben più problematici (Claussen, 1978). In compenso risulta che la terza moglie di Federico, Isabella d'Inghilterra, in seguito alle nozze del 1235, portò con sé i due orafi "Ricardo scissori" e "Ricardo Abel aurifabro" (Schramm-Mütherich, 1962, p. 108, doc. S, IV, righe 33, 49; Guastella, 1995). L'eclettismo degli scambi promossi da Federico e dalla sua corte coinvolse anche centri estranei alla sua Corona, purché caratterizzati dall'eccellenza nell'arte orafa, come Venezia (Historia diplomatica, V, p. 553).
Contrasta con questo fastoso quadro offerto dalle fonti l'esiguità del corpus dell'oreficeria federiciana a tutt'oggi definito. Al di là delle perdite irrimediabili, la dispersione del tesoro imperiale ha comportato anche una decontestualizzazione dei singoli manufatti che ne ha a lungo compromesso l'identificazione. Solo grazie a una faticosa ricognizione la critica moderna è andata riconoscendo la possibile origine sveva delle opere superstiti, come l'onice di Sciaffusa (Allerheiligemuseum), o la coppa e la corona di s. Elisabetta, oggi a Stoccolma (Nationalmuseum, inv. nr. 21). L'onice fu messa in relazione alla committenza federiciana da Knöpfli (1953) che vi riconobbe, grazie all'iscrizione, un dono offerto alla famiglia Vohburg da Federico II. D'accordo con tale ricostruzione, Heuser (1974), in base all'analisi formale, suggerì che la realizzazione della montatura del cammeo in sardonica, con oro, pietre dure, perle e retrostante placca in argento dorato decorata da una figura di falconiere a rilievo, fosse frutto della collaborazione di un orafo siciliano, per la parte anteriore, con uno strasburghese, per il rilievo posteriore, localizzandone l'esecuzione a Strasburgo, attorno al 1230.
La committenza federiciana è stata successivamente considerata con maggior cautela, non potendosi escludere che il gioiello fosse stato fatto realizzare da un membro della famiglia Vohburg, ferma restando la sua datazione negli anni 1230-1240 a Strasburgo (Kötzsche, 1977). Analoga collocazione crono-topografica è stata proposta per la guarnizione della coppa in onice e per la corona di s. Elisabetta, a Stoccolma fin dal XVI sec. (Heuser, 1974). L'attuale ubicazione ne aveva fatto smarrire l'origine. Fu Schramm (1955) a ricostruire la committenza federiciana, rintracciando l'originaria collocazione nella Elisabethkirche di Marburgo e mettendo quindi i due pezzi in relazione con i doni che Federico II offrì nel 1236, quando partecipò alla traslazione della salma di s. Elisabetta di Turingia, con cui aveva legami di parentela.
Persino per il corredo funebre di Costanza d'Aragona (m. 1222) la vicenda critica è stata complessa. A causa delle dispersioni e delle manomissioni conseguenti alle due ricognizioni della tomba succedutesi nel tempo, del corredo restano la corona, tre anelli, la placca argentea con l'iscrizione identificativa e dei frammenti del gallone del manto con placchette a smalto e filigranate, oggi esposti nel tesoro della cattedrale di Palermo. Proprio il pezzo più sontuoso, la corona, una calotta d'oro rosso filigranato con lunghissimi pendilia, è stata oggetto di una disputa che ne ha messo in dubbio la destinazione a un personaggio di sesso femminile, per quanto di alto rango. In alternativa, è stato proposto di identificarla con la corona indossata dallo stesso Federico in occasione della sua incoronazione imperiale (Deér, 1952), o addirittura con la corona dell'incoronazione di Ruggero II (Lipinsky, 1952-1953), ipotesi, questa, ultimamente ribadita, seppur con molta cautela (Pomarici, 1994). La critica più recente ha però portato nuovi argomenti a favore dell'effettiva appartenenza della corona al corredo funebre di Costanza d'Aragona. Da un lato sono stati addotti riscontri iconografici e documentari intesi a dimostrare come i caratteri formali di questa corona potessero essere conformi all'apparato di una regnante donna (von Engelberg, 1998-1999), sebbene non tutti gli argomenti siano risultati pienamente convincenti a negarne l'originaria pertinenza ad un sovrano uomo, ovvero a Federico II stesso (Pace, 2002). Parallelamente è stata condotta un'analisi sul manufatto volta tanto a ricostruirne l'aspetto originale, alterato da un restauro del 1848 (Guastella, 1993), quanto a evidenziarne la coerenza stilistica con gli altri gioielli superstiti del corredo funebre di Costanza. L'affinità riscontrata sarebbe indizio della sua elaborazione ad hoc per un apparato coordinato, a opera di un'officina siciliana ancora attiva in età sveva nel solco della precedente tradizione normanna (Ead., 1995). La perdurante vitalità dei laboratori regali insulari in età federiciana, perpetuando tecniche messe a punto durante il regno degli Altavilla, appare confermata dagli smalti e dalle filigrane che ornano il fodero della spada di Federico II (Vienna, Kunsthistorisches Museum) e dal confronto tra le placchette in smalto dei pendilia della corona di Costanza d'Aragona e le analoghe placchette poste sul retro della croce di Cosenza (ibid.). La croce-stauroteca (Cosenza, Tesoro della cattedrale) è stata attribuita dalla tradizione a Federico II, perché ritenuta un dono del sovrano in occasione della riconsacrazione della cattedrale di Cosenza nel 1222 (Santagata, 1974). In realtà, è stata realizzata in età tardo-normanna nei laboratori regali siciliani ed è plausibilmente entrata in possesso di Federico II assieme al composito tesoro dei suoi predecessori (Dolcini, 1987 e 1995).
Un altro gioiello del medesimo corredo funebre di Costanza d'Aragona, perduto ma noto attraverso la restituzione grafica datane in occasione della ricognizione settecentesca (Daniele, 1784), è stato invece associato alla montatura anteriore dell'onice di Sciaffusa per l'analoga resa degli elementi zoomorfi (Kötzsche, 1977; Guastella, 1995). Nel gioiello, forse un pettorale, è stato colto un momento di passaggio dalle modalità schiettamente 'pittoriche' proprie delle officine siciliane di età normanna, tutte giocate sugli effetti cromatici e luminosi di filigrane, smalti e pietre incastonate, a una elaborazione più attenta al dato plastico, con elementi scultorei di ascendenza germanica, a testimonianza di una precoce sintesi tra modalità insulari e d'oltralpe. Al gioiello perduto e all'onice di Sciaffusa è stato recentemente accostato anche il reliquiario della Vergine del duomo di Hildesheim, che condividerebbe con i primi due manufatti un'analoga fattura degli animali scolpiti a rilievo lungo la fascia circostante il calice (Brandt, 1989). Sebbene questo reliquiario esuli dall'ambito federiciano strictu sensu, perché riferito piuttosto a Ottone IV (m. 1218), antagonista di Federico per il soglio imperiale, tale confronto è comunque un'eloquente conferma della circolazione di modelli tra l'Italia meridionale e la Germania, già a una data alta. D'altro canto non è una mera ipotesi la nozione, peraltro ovvia, che lo stesso Federico II avesse avuto modo di conoscere in prima persona, e magari apprezzare, i moderni esiti della scultura in metallo renano-mosana. Infatti nel 1215, nel duomo di Aquisgrana, Federico suggellò con un colpo di martello la conclusione dello scrigno reliquiario di Carlomagno. Significativamente la galleria di ritratti regali modellati ad altorilievo che si snoda lungo i lati della cassetta si conclude proprio con l'effigie di Federico II, raffigurato con corona, globo e croce e qualificato come "Rex et Romae et Sicilie" (Grimme, 1988 e 2002).
La croce di Veroli (Museo diocesano), proveniente dal tesoro dell'abbazia di Casamari, resta un enigma nella sua dirompente originalità rispetto al contesto italo-meridionale, sia per il suo formato, adeguato a una funzione di croce processionale, sia per il suo apparato scultoreo. I suoi referenti formali impongono la conoscenza di modelli che trovano la loro origine nel cuore della più moderna scultura del primo quarto del XIII sec., fra il Regno di Francia e la regione mosano-renana, ovvero in quell'ambito territoriale nel quale, al trapasso fra i due secoli, hanno preso forma i capolavori del cosiddetto 'stile 1200' che in Nicola di Verdun ha il suo esponente più celebre. Nella totale assenza di documenti che ne consentano la datazione o che ne indizino una committenza e/o un esecutore, la croce è stata riferita tanto agli inizi che alla fine del XIII sec., con recenti proposte per la metà del Duecento (Bertelli, 1984) o al secondo quarto (Pace, in corso di stampa). Eletta dalla letteratura critica a prova cardine della circolazione, favorita dal patrocinio svevo, di maestri e modalità oltralpine nel Regno, la croce di Veroli è stata addirittura attribuita al mitico Dietrich von Boppard (Lipinsky, 1966, 1970 e 1976-1977). Più di recente Bertelli (1995), tornando a insistere sulla bipolarità culturale del Maestro della croce, aggiornato sulla plastica d'oltralpe ma fortemente legato alla tradizione italo-meridionale, ha offerto nuovi argomenti storici a favore della genesi della croce nell'ambito del Regno, per l'espressa committenza di Federico II. L'abate di Casamari Giovanni V fu nominato da Federico II cancelliere: la croce potrebbe quindi, secondo Bertelli, essere un compenso per il servizio reso. Tuttavia un'eventuale origine federiciana mal si accorda con il programma iconografico della croce: infatti nell'economia della rappresentazione l'unica immagine non strettamente necessaria è quella di s. Pietro con le chiavi ben in evidenza, eloquente segno di obbedienza al primato papale (Pace, in corso di stampa). Eppure l'incommensurabile disparità qualitativa tra la croce di Veroli e le coeve opere di oreficeria realizzate nell'Urbe e legate alla committenza curiale sembrano escludere un'origine romana (ibid.). Restano, quindi, aperti i problemi interconnessi dell'individuazione del possibile destinatario della croce di Veroli e della sua origine. La loro soluzione sarebbe un importante tassello nel quadro ricostruttivo della genesi del gotico italo-meridionale. Infatti, secondo una recente ipotesi, proprio la circolazione dei prodotti dell'oreficeria avrebbe potuto costituire il mezzo di diffusione nel Regno dei canoni formali del Muldenfaltenstil protoduecentesco (Pace, 1994). La ricezione di tali modalità avrebbe attivato quel rinnovato classicismo secondo i modi del nascente gotico europeo che si concretizza esemplarmente nella scultura federiciana e, in particolare, nella porta di Capua (v.; Mellini, 1978). A questo proposito bisogna comunque registrare l'ammonimento a tenere conto degli esiti inevitabilmente diversi che marcano la differenza tra scultura lapidea e oreficeria, data la diversità dei media (Claussen, 1996).
fonti e bibliografia
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