Organizzazione
di Giuseppe Bonazzi
Il termine 'organizzazione' viene generalmente usato in una doppia accezione. Nella prima esso denota il modo in cui le varie parti o componenti di un ente sono dinamicamente connesse e coordinate tra loro. In questa accezione 'organizzazione' possiede un campo semantico vastissimo. Si parla di organizzazione domestica, della vita quotidiana, del lavoro, di un viaggio o di una festa. A causa di questa vasta gamma di significati, il termine organizzazione non è patrimonio di una specifica branca disciplinare, ma è usato - oltre che nel linguaggio quotidiano - in pressoché tutte le scienze sociali nonché in numerose scienze naturali che, come la biologia e l'etologia, hanno per oggetto di studio organismi viventi o aggregati di organismi viventi.
Nella seconda accezione il termine organizzazione viene usato per denotare una determinata categoria di enti sociali fondati sulla divisione del lavoro e delle competenze: imprese economiche, amministrazioni pubbliche, partiti politici, associazioni culturali, religiose, sportive, ecc. In questa accezione le organizzazioni sono oggetto di discipline specifiche come la teoria d'impresa, il comportamento organizzativo e soprattutto la sociologia e la psicologia delle organizzazioni (con le varie branche specialistiche, ad esempio organizzazione militare, carceraria, ospedaliera, scolastica, ecc.).
Le organizzazioni studiate da queste discipline sono state anche definite formali o complesse. Con il primo termine si intende che l'aggregazione spontanea dei membri non è una condizione sufficiente perché una organizzazione sia socialmente riconosciuta, ma è richiesto un atto costitutivo dotato di validità legale che stabilisca i fini istituzionali dell'organizzazione stessa. Il secondo termine sottolinea invece che un tratto comune a questo tipo di organizzazioni è la complessità della loro struttura interna, normalmente ispirata a criteri di divisione del lavoro e delle competenze. L'espressione 'organizzazione' è quindi usata per indicare per antonomasia tutti quegli enti sociali in cui il momento organizzativo è prevalente per capirne il funzionamento, e con un gioco di parole si potrebbe dire che l'oggetto di analisi delle discipline sopra indicate è il modo in cui le organizzazioni sono organizzate. In questa sede noi ci occuperemo del concetto di organizzazione soltanto nell'accezione accreditata dalle suddette discipline.
Il modo migliore per comprendere che cosa sono le organizzazioni è quello di tenere presente la loro storicità. Questa va intesa in almeno tre sensi. Il primo, abbastanza ovvio, è che le singole organizzazioni mutano nel corso della loro esistenza. Mutano perché sono sollecitate ad adattarsi alle novità dell'ambiente circostante, e mutano anche perché è la loro stessa crescita a imporre il passaggio a fasi successive. La transizione per fasi è un fenomeno così comune da aver suggerito ad alcuni autori dei modelli evoluzionistici applicati in particolare alle imprese (v. Greiner, 1972). Oggi tali modelli sono piuttosto desueti a causa dell'implicito determinismo che li ispira. Ma restano coloro che sostengono che il modo più efficace per capire le dinamiche interne alle organizzazioni è un approccio longitudinale o diacronico, con particolare attenzione ai momenti critici che caratterizzano la loro storia passata. L'ipotesi di lavoro di questi studiosi è che il modo in cui le organizzazioni affrontano e superano le crisi influenza il loro assetto futuro (v. Clark, 1972; v. Kimberly e Miles, 1980). Naturalmente un'organizzazione può anche non superare la crisi. In questo caso si apre la possibilità di ricerche sui motivi dell'insuccesso, che può provocare la scomparsa dell'organizzazione stessa per scioglimento o per assorbimento da parte di un'altra organizzazione.
Il secondo modo di intendere la storicità delle organizzazioni si riferisce al fatto che nel corso del tempo mutano le stesse specie delle organizzazioni esistenti. Specie organizzative un tempo fiorenti e diffuse scompaiono o mutano così radicalmente da divenire irriconoscibili (ad esempio, le corporazioni medievali di mestiere, vari ordini religiosi). Al contempo specie organizzative nuove compaiono e si diffondono caratterizzando un'epoca storica, finché non emergono altre forme. La comparsa a ritmo accelerato di nuove specie organizzative è iniziata con la rivoluzione industriale, e Arthur Stinchcombe (v., 1965) suggerisce che ogni fase dell'industrializzazione sia stata caratterizzata da una specie organizzativa dominante: il Settecento fu l'epoca della manifattura leggera (tessile, vetro), l'Ottocento della manifattura pesante (ferrovie e miniere), mentre nel Novecento comparvero le industrie automobilistica, petrolifera, chimica, elettrica, aeronautica e, nella seconda metà del secolo, l'industria elettronica. L'idea di Stinchcombe è che ciascuna specie organizzativa conservi, come se fosse un imprinting, alcuni tratti strutturali tipici dell'epoca storica in cui è nata. Anche se fondata oggi, ogni impresa appartenente a un dato settore conserva alcuni tratti tipici dell'epoca in cui il suo settore è storicamente comparso.
Oggi la rivoluzione informatica e la globalizzazione produttiva attenuano la persistenza di questo imprinting. Ma l'intuizione di Stinchcombe si estende anche a organizzazioni diverse dalle imprese. Partiti, associazioni volontarie, università, egli afferma, possono essere studiati risalendo all'epoca storica in cui comparvero le loro specie. Ad esempio, i partiti politici fondati nell'Ottocento, quando non esisteva il suffragio universale, conservano ancora oggi l'organizzazione debole tipica dei partiti di opinione. Viceversa, i partiti nati tra l'Ottocento e il Novecento, sull'onda della questione sociale, conservano la struttura organizzativa del partito di massa, a prescindere dalla fortuna politica e dalla revisione dei programmi originari. Se si accetta questa ipotesi, si può sostenere che anche i partiti nati oggi, nell'epoca dei mass media, conserveranno in futuro i tratti organizzativi tipici della società contemporanea.
Infine, il terzo modo in cui si può parlare di storicità riguarda non solo le organizzazioni in quanto entità oggettive operanti in un dato contesto sociale, ma anche il modo in cui esse sono concettualizzate da parte delle comunità scientifiche che le studiano. Da un lato, le novità nel mondo dell'azione organizzativa sollecitano le comunità scientifiche a innovare approcci, problematiche e teorizzazioni. Dall'altro lato, i risultati del dibattito scientifico influenzano le comunità degli operatori suggerendo nuove sensibilità, nuovi modelli, nuovi criteri di azione. La sola esperienza immediata di un'organizzazione non è sufficiente per la sua conoscenza. Così come per molti altri fenomeni complessi, la conoscenza di un'organizzazione richiede una 'cornice di senso' in cui siano presenti categorizzazioni, sia pure semplificate e rudimentali, che discendono da una generalizzazione teorica. In altre parole: chiunque svolga un compito dotato di senso all'interno di una organizzazione ha bisogno di conoscere - seppure in modo indiretto e approssimato - i termini del dibattito scientifico sulle organizzazioni. Questo assunto può anche essere espresso dicendo che le organizzazioni non possono essere conosciute se non attraverso ciò che di esse viene detto in sedi accreditate. Per questa ragione noi proseguiremo ricostruendo le principali fasi della teoria organizzativa come si è sviluppata a partire dai primi decenni del XX secolo.
Le origini della teoria organizzativa si trovano nell'opera di Max Weber e di Frederick W. Taylor. Per quanto diversissimi come formazione culturale e interessi, Weber e Taylor hanno dato contributi che presentano alcune peculiari similarità nel concettualizzare le organizzazioni come apparati burocratici - e pertanto razionali.
Weber studia l'essenza, i presupposti e il funzionamento del potere burocratico con particolare riferimento alla formazione dello Stato e delle imprese capitalistiche nelle società moderne. Egli delinea il tipo ideale della burocrazia come forma pura di potere legale e razionale, ossia di potere legittimato dalla presunzione che atti e comandi siano razionalmente orientati al perseguimento degli scopi per cui l'ufficio è stato istituito. Una burocrazia comporta un'autorità disciplinata da leggi e regolamenti amministrativi; l'ordinamento gerarchico degli uffici e delle competenze; la preparazione specializzata dei funzionari preposti ai vari compiti; professioni a tempo pieno, regolate come carriere vitalizie e ricompensate con stipendio monetario fisso; un'etica di ufficio ispirata a criteri universalistici di imparzialità e di riservatezza. Per Weber "la precisione, la rapidità, l'univocità degli atti, la continuità, la discrezione, la coesione, la rigida subordinazione, la riduzione dei contrasti [...] danno all'amministrazione burocratica una indiscutibile superiorità tecnica su qualunque forma precedente di amministrazione" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 28). Egli ammonisce che tale superiorità non è di per sé motivo di ottimismo. La razionalità rispetto allo scopo, tipica della burocrazia, è uno strumento neutro che può essere usato per fini vantaggiosi per l'umanità, ma anche per fini distruttivi e di dominio, e questa intrinseca ambivalenza costituisce per Weber uno dei tratti dominanti e tragici della società moderna.Anche Taylor, con la proposta di introdurre nelle fabbriche l'organizzazione scientifica del lavoro, fornisce un contributo determinante per la concettualizzazione delle organizzazioni produttive come burocrazie. Il taylorismo è noto soprattutto come strumento per standardizzare e parcellizzare il lavoro esecutivo, e per questo motivo esso ha conquistato l'ambigua fama di voler ottenere l'efficienza attraverso la ripetitività e la costrizione del lavoro. Ma a una lettura più attenta si comprende che l'organizzazione scientifica del lavoro non riguarda solo il modo di lavorare in officina, ma l'intero modo di organizzare e di gestire un'impresa, quindi anche il modo di comandare. L'idea fondamentale di Taylor è che l'arbitrio dei capi deve essere sostituito dall'autorità della legge, e questa si basa sulla valutazione scientifica del modo migliore di raggiungere il risultato. I capi intermedi sono legittimati a comandare solo nell'ambito dei ranghi gerarchici stabiliti dalla direzione e nei ben delimitati campi di competenza a loro affidati. È su questo punto che Taylor si avvicina a Weber: allo stesso modo in cui nello Stato moderno i funzionari nominati in base a criteri di legittimità burocratica sostituiscono i feudatari nel rappresentare il potere centrale in periferia, così nella fabbrica gestita con criteri scientifici i capi intermedi agiscono in quanto rappresentanti legali della direzione e non più come capi a cui è stato fiduciariamente delegato un potere senza controllo. Leggere Taylor alla luce del modello di Weber aiuta a interpretare il taylorismo come un gigantesco sforzo per rendere trasparente e calcolabile l'intero processo produttivo, il che presuppone che l'impresa venga considerata il solo soggetto titolato ad avere un progetto razionale (Weber vide nella calcolabilità del capitale il presupposto di un'economia razionale). A sua volta leggere Weber alla luce della proposta di Taylor aiuta a riconoscere che la burocratizzazione moderna non si ferma all'amministrazione statale, ma investe la sfera della produzione. Se il taylorismo va giudicato come un processo di burocratizzazione che ha investito le fabbriche, allora gli operai addetti alle mansioni più ripetitive possono essere considerati come dei 'burocrati' a livello zero.Weber e Taylor influenzarono grandemente lo studio delle organizzazioni nella prima metà del XX secolo. Tale influenza si manifestò soprattutto nello sviluppo della cosiddetta scuola classica delle teorie manageriali e d'impresa (si ricordano i nomi di H. Fayol, L. Gulick, L. Urwick). L'intento di questa scuola era eminentemente prescrittivo, ossia individuare i principî generali in base ai quali ottimizzare la progettazione organizzativa delle imprese. Questo intento presuppone almeno tre assunti: a) che la razionalità delle scelte in merito all'assetto interno e alle strategie sia il criterio principe con cui misurare l'efficienza di un'organizzazione; b) che le organizzazioni di profitto (profit organizations) siano quelle in cui la razionalità è massimamente valutabile, per il fatto che il mercato offre diretto e univoco riscontro alla bontà delle decisioni prese; c) che la razionalità sia una sola, e che di conseguenza esista uno e un solo criterio ottimale per organizzare le imprese, qualunque sia la loro attività e l'ambiente in cui agiscono.
La conseguenza di questi assunti è che l'attenzione si concentra sullo studio delle strutture formali, dei canali di comunicazione, delle sfere di competenza, delle procedure per affrontare routines e situazioni critiche. Il contributo dei singoli individui vale solo in quanto conforme alla razionalità organizzativa; per il resto si tratta di residui emozionali e informali, da trascurare ed emarginare. Solo l'organizzazione (di profitto) ha per eccellenza un progetto razionale ed è al tempo stesso strumento razionale per realizzarlo agendo nel e sul contesto esterno. Di tale contesto - indifferenziato e anonimo - non è dato conoscere la razionalità, ma si sa che in certa misura esso è permeabile dalla razionalità dell'organizzazione stessa.Ma l'organizzazione non è solo un'entità razionale; essa è anche un'entità indipendente, nel senso che trova in se stessa i criteri e le risorse per agire. Poiché si assume che esista un modo unico e ottimale di affrontare qualsiasi problema, non si considera l'ipotesi che le organizzazioni possano modificare il loro assetto in base a contingenze di varia natura, né che siano influenzabili dall'ambiente esterno, né che possano dare luogo a coalizioni e a reti di interscambio. L'organizzazione è una monade razionale e solitaria, e le persone che lavorano al suo interno non sono che suoi servitori.
Il modo appena descritto di intendere le organizzazioni non tardò a suscitare accuse di inadeguatezza nel comprendere la realtà. La prima critica venne mossa negli anni trenta da Elton Mayo e dai ricercatori che con lui fondarono la scuola delle 'relazioni umane'. In polemica con lo scientific management, accusato di considerare i dipendenti come puri erogatori di forza lavoro, Mayo sottolineò la necessità di pervenire a una visione più completa del rapporto uomo-organizzazione, recuperando il cosiddetto 'fattore' umano. Con questa espressione Mayo intende il complesso dei fattori psicologici, di prevalente natura emozionale e alogica, che condizionano il comportamento manifesto dei soggetti. La tesi fondamentale della scuola è che l'ordine sociale nei luoghi di lavoro (e non solo in quelli) sia garantito non soltanto dalle norme formali vigenti, ma soprattutto dal clima che si instaura nella quotidiana interazione dei soggetti. Una leadership collaborativa e amichevole, che favorisca rapporti armonici nel gruppo, è la condizione essenziale per l'efficienza dell'organizzazione. Di qui l'importanza dell'informalità dei rapporti sociali nei piccoli gruppi. Il 'piccolo mondo' dei soggetti - la famiglia, il gruppo di lavoro, i ritmi e i riti della quotidianità - è l'idealizzato referente su cui la scuola delle relazioni umane costruisce la sua antropologia.
Mayo è consapevole che al di fuori di questi piccoli mondi si estende una società disordinata e conflittuale, generata da processi selvaggi di urbanizzazione e industrializzazione. Questo disordine è per Mayo il male da combattere. Ma non è possibile - egli sostiene - sognare il ritorno a una società agreste, ed è altrettanto errato pensare di affidare allo Stato - dirigista e burocratico - il compito di soddisfare il bisogno umano di integrazione sociale. Sulla scorta di una rilettura di Durkheim, che affidava alle istituzioni intermedie il compito primario dell'integrazione sociale, Mayo sostiene che in una società industriale tale compito spetta alle organizzazioni in cui gli uomini trascorrono la maggior parte della loro vita, quindi in primo luogo alle imprese. Queste non possono limitarsi a perseguire puri scopi di efficienza e di profitto, ma devono provvedere ai bisogni sociali dei loro membri. Oltre a fornire l'assistenza di psicologi aziendali e a instaurare una leadership amichevole sui luoghi di lavoro, l'azienda deve estendere la sua iniziativa al di fuori dello stretto rapporto di lavoro: case per i dipendenti, circoli ricreativi, centri di formazione, servizi assistenziali sono per Mayo una condizione essenziale per raggiungere gli obiettivi di ordine, armonia e senso di identità dei dipendenti.
L'evidente paternalismo di queste proposte non è avvertito da Mayo come un limite, ma come una garanzia di efficacia. Qui però ciò che importa non è discutere il sistema di valori di Mayo, ma sottolineare la sua intuizione secondo cui è sbagliato concepire le organizzazioni come mere strutture formali. Esse sono organismi sensibili e adattivi, con fondamentali compiti di integrazione sociale e di preservazione dell'armonia.
L'idea delle organizzazioni come entità preposte a svolgere una fondamentale funzione di ordine sociale è ripresa e compiutamente teorizzata da Talcott Parsons. Rispetto a Mayo, Parsons aggiunge due elementi importanti: una teoria generale della società concepita come un sistema sociale, e la conseguente concettualizzazione delle organizzazioni come sistemi aperti e comunicanti tra loro. Per quanto riguarda il primo aspetto, ogni sistema sociale, secondo Parsons, per sopravvivere deve soddisfare quattro imperativi, che egli chiama 'prerequisiti funzionali': il reperimento e l'adattamento delle risorse; la determinazione e il perseguimento degli scopi; il mantenimento dei modelli latenti; l'integrazione tra le varie parti del sistema. Detto in altri termini, nessun sistema sociale può sopravvivere se le risorse non sono sufficienti o non sono sufficientemente distribuite; se gli scopi non sono ben determinati; se non esistono modelli latenti per mantenere le motivazioni dei soggetti; e se non c'è sufficiente integrazione tra le varie componenti del sistema.
Questi prerequisiti forniscono anche il criterio per distinguere quattro categorie di subsistemi, a ciascuno dei quali corrisponde un particolare tipo di organizzazioni. Parsons perviene così a una tipologia generale delle organizzazioni fondata sulla loro diversa funzione istituzionale nel più ampio sistema sociale. Nel primo tipo rientrano le organizzazioni economiche che reperiscono e collocano le risorse: tipicamente le imprese. Nel secondo tipo rientrano le organizzazioni che definiscono e perseguono gli scopi del sistema: tipicamente gli organi del potere esecutivo e legislativo. Nel terzo tipo rientrano le organizzazioni impegnate nei processi di educazione e motivazione degli individui: tipicamente la chiesa, la scuola, le associazioni ricreative e culturali, ecc. Nel quarto tipo rientrano le organizzazioni che assolvono funzioni di integrazione sociale mediante la composizione di conflitti: tipicamente la magistratura, ma Parsons vi include anche le organizzazioni di rappresentanza degli interessi, dato che, coerentemente con l'assunto consensualistico della sua teoria, la funzione di queste organizzazioni non è concepita in chiave di scontro ma di mediazione tra interessi potenzialmente conflittuali.
La società teorizzata da Parsons può essere raffigurata come un sistema a scatole cinesi, nel senso che ogni organizzazione riproduce al suo interno la stessa ripartizione funzionale esistente nel più ampio sistema sociale. Ciò significa che ogni organizzazione deve avere al suo interno subsistemi che garantiscono le risorse, definiscono gli scopi, mantengono le motivazioni e garantiscono l'integrazione. Le organizzazioni sono quindi sistemi altamente articolati e complessi. Scrive Parsons: "L'organizzazione produttiva, ad esempio una fabbrica, è un sistema sociale concreto in se stesso. Il suo scopo è definito dal suo posto nell'economia, ma non è soltanto un'entità economica. Essa ha un sistema politico con lealtà e autorità costituite; è soggetta a esigenze interne integrative come qualsiasi altro sistema, e deve avere i suoi propri valori istituzionalizzati e una tradizione culturale" (v. Parsons e Smelser, 1956, p. 45).
Da questo brano traspare la profondità concettuale con cui Parsons recepisce l'insegnamento di Mayo sulle organizzazioni di lavoro come sistemi viventi di soggetti che non interagiscono solo in base a rapporti economici, ma in base a fattori ben più complessi. Ma questi fattori non sono soltanto psicologici ed emotivi, come sostiene Mayo, sono anche culturali, sociali, eminentemente etici.
Si arriva così al secondo aspetto in cui Parsons supera e integra Mayo: le organizzazioni non sono soltanto sistemi formati da individui sensibili a motivazioni di varia natura. Esse sono altresì dei sistemi aperti, che garantiscono e regolano il continuo interscambio di risorse tra le varie componenti della società. Questo interscambio ha due valenze. La prima valenza è funzionale, nel senso che il fine di ogni organizzazione può essere concepito come un output che da una specifica organizzazione va all'ambiente esterno e si trasforma in input per i soggetti (individuali e collettivi) che ne usufruiscono. Nel caso di un'organizzazione economica, l'output sono beni e servizi e il loro passaggio ad altre organizzazioni è regolato da contratti. Ma lo stesso vale per le organizzazioni non economiche: producono outputs gli organismi parlamentari e governativi (produzione di leggi e decreti), la magistratura (produzione di sentenze), gli ospedali (produzione di salute), le forze armate (produzione di sicurezza), le scuole (produzione di capacità addestrata), i sindacati (produzione di accordi). Tutti questi outputs sono recepiti da altre organizzazioni come altrettanti inputs di risorse e di vincoli da tenere in conto nella loro specifica funzione sociale. La seconda valenza dell'interscambio tra le organizzazioni si collega al fatto che le organizzazioni stesse vanno viste come subsistemi inseriti nel più vasto sistema sociale. Ciò conduce Parsons a sostenere che esse sono legittimate a funzionare solo in quanto accettano il modello di valori fornito dal livello sistemico a loro superiore. Si delinea in tal modo un sistema coerente nelle sue varie componenti, che si confermano in un continuo rimando dai livelli più generali a quelli più particolari e viceversa. Le organizzazioni che non perseguono scopi conformi al più generale sistema di valori vanno considerate come devianti.Un sistema così concepito fornisce anche le basi per spiegare in termini consensuali il rapporto tra individui e organizzazioni. Quanto più gli individui interiorizzano i valori generali del sistema attraverso un continuo processo di socializzazione operata da istituzioni specifiche (scuola, famiglia, impresa, ecc.), tanto maggiori sono le probabilità di un rapporto armonico tra le loro aspettative nei confronti del sistema e le aspettative del sistema circa il modo in cui essi svolgono il loro ruolo. Anche nel rapporto individui-organizzazioni, tensioni e conflitti sono segno di scarsa integrazione e quindi di potenziale devianza.
Il modello di Parsons dedica grande attenzione agli aspetti istituzionali del contesto in cui sono inserite le organizzazioni, alle relazioni tra i vari sistemi e subsistemi organizzativi, ai processi di legittimazione e agli scambi che alimentano e regolano a ogni livello il funzionamento di tali sistemi. Anche questo modello tuttavia fu oggetto di numerose critiche, tra le quali è possibile individuarne tre principali.La prima critica è che Parsons non presterebbe nessuna attenzione ai concreti rapporti di potere che si verificano nelle organizzazioni, al formarsi delle coalizioni, alle dinamiche sociali che danno luogo a crisi, conflitti e cambiamenti. Una seconda critica riguarda il fatto che la tipologia proposta da Parsons sarebbe troppo vaga e astratta. Ad esempio, mettere in un'unica classe partiti, sindacati, ospedali e carceri perché il loro scopo istituzionale è l'integrazione sociale, non fornisce nessuna ipotesi utile nel momento in cui si scende sul terreno concreto per una ricerca empirica. Infine, una terza critica riguarda il fatto che Parsons concepirebbe le organizzazioni come entità reificate, ossia come entità capaci di agire come se fossero singoli soggetti che danno vita alle organizzazioni stesse.
L'autore che più efficacemente si è distanziato dal funzionalismo sistemico di Parsons è Herbert Simon. La sua rivoluzione teorica poggia su tre premesse. La prima è che l'oggetto dell'analisi organizzativa non sono le organizzazioni in quanto tali, bensì il comportamento degli esseri umani all'interno delle organizzazioni. L'oggetto fondamentale di analisi sono le decisioni umane, o più precisamente i processi decisionali a cui prendono parte più persone, generalmente raggruppate in coalizioni. Studiare il comportamento di un gruppo umano all'interno di una organizzazione significa concepire l'organizzazione come uno schema che "fornisce a ogni appartenente al gruppo buona parte dell'informazione, delle premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti che influenzano le sue decisioni" (v. Simon, 1945; tr. it., p. 14).
La seconda premessa è che gli esseri umani sono dotati di una razionalità limitata. Di norma gli uomini non decidono in base al principio di ottimizzare i risultati, come ritiene erroneamente l'economia classica, bensì in base al principio più modesto, ma assai più realistico, di ottenere risultati sufficienti. Ciò comporta un grado di complessità estremamente minore di quello che sarebbe richiesto nell'ipotesi della razionalità perfetta. "Si pensi - scrive Simon (v. Simon e March, 1958; tr. it., p. 176) - alla differenza che esiste tra frugare in un mucchio di fieno per trovare l'ago più aguzzo e frugare nello stesso mucchio di fieno per trovare un ago aguzzo abbastanza perché ci si possa cucire".Infine la terza premessa è che gli esseri umani partecipano alle organizzazioni in base all'equilibrio tra i contributi che sono tenuti a dare e gli incentivi che si attendono di ottenere. Questo equilibrio è nel pensiero di Simon un principio generalissimo che richiede alcune chiarificazioni. In primo luogo esso non si fonda su criteri 'oggettivi' (come quelli forniti dalle varie teorie economiche del valore), ma sui criteri assolutamente soggettivi delle persone coinvolte nello scambio. Quello tra contributi e incentivi è un equilibrio - o disequilibrio - percepito in base alla struttura delle preferenze individuali dei soggetti. A seconda che si dia la priorità al guadagno economico, alla sicurezza, alla reputazione sociale, alla crescita professionale o ad altri valori, i soggetti non solo valutano in modo differente il rapporto tra contributi e incentivi, ma sviluppano comportamenti differenti rispetto all'organizzazione. Il rapporto contributi-incentivi non ha quindi il mero valore utilitaristico dello scambio basato sull'interesse. Specialmente nelle organizzazioni oblative (umanitarie, assistenziali, ecc.) è normale che i membri trovino il maggiore incentivo a partecipare nel significato etico che ai loro occhi assume l'atto stesso di impegnarsi, talvolta con duri sacrifici personali.
Infine la possibilità che nel rapporto tra contributi e incentivi gli individui percepiscano uno squilibrio a loro danno non comporta necessariamente l'abbandono dell'organizzazione. Simon distingue tra la desiderabilità percepita e la facilità percepita di lasciare un'organizzazione, e ciò gli consente di distinguere tra il grado di soddisfazione e la decisione di rimanere o abbandonare. Tale distinzione è particolarmente utile per spiegare i comportamenti umani nelle organizzazioni di lavoro: se le persone soddisfatte in genere tendono a restare, non è affatto detto che quelle insoddisfatte decidano di andarsene, se non trovano alternative valide sul mercato del lavoro. Nascono piuttosto lenti processi di rassegnazione e di assuefazione, con la ricerca di microsoddisfazioni sostitutive perché, come nota Simon, l'obiettivo organizzativo spesso non coincide affatto con gli obiettivi personali dei partecipanti.
Sulla base di queste premesse, Simon costruisce un modello estremamente problematico delle organizzazioni e dei comportamenti umani al loro interno. L'assunto generale è, come si accennava prima, che le organizzazioni non vanno viste come entità indipendenti dagli uomini che le formano, ma come luoghi in cui essi partecipano e decidono. Questo capovolgimento di ottica porta ad alcune conseguenze importanti. La prima è che le organizzazioni non hanno fini predeterminati e stabili, ma solo i fini mutevoli che gli esseri umani decidono di dare loro, spesso attraverso processi decisionali complessi e compromissori. Inoltre, l'identificazione delle persone con le organizzazioni di cui fanno parte non è scontata. Le persone possono entrare e uscire, adottare comportamenti ritualistici o innovativi, in base all'equilibrio da loro percepito tra contributi e incentivi.Un'altra conseguenza è che le organizzazioni non sono che degli strumenti per raggiungere obiettivi non raggiungibili senza il coordinamento di più persone. Le organizzazioni vanno quindi viste essenzialmente come dei correttivi per allargare i limiti propri della condizione umana, anche se questo allargamento non potrà mai superare l'ambito e la logica della razionalità limitata. Da ciò discende che per raggiungere obiettivi complessi non è sufficiente la divisione del lavoro. Occorre anche che nelle organizzazioni esistano delle decisioni già programmate e disponibili, in modo che le persone non siano costrette a prendere decisioni nuove per ogni atto che compiono, ma possano ricorrere a procedure approvate, ovvero a sequenze di decisioni prestabilite in base all'esperienza e ai calcoli. Le procedure non si limitano a fornire schemi per eseguire correttamente i lavori previsti, ma servono anche ad assorbire l'incertezza che può sorgere nel compito da eseguire. Quando per motivi di tempo o di costi non è possibile un'esplorazione di tutti i fattori che possono intervenire in un evento, si ricorre a procedure: ossia si sceglie di decidere in base ad alcuni indicatori che stanno al posto delle prove certe, ma ai quali i calcoli e le esperienze pregresse conferiscono un grado accettabile di probabilità. Le procedure hanno quindi anche l'importante funzione di tutelare i soggetti preposti a prendere decisioni. Osserva Simon (v. Simon e March, 1958; tr. it., p. 212) che "il comportamento razionale esige modelli semplificati che includano gli elementi essenziali del problema senza rifletterne tutta la complessità".
Ma qual è il limite di validità delle procedure? Che succede quando eventi inattesi richiedono decisioni critiche non di routine? Esistono assetti ottimali - pur sempre nell'ambito della razionalità limitata - delle organizzazioni a seconda del grado di incertezza ambientale in cui esse agiscono? Queste domande furono impostate per la prima volta grazie al contributo di Simon. Più in generale l'idea che le organizzazioni sono costrutti umani imperfetti e mutevoli esercitò una grande influenza sulla teoria organizzativa della seconda metà del XX secolo.
Nelle varie scuole di derivazione simoniana la cosiddetta teoria della contingenza occupò un posto di rilievo negli anni sessanta e settanta. Questa teoria poggiava su due premesse. La prima era il rifiuto del postulato che esista un solo modello universale di organizzazione delle imprese, e la seconda era l'assunto che le organizzazioni vadano considerate come sistemi aperti in continua comunicazione con l'ambiente esterno.
La prima premessa portava a domandarsi quali siano i modelli organizzativi concretamente adottati dalle varie imprese e se esistano connessioni significative fra tali modelli e una serie di fattori variabili (contingenti) come le dimensioni, la tecnologia, il settore di attività, ecc. La seconda premessa acquisiva la tesi di Parsons secondo cui le organizzazioni sono sistemi complessi, ma traduceva questo concetto in variabili empiricamente osservabili. Di conseguenza, da categorie astratte come integrazione o latenza si passava a fenomeni ben più concreti come livelli gerarchici, vincoli indotti dalla tecnologia, caratteristiche del flusso produttivo, ecc.
La prima ricerca empirica su questo terreno fu quella compiuta da Joan Woodward (v., 1965) su un campione di cento imprese britanniche. I dati raccolti confermarono l'ipotesi di partenza che esista una estrema varietà di situazioni organizzative. Di primo acchito questa varietà appariva del tutto casuale, e solo a un esame più approfondito si scoprì che esisteva una connessione tra l'organizzazione delle imprese e la tecnologia adottata, nel senso che quanto più la tecnologia è complessa, tanto più i processi di produzione sono predeterminati. La Woodward pervenne così a una tipologia fondata su tre principali classi di imprese: a) le imprese addette alla produzione di singole unità o di piccola serie (dagli ateliers di moda alla cantieristica navale), caratterizzate da lavori professionali, compiti variabili, rapporti informali, minimi controlli gerarchici; b) le imprese addette a produzione di grande serie (automobili, elettrodomestici, mobilio standard, ecc.), caratterizzate da lavori ripetitivi, formalità di rapporti, controlli burocratici; c) le imprese addette a produzioni a ciclo continuo o 'di processo' (chimica, acciaieria, ecc.), dove gli impianti incorporano il processo produttivo lasciando all'intervento umano solo i controlli tecnici, quindi con piccole squadre qualificate dove è superata l'esigenza di controlli burocratici.
La ricerca della Woodward segnò una svolta nello studio delle organizzazioni, perché per la prima volta fu empiricamente accertato non soltanto che esiste una pluralità di forme industriali, ma anche che forme particolari di organizzazione sono più appropriate di altre per far fronte alle diverse situazioni tecnologiche. Erano così poste le basi per un vasto programma di ricerca orientato ad approfondire le connessioni ottimali tra i vari possibili assetti organizzativi e le attività da svolgere.
La ricerca della Woodward fu sottoposta a una quantità di critiche e di verifiche. La discussione verteva sulla questione se la tecnologia fosse veramente il fattore principale per spiegare le varianze organizzative, e se in questo caso non si ricadesse in una nuova forma di determinismo organizzativo. Negli anni settanta un posto di rilievo fu occupato dal cosiddetto gruppo di Aston (D. Pugh, C. Hining, D. Hickson e altri), che svolse una lunga ricerca su un esteso e articolato campione di imprese. Il maggiore risultato da esso raggiunto fu di accertare che quanto più grande è l'impresa, tanto maggiori tendono a essere la specializzazione dei compiti, la standardizzazione delle procedure e la formalizzazione delle comunicazioni interne. Il gruppo di Aston concluse che, a differenza di quanto sosteneva la Woodward, è la dimensione dell'impresa e non la tecnologia il fattore più importante per spiegare le differenze organizzative.Se il gruppo di Aston sosteneva l'esistenza di una connessione positiva tra il grado di burocratizzazione e l'ampiezza dell'impresa, altre ricerche sempre di ispirazione 'contingentista' percorrevano strade differenti. Vanno ricordati in tal senso i lavori di Burns e Stalker (v., 1961), Emery e Trist (v., 1965), Miller e Rice (v., 1967). Tutte queste ricerche individuavano il fattore più efficace per spiegare i diversi assetti organizzativi nella dimensione definita dai due estremi tranquillità/turbolenza ambientale. La tranquillità ambientale equivale a prevedibilità e ricorrenza degli eventi, e in questi casi il modello organizzativo più opportuno è quello tradizionale, con una marcata divisione dei compiti, una gerarchia e procedure stabili. Man mano che diminuisce la prevedibilità degli eventi e aumenta la turbolenza ambientale, le imprese sono sollecitate ad adottare strutture più flessibili. Dal principio di burocrazia disciplinata esse passeranno al principio di responsabilità professionale, con la conseguenza che alla tradizionale ridondanza di mansioni semplici e ripetitive subentrerà una ridondanza di mansioni complesse e autoregolate, svolte da persone capaci di atteggiamenti esplorativi e di decidere in situazioni critiche. Negli anni settanta la connessione tra le dimensioni prevedibilità-imprevedibilità ambientale e rigidità-flessibilità organizzativa fu largamente acquisita. Tale connessione aveva un valore sia cognitivo che prescrittivo: serviva come ipotesi di ricerca, ma era anche indicata come un criterio a cui attenersi in sede di progettazione organizzativa.
Un importante progresso nella conoscenza delle organizzazioni fu compiuto da Lawrence e Lorsch (v., 1969). Anche questi autori partono dal presupposto che quanto più l'ambiente esterno è imprevedibile, tanto meno formalizzata è l'organizzazione interna delle imprese. Ma la loro novità consiste nel considerare l'ambiente non come un tutto indistinto, bensì come composto da aree che possono avere gradi differenti di prevedibilità. In particolare essi distinguono tre aree ambientali: tecnica, commerciale e scientifica, alle quali corrispondono all'interno dell'impresa tre dipartimenti specializzati: Produzione; Promozione e Vendita; Ricerca e Sviluppo. L'argomento contingentista di una connessione tra la prevedibilità dell'ambiente esterno e il grado di formalità burocratica dell'organizzazione viene così utilizzato per sostenere l'esistenza di una pluralità di strutture interne alle organizzazioni. Più in particolare, dentro un'impresa non esiste una sola e omogenea struttura organizzativa, ma coesistono più strutture ciascuna delle quali è dotata di un differente grado di formalizzazione burocratica.
L'ipotesi fu verificata in una ricerca su sei imprese dove risultò che: a) il grado di certezza ambientale è massimo nel settore tecnico, minimo in quello scientifico e intermedio in quello commerciale; b) pur appartenendo alla stessa impresa, produzione, uffici commerciali e centri di ricerca e sviluppo agiscono come mondi separati, governati con criteri diversissimi. Il mondo della produzione è quello più burocratico e formale, legato a scadenze ravvicinate e con procedure ricorrenti; il mondo della ricerca e sviluppo è quello più flessibile, con minore attenzione ai gradi gerarchici e più coinvolgimento in piani di lungo periodo; mentre il mondo commerciale sta in una posizione intermedia. La ricerca inoltre confermava che queste differenze non sono un handicap, ma un vantaggio: infatti, quanto più esse sono marcate, tanto maggiore è il successo economico delle imprese. D'altra parte, però, spetta alle imprese il compito di sviluppare efficaci meccanismi di integrazione affinché le varie componenti interne possano comunicare e collaborare.
Se Lawrence e Lorsch forniscono la prova empirica che in seno alla stessa organizzazione esiste una pluralità di principî organizzativi, la più completa teorizzazione di questo nuovo modo di concepire le organizzazioni si ha nell'opera di James Thompson (v., 1967). Thompson parte dalla considerazione già sviluppata da Alvin Gouldner (v., 1959) secondo cui nella teoria organizzativa si contrappongono due modelli tra loro incompatibili. Da un lato c'è chi, come Taylor e Weber, concepisce le organizzazioni come modelli razionali, ossia come sistemi chiusi che suggeriscono strategie orientate a garantire prestazioni regolari e costanti. Dall'altro lato c'è chi, come la scuola delle relazioni umane, vede le organizzazioni come modelli naturali, ossia come sistemi aperti che suggeriscono strategie di adattamento e di sopravvivenza. Entrambi i modelli colgono una parte della verità, ma sono antitetici e non possono essere giustapposti. Come può essere risolto il problema della loro sintesi? Thompson risponde con una operazione concettuale analoga a quella compiuta da Lawrence e Lorsch. L'organizzazione, egli dice, può essere vista come composta da tre distinti livelli analitici: uno interno, uno intermedio e uno esterno. All'interno vi è il nucleo tecnico che ha il compito di fornire prestazioni regolari e costanti e che funziona come un sistema chiuso, secondo la logica della massima razionalità in condizioni di certezza. All'esterno, al confine con l'ambiente circostante, vi è il livello istituzionale, dove l'organizzazione si confronta con le sfide esterne e sviluppa strategie di sopravvivenza e di adattamento flessibile alle incertezze ambientali. In una posizione intermedia si colloca il livello manageriale, a cui spetta il compito di garantire una continua mediazione tra il nucleo tecnico e il livello istituzionale. Thompson perviene così a un modello originale, dove l'essenza dell'azione organizzativa consiste nel costante e reciproco adattamento tra razionalità tecnica e razionalità adattiva. La prima è chiusa e procede secondo criteri di massima regolarità e certezza, mentre la seconda è aperta e procede secondo criteri che possono essere anche molto lontani dai principî canonici della razionalità.
Con questo modello Thompson affina notevolmente il principio simoniano della razionalità limitata. Questo è un principio universale, argomenta Thompson, ma la sua cogenza è diversa a seconda dell'ambito organizzativo. In alcuni settori, in particolare quelli ingegneristici e tecnici, si procede secondo l'ideale della massima razionalità possibile, pur sapendo che è limitata. In altri settori, quelli di marketing e di elaborazione strategica in rapporto all'ambiente esterno, si dà invece per scontato che le decisioni sono sempre opinabili e ci si affida maggiormente all'imitazione, al compromesso e all'intuito.
I contributi di Lawrence e Lorsch e di Thompson rappresentano la massima sofisticazione intellettuale a cui è giunta la scuola delle contingenze, ma segnano anche gli invalicabili limiti teorici di tale scuola. Nel momento in cui si ammette che un'organizzazione può avere al suo interno più modelli organizzativi e quindi modi differenti di agire, di decidere, di ragionare, si annuncia di fatto l'opportunità di abbandonare il livello dell'analisi strutturale per passare a quello dell'analisi culturale: assai più della pura struttura di una organizzazione è rilevante il modo in cui i soggetti agiscono e interagiscono. Ma la teoria delle contingenze non aveva questi strumenti di indagine e doveva lasciare il campo ad altri paradigmi.Sul finire degli anni settanta la teoria delle contingenze fu di fatto sottoposta a crescenti contestazioni. In particolare si criticò la pretesa di conoscere le organizzazioni in base a un approccio esclusivamente strutturale, come se un insieme di variabili quantitativamente misurabili (tecnologia, ambiente, dimensioni, ecc.) fosse in grado di spiegare che cosa è un'organizzazione, definita anch'essa come un insieme di semplici variabili quantitative (livelli gerarchici, ampiezza dei campi di controllo, formalizzazione, ecc.).
Queste critiche rispecchiavano il mutamento generale di indirizzo negli studi organizzativi. La politica delle massime imprese volte a creare un forte spirito di identità tra i dipendenti e la comparsa delle imprese giapponesi avvertivano gli osservatori che le differenze più significative stavano non già nelle strutture, ma nell''atmosfera' dei rapporti sociali e nel significato che i soggetti conferiscono alle proprie azioni. Pretendere di conoscere la differenza tra le organizzazioni in base alla loro struttura e non in base al senso che gli individui conferiscono al proprio agire appariva un poco come la pretesa di conoscere la differenza tra le persone in base alle loro differenze anatomiche piuttosto che in base a ciò che sanno e ciò che pensano.
Si svilupparono così vari filoni di pensiero volti a studiare le organizzazioni come fenomeni culturali. Ma nel comune intento culturalista si possono scorgere almeno due modi differenti di intendere le organizzazioni come cultura. Il primo modo concepisce le organizzazioni come 'giacimenti culturali' e ha ispirato approcci di tipo antropologico volti a studiare le caratteristiche di tali giacimenti. Il secondo modo concepisce invece le organizzazioni come soggetti attivi di cultura e di apprendimento, e ha ispirato approcci cognitivistici volti a esaminare le condizioni e le dinamiche di tale apprendimento.Tra le scuole che hanno sviluppato il primo approccio, una delle più importanti è quella del simbolismo organizzativo. Questa scuola prende il nome dal fatto che il suo oggetto specifico di analisi sono i riti, le cerimonie, i miti, le leggende, le drammaturgie che formano il patrimonio simbolico ed emozionale delle organizzazioni. Questi elementi, considerati dagli approcci classici come semplice e trascurabile folklore, sono invece indicati dai simbolisti come elementi fondamentali per comprendere i meccanismi che generano identità collettive, senso di appartenenza e significati condivisi. Questa scelta tematica conduce sovente a sviluppare un approccio diacronico che mette in luce le tappe più rilevanti nella storia di un'organizzazione. L'ipotesi di fondo è che in quegli avvenimenti critici si trovi la chiave di lettura più efficace per comprendere le scelte e le condotte attuali. Un altro modo di utilizzare il patrimonio simbolico di un'organizzazione è quello proposto da Pfeffer (v., 1981), che traccia una distinzione tra le risorse materiali e quelle simboliche. Poiché i dirigenti di una organizzazione hanno spesso scarse risorse materiali da investire e da redistribuire, essi fanno ricorso al patrimonio delle risorse simboliche per dare un senso ai sacrifici richiesti ai membri e ottenere il loro consenso.Il secondo filone culturalista sottolinea invece i processi cognitivi di apprendimento che si innescano all'interno delle organizzazioni: queste sono viste come 'strutture di apprendimento' (learning organizations). Non è sufficiente dire che le organizzazioni hanno cultura, sostiene Linda Smircich (v., 1983). Esse sono cultura, perché sono "sistemi umani che manifestano modelli complessi di attività culturale". Ciò equivale a dire che né il modello razionalista, che si esprime nella metafora dell'organizzazione come macchina, né il modello naturalista, che si esprime nella metafora dell'organizzazione come organismo, sono adatti a raffigurare le organizzazioni. Piuttosto, la metafora suggerita da questa corrente è quella del cervello. La proprietà del cervello è, secondo Gareth Morgan (v., 1986), quella di avere una struttura olografica, ossia ogni sua parte contiene potenzialmente le funzioni dell'intero organo. In tal modo se un trauma impedisce ad alcune parti del cervello di funzionare, altre parti potranno subentrare per svolgere le funzioni prima svolte da quelle lesionate. La metafora del cervello suggerisce l'idea che le risorse umane presenti in un'organizzazione abbiano la capacità potenziale di sostituzioni indefinite. Naturalmente non tutte le organizzazioni hanno queste potenzialità in pari grado. Sono avvantaggiate quelle che, non avendo rigide divisioni del lavoro, favoriscono processi di apprendimento tra i loro membri. La metafora del cervello suggerisce una rappresentazione delle organizzazioni vicina a quella di Argyris e Schön (v., 1978), che concepiscono l'organizzazione come un "costrutto cognitivo", ossia come una struttura in cui i soggetti non sono soltanto produttori di azione, ma anche di cambiamento organizzativo. L'apprendimento si afferma come un atteggiamento generalizzato e continuativo: si apprende ad apprendere, in modo che la scoperta e la correzione di un errore divengano oggetto di apprendimento collettivo con la conseguente modifica della memoria e della mappa cognitiva utilizzata dall'organizzazione. In questo senso Argyris e Schön propongono il termine di learning organizations.
Le teorie fin qui esaminate hanno acquisito che non esiste un modello organizzativo universale; che le organizzazioni seguono modelli mutevoli e contingenti; che al loro interno possono coesistere più identità e più criteri di azione; che sono giacimenti di cultura e produttrici di cultura. Ma tutte queste acquisizioni continuano a innestarsi su un assunto che non è ancora stato messo in discussione, ossia che l'oggetto dell'analisi organizzativa sono sempre e soltanto singole organizzazioni, concepite come entità dotate di confini precisi che le distinguono dal mondo circostante. Inoltre, sebbene si sia diffusa la consapevolezza che la struttura burocratica può essere più o meno rigida e sviluppata, permane l'implicito assunto di origine weberiana (e tayloriana) di una sostanziale equivalenza tra organizzazione e burocrazia.
Queste assunzioni vengono messe in crisi sul finire degli anni settanta. La prima sfida proviene dalla cosiddetta teoria dei costi di transazione, che ha il suo maggiore esponente in Oliver Williamson (v., 1975; Economic organization..., 1986; The economic institutions..., 1986). Le imprese, sostiene questa scuola, non devono più essere viste come una funzione della produzione, ma piuttosto come strutture di governo (governance). Mentre nella teoria tradizionale dell'impresa il problema centrale è l'utilizzazione ottimale delle tecnologie disponibili, nella teoria dei costi di transazione il problema fondamentale diventa quello di stipulare contratti (transazioni) convenienti sotto il profilo del costo e della affidabilità. Di conseguenza, l'unità di analisi non è più il bene prodotto, come avveniva nella scuola economica classica, ma diventa la transazione, ossia qualsiasi forma di contratto che abbia una rilevanza economica per l'impresa: contratti di lavoro con i dipendenti, contratti con i fornitori esterni, e anche contratti ibridi che legano stabilmente i contraenti all'impresa senza trasformarli in dipendenti. L'assetto interno dell'impresa risulta così definito dall'insieme dei contratti che essa stipula e dalle conseguenti strutture di governo per controllarne l'esecuzione.
Queste premesse portano a individuare nell'opzione 'produrre o comprare' (to make-to buy) il dilemma fondamentale di qualsiasi impresa economica: conviene di più produrre al proprio interno un bene o un servizio, oppure conviene di più acquistarlo già pronto all'esterno? Nel primo caso l'impresa assume personale da impiegare in base a contratti che prevedono remunerazione stabile e controllo gerarchico del lavoro svolto. Nel secondo caso l'impresa acquista beni e servizi sul mercato in base a criteri di prezzo e di qualità e avrà di conseguenza un personale interno ridotto. Vi possono però essere anche soluzioni intermedie, con formule come il franchising o la joint venture, dove due o più contraenti stipulano contratti durevoli nel tempo pur rimanendo formalmente indipendenti.
Tutta l'economia dei costi di transazione ruota intorno ai criteri che stabiliscono la convenienza di una formula piuttosto che di un'altra. Tale convenienza dipende non solo dai costi di produzione, ma anche dai costi di transazione, ovvero dai costi richiesti per far rispettare il contratto. In linea di principio la teoria stabilisce che in caso di transazioni occasionali, che richiedono tecnologie generiche e nessuna particolare salvaguardia, la soluzione ottimale è quella del mercato. Nel caso di transazioni continuative, che richiedono tecnologie specifiche e particolari salvaguardie per il rispetto dei contratti, la scelta ottimale è invece quella di produrre all'interno assumendo personale. In questo caso al principio della contrattazione sul mercato si sostituisce il principio della disciplina accettata in base al contratto di impiego. Infine, nel caso di transazioni ricorrenti che richiedono alta flessibilità e prestazioni specifiche, la scelta ottimale è quella dei contratti ibridi, che danno luogo a reti di contraenti formalmente indipendenti, ma funzionalmente interconnessi.
La teoria dei costi di transazione si riferisce a un solo tipo di organizzazioni, quello delle imprese economiche sia private che pubbliche. Ma le sue innovazioni teoriche hanno conseguenze importanti per tutta la teoria organizzativa. In primo luogo il nuovo approccio sancisce il definitivo superamento dell'equivalenza tra organizzazione e burocrazia. Il concetto di organizzazione diventa molto più ampio di quello di burocrazia perché viene a denotare qualsiasi livello stabile di transazione tra soggetti, individuali o collettivi. Da un lato l'organizzazione non riguarda più una sola impresa, ma i rapporti tra due o più imprese (ovvero: anche il mercato per funzionare deve essere organizzato). Dall'altro lato le imprese stabiliscono al loro interno degli assetti che non sono soltanto gerarchici ma di mercato, come ad esempio quando una subunità dell'impresa vende i suoi prodotti o i suoi servizi ad altre subunità secondo criteri di concorrenza, con beni e servizi offerti dall'esterno (ipotesi del mercato interno all'organizzazione). Tutte queste scelte possono essere ricondotte a un solo modello teorico, perché il concetto di organizzazione è ridefinito come una dimensione dotata di due estremi contrapposti, che sono il mercato e la gerarchia, con tante possibilità intermedie.Una seconda conseguenza che deriva dalla teoria dei costi di transazione è l'ingresso nel patrimonio teorico dell'analisi organizzativa di termini e concetti come 'fiducia' e 'rete'. La fiducia appare come il prerequisito indispensabile per qualsiasi tipo di relazione sociale, non solo di natura contrattuale. Con un ritorno a tematiche simmeliane, l'attenzione viene portata ai fattori che possono favorire o scoraggiare la crescita della fiducia in un determinato contesto organizzativo. Ci può essere una fiducia minima garantita da pure clausole legali, come all'opposto ci può essere una fiducia massima costruita sulla buona volontà dei contraenti di fornire il massimo delle loro prestazioni. Nei rapporti di fiducia il tempo assume un'importanza determinante: più il tempo scorre in relazioni di mutua soddisfazione e più la fiducia reciproca tende a crescere (v. Granovetter, 1985).
A sua volta la rete non è solo l'interconnessione tra più contraenti, ad esempio un'impresa madre con i suoi fornitori. Per funzionare una rete richiede il passaggio di informazioni e strategie collaborative, e queste a loro volta presuppongono rapporti di fiducia che si sviluppano nel tempo. Di qui il passo è breve per connettere i problemi della creazione di fiducia agli stili di leadership adottati nelle organizzazioni e/o nelle reti di organizzazioni. In linea di principio, quanto più la leadership è democratica e partecipativa, tanto più favorevoli sono le condizioni per far crescere i rapporti di fiducia tra i vari membri.Uno sviluppo originale delle tematiche connesse ai concetti di fiducia e di rete organizzativa si ha con William Ouchi (v., 1980), che integra il modello di Williamson aggiungendo alla gerarchia e al mercato la forma del clan. Il clan è per Ouchi un modo di governare le transazioni particolarmente complesso perché presuppone l'esistenza di valori, credenze e tradizioni comuni, che integrano le norme di reciprocità richieste dal mercato e dalla gerarchia. Il clan appare particolarmente idoneo a governare le transazioni di lungo periodo: la profonda socializzazione comune che lega tra di loro le varie persone fornisce la necessaria fiducia reciproca affinché le transazioni che sul breve periodo sono squilibrate a vantaggio di una parte possano venire riequilibrate in circostanze successive.
Negli stessi anni in cui si afferma la teoria dei costi di transazione, si sviluppa anche un altro approccio profondamente innovativo nello studio delle organizzazioni, quello rappresentato dalla cosiddetta 'teoria ecologica' (intendendo per 'ecologico' il rapporto tra una data popolazione e la nicchia ambientale da cui detta popolazione trae le risorse per sopravvivere) o delle 'popolazioni organizzative'. Precursore di tale approccio è Stinchcombe (v. cap. 2), con un articolo scritto negli anni sessanta. La novità di Stinchcombe consiste nell'assumere come oggetto di analisi non le singole organizzazioni bensì intere 'popolazioni' omogenee di organizzazioni, come ad esempio un insieme di imprese, di scuole, di giornali, di ristoranti e così via, selezionate in base al fatto di condividere alcuni tratti essenziali come il tipo di bene o di servizio offerto, il tipo di pubblico, ecc. (naturalmente i criteri dell'omogeneità sono stabiliti dal ricercatore in base alle sue ipotesi di ricerca).
Un approccio di questo genere offre diversi vantaggi. Un primo vantaggio è che l'analisi non si limita alle unità esistenti di una data popolazione, ma si estende alle unità scomparse. A guardar bene, le unità esistenti non sono altro che quelle sopravvissute a una selezione più o meno ardua, che colpisce le organizzazioni soprattutto nella fase iniziale della loro vita. In opposizione all'idea comune secondo cui le organizzazioni giovani sono quelle più vitali, Stinchcombe argomenta che proprio su di esse pesa l''onere della novità'. Fondare nuove organizzazioni è un processo rischioso, che oltre a tentare vie inesplorate può rompere equilibri e interessi costituiti e quindi andare incontro a forti opposizioni. L'approccio ecologico pone quindi un problema nuovo alla ricerca: quali sono i tratti caratteristici delle organizzazioni che sono riuscite a sopravvivere rispetto a quelle che hanno dovuto soccombere?
Un secondo problema che nasce in seno all'approccio ecologico alle organizzazioni riguarda il rapporto tra società e diffusione delle organizzazioni: quali sono le società che maggiormente favoriscono la nascita di nuove organizzazioni e di nuove forme organizzative? Stinchcombe risponde che la propensione a fondare nuove organizzazioni si associa in genere ai processi di modernizzazione, che introducono articolazioni e differenziazioni nel tessuto sociale. Stinchcombe sottolinea in particolare l'importanza delle organizzazioni che generano altre organizzazioni, come ad esempio le grandi imprese, ma anche i vari partiti politici che svolgono un ruolo egemonico nel processo di modernizzazione di un dato paese.
Infine è possibile porre in modo nuovo anche il problema della stratificazione sociale. Questa non riguarda solo gli individui, ma anche le organizzazioni: ci sono organizzazioni più o meno prestigiose (si pensi alle scuole e alle università negli Stati Uniti, e più in generale a qualsiasi organizzazione in un ambiente competitivo) e di conseguenza il prestigio e il reddito dei singoli individui non dipendono solo dalle loro qualità personali, ma anche dal ranking delle organizzazioni a cui essi appartengono o sono appartenuti (tipicamente, l'essersi laureato in una università piuttosto che in un'altra).
Il contributo di Stinchcombe fu estremamente fecondo e favorì l'affermarsi nella teoria organizzativa di una sorta di neodarwinismo metodologico. Con questa espressione si intende il fatto di riconoscere che il mutamento delle organizzazioni non avviene soltanto mediante l'adattamento delle singole unità al nuovo che incombe, ma mediante il processo di selezione, che porta le unità più adatte a sopravvivere, altre a scomparire e altre ancora a nascere. L'unità di analisi che consente di cogliere il cambiamento, sostiene la scuola ecologica, non si trova a livello delle singole unità, ma a livello delle popolazioni organizzative. Viene così posto l'accento su tre caratteri delle organizzazioni moderne: esse sono differenziate, isomorfe ed effimere. Sono differenziate perché, come nell'evoluzione naturale studiata da Darwin, ogni popolazione organizzativa deve trovare la nicchia ambientale più adatta per sopravvivere. Poiché in ogni nicchia le risorse sono limitate, la differenziazione dalle altre specie diventa una condizione di sopravvivenza. Allo stesso tempo, all'interno delle varie nicchie si sviluppano processi di crescente rassomiglianza (isomorfismo). Poiché sopravvivono solo gli individui che hanno le caratteristiche più adatte all'ambiente, il risultato è che i sopravvissuti di una data specie finiscono selettivamente con l'avere caratteristiche molto simili. L'isomorfismo che caratterizza tanti aspetti della società contemporanea viene così visto dai teorici delle popolazioni organizzative non come un processo di adattamento passivo delle singole unità, ma come il risultato complessivo della competizione presente in una società competitiva e aperta. I più adatti a competere in un ambiente - siano essi organizzazioni o individui - finiranno inesorabilmente con l'assomigliarsi.Infine le organizzazioni sono effimere perché continuamente nascono e muoiono. Uno dei temi che più attrae gli autori che si ispirano a questa scuola è proprio l'incessante avvicendamento di nuove forme organizzative che appaiono e scompaiono (una famosa ricerca di ispirazione ecologista è stata quella condotta da Hannan e Freeman - v., 1977 - su oltre mille ristoranti a San Francisco. La domanda di fondo era: perché la 'natalità-mortalità' dei ristoranti ha un tasso nettamente più alto di qualsiasi altro tipo di imprese?). Quello ecologico è un approccio particolarmente adatto a cogliere il fluire continuo della società capitalistica moderna - in particolare quella americana - con le sue mode repentine, la competizione aggressiva, la continua e quasi spasmodica ricerca del nuovo come mezzo per imporsi, ma anche con l'immediata imitazione del nuovo che ha successo fino al momento in cui, intervenendo una precoce saturazione, comincia a perdere convenienza. Spesso, avverte la teoria ecologica, è più vantaggioso avviare nuove iniziative in campi del tutto diversi, piuttosto che cercare di difendere la vecchia iniziativa ormai in declino.Infine, un altro aspetto della scuola ecologica è che con essa si torna all'analisi puramente quantitativa dei flussi di popolazioni, prescindendo dalle intenzioni dei singoli attori. Ma a differenza delle scuole precedenti, i ricercatori della scuola ecologica sono consapevoli che il loro è un approccio non esaustivo, bensì integrativo di quelli centrati sull'analisi del senso dell'azione.
Una rassegna dei principali modi di concepire le organizzazioni non può considerarsi completa se non dedica la dovuta attenzione alla scuola neoistituzionale. Anche questa scuola - affermatasi negli anni ottanta e in pieno rigoglio sul finire del secolo - contribuisce, come la teoria dei costi di transazione e la scuola ecologica, a una riconsiderazione radicale del modo di vedere le organizzazioni. La scuola si definisce 'neoistituzionale' in quanto si rifà all'approccio weberiano che esamina l'influenza che le grandi istituzioni sociali come lo Stato, la burocrazia, il capitalismo, esercitano sulle singole istituzioni e sulla condotta individuale. Tipico oggetto di analisi della scuola neoistituzionale sono i processi di istituzionalizzazione, vale a dire il sorgere e l'operare sul lunghissimo periodo di attività socialmente legittimate e persistenti che caratterizzano l'organizzazione della vita civile: non singole scuole, ospedali o banche, ma l'evoluzione nell'arco di alcuni decenni dei sistemi scolastico, sanitario, bancario e così via; sono alcuni dei temi su cui gli autori che si riconoscono in questa scuola hanno svolto le loro ricerche.
Questa esemplificazione aiuta a chiarire che un tratto distintivo della scuola neoistituzionale è quello di assumere come oggetto di analisi temi che la teoria organizzativa tradizionale non solo non affrontava, ma non era nemmeno in grado di riconoscere come possibile campo di ricerca. Mentre infatti gli approcci tradizionali ponevano in primo piano le singole organizzazioni e lasciavano il contesto sullo sfondo, l'approccio neoistituzionale capovolge questa prospettiva, perché pone in primo piano il contesto e considera le singole organizzazioni come semplici effetti di quel contesto.
Una conseguenza di questo allargamento del campo d'indagine è che l'approccio organizzativo tradizionalmente inteso finisce con il perdere la sua specificità: poiché l'oggetto di analisi non sono più le singole organizzazioni, ma interi settori sociali dotati di una capacità organizzativa diffusa, ne consegue che lo studio delle organizzazioni tende a confluire nel più generale esame del modo in cui la vita sociale di uno o più paesi è complessivamente organizzata.
In uno scritto del 1991 Powell e Di Maggio - due dei più noti autori neoistituzionali - illustrano le ragioni di questa scelta. La loro tesi è che la società capitalistica ha subito un profondo cambiamento negli ultimi decenni. Mentre nel passato l'iniziativa apparteneva ai singoli soggetti, i quali operavano in un contesto relativamente privo di enti regolativi, oggi si è sviluppata una società densamente popolata da istituzioni pubbliche e private, come le agenzie di governo centrale e locale, le reti di mass media, i centri di diffusione del sapere come scuole specializzate e società di consulenza, gli organismi di rappresentanza e di tutela degli interessi e così via. Nel loro insieme questi enti formano un campo organizzativo, ovvero un'area riconosciuta di vita istituzionale che svolge un'ininterrotta opera di normazione e controllo sull'attività delle singole organizzazioni. La conseguenza è che le organizzazioni oggi operano in un fitto tessuto di vincoli e di sostegni, sicché per comprendere le loro scelte di azione è necessario conoscere innanzitutto il contesto istituzionale in cui operano. Questo insieme di vincoli e di sostegni attiva rilevanti processi di isomorfismo. Abbiamo visto che anche la scuola ecologica ricorre al concetto di isomorfismo, ma il termine viene usato nelle due scuole in modo sostanzialmente differente. Mentre per la scuola ecologica l'isomorfismo è il risultato di un processo di selezione dei più adatti a sopravvivere in un mondo di risorse scarse, per la scuola neoistituzionale l'isomorfismo è il risultato delle pressioni a uniformarsi esercitate sulle singole organizzazioni dall'insieme degli agenti istituzionali. A differenza della scuola ecologica, che concepisce l'isomorfismo come il risultato non intenzionale della competizione, la scuola neoistituzionale vede l'isomorfismo come il risultato dettato dalla preoccupazione di ottenere legittimazione sociale e appoggi politici (isomorfismo da adattamento). L'importanza dei processi di isomorfismo fu messa in luce per la prima volta da John W. Meyer e Bryan Rowan (v., 1977) in un saggio che si può considerare come il manifesto della scuola neoistituzionale. Il punto di partenza è la critica al presupposto della scuola organizzativa classica secondo cui la struttura formale di una organizzazione è il modo più efficace di coordinare e controllare il complesso delle attività che si svolgono al suo interno. Spesso non sono le singole organizzazioni a darsi l'assetto che reputano più idoneo, sostengono Meyer e Rowan, ma sono i contesti istituzionali a definire i criteri di razionalità a cui le organizzazioni devono attenersi. Questo assunto conduce a scenari di ricerca totalmente nuovi sulle pressioni alla conformità che il contesto istituzionale esercita sulle organizzazioni, nonché sui conflitti che possono sorgere tra i criteri dettati dall'esterno e i criteri interni suggeriti dalle specificità dell'organizzazione. Meyer e Rowan definiscono le pressioni che le potenti istituzioni esterne esercitano sulle organizzazioni come 'miti razionali', legittimati dal presupposto di essere razionalmente efficaci per raggiungere dei fini giudicati auspicabili. Sono ad esempio istituzioni esterne alla scuola a indicare i criteri e i valori a cui deve ispirarsi un insegnamento per essere efficace, così come sono agenti esterni alle imprese quelli che definiscono i criteri ottimali per organizzare il lavoro. E le scuole, così come le imprese di beni e di servizi, si adeguano ai criteri diffusi nella società per ottenere legittimazione e consenso, ma anche vantaggi tangibili. Un'impresa che abbia adottato le ultime prescrizioni delle scuole di management, a prescindere dalla reale efficacia di tali prescrizioni, ha molte più probabilità di essere avvantaggiata nella concessione di un prestito bancario rispetto a un'altra impresa meno sensibile ai dettami della moda.Meyer e Rowan sono consapevoli che l'approccio neoistituzionale può portare a concepire le organizzazioni non come entità autonome rispetto all'ambiente, ma come semplici conseguenze di miti istituzionalizzati che prevalgono nella società. Essi evitano tuttavia di formulare una conclusione così radicale perché distinguono tra due tipi di organizzazioni: il primo tipo non possiede criteri autonomi di efficienza mentre il secondo li possiede. Mentre le organizzazioni del primo tipo sopravvivono soprattutto grazie alla capacità di adeguarsi alle pressioni esterne, quelle del secondo tipo sopravvivono soprattutto grazie alla capacità di mediare tra le pressioni esterne alla conformità e la propria esigenza di autonomia funzionale. Secondo Meyer e Rowan, la tensione tra questi due criteri costituisce uno dei più interessanti problemi teorici aperti alla ricerca organizzativa di questi anni.
Quali ulteriori sviluppi si possono ragionevolmente prevedere nel campo degli studi organizzativi? Per rispondere a questa domanda bisogna innanzi tutto prendere atto della svolta avvenuta negli anni settanta. Fino ad allora esisteva una sostanziale omogeneità nell'indirizzo degli studi, nel senso che il dibattito che portò al commiato dal paradigma funzionalista e all'approdo alla scuola decisionalistica di Simon fino alla teoria delle contingenze era un dibattito che attraversava l'intera comunità scientifica. Ma a partire da quegli anni questa unitarietà si perde. Le diverse scuole di pensiero a cui abbiamo dedicato l'ultima parte di questo articolo testimoniano che nel campo degli studi organizzativi è in atto una crescente differenziazione di interessi e di paradigmi interpretativi, e ciò porta alla proliferazione di comunità e sub-comunità scientifiche sempre meno comunicanti tra loro. A differenza della fase classica degli studi organizzativi, questa differenziazione non nasce dai differenti tipi di organizzazioni studiate (ad esempio imprese, ospedali, scuole, ecc.), ma dai differenti approcci e punti di vista rivolti alla medesima realtà empirica: ad esempio chi studia con metodo etnografico i processi cognitivi in atto nei transplants europei di una multinazionale giapponese ha ben poco da comunicare con chi studia quei medesimi transplants adottando l'approccio 'ecologico' alle popolazioni organizzative, e viceversa. La prima risposta alla domanda sulle prospettive degli studi organizzativi è dunque quella di una marcata pluralità di interessi di ricerca e di oggetti di analisi.
Preso atto di questa pluralità, è possibile tuttavia individuare alcuni temi dotati di una potenzialità sufficiente per alimentare dibattiti in più di una comunità scientifica. Uno di questi temi nasce dal fatto che l'attuale fase di sviluppo del capitalismo nel mondo si presta a due interpretazioni contrastanti: la prima mette in luce le tendenze omogeneizzanti dello sviluppo, la seconda insiste sul ruolo diversificante degli Stati nazionali.
La prima interpretazione è sostenuta dalla corrente di pensiero che mette a fuoco la novità delle imprese multinazionali e i conseguenti processi di globalizzazione produttiva. Ohmae (v., 1990) e Bartlett e Ghoshal (v., 1989) sono tra i rappresentanti più noti di questa corrente: la loro tesi fondamentale è che lo sviluppo capitalistico è entrato in una fase in cui i confini nazionali contano sempre meno, perché spetta alle imprese multinazionali sia definire il flusso delle merci e delle risorse a livello mondiale, sia trovare un equilibrio tra il senso di appartenenza all'impresa e l'adattamento alle situazioni locali.
L'altra corrente di pensiero mette invece a fuoco la diversità nazionale dei vari capitalismi e il ruolo che le istituzioni e le politiche locali svolgono nel formare le attività economiche. L'approccio neoistituzionale (v. cap. 10) è l'espressione più importante di questa corrente (v. Whitley, 1991; v. Orrù e altri, 1991), ma non va trascurato l'importante contributo di Porter (v., 1989) nel pensare il ruolo delle condizioni nazionali nello sviluppo economico.
Finora la connessione tra le due correnti di pensiero non è stata tentata. Eppure un collegamento tra i due approcci sarebbe auspicabile per concettualizzare il rapporto tra imprese multinazionali e Stati. Come sono organizzate le imprese multinazionali? Come si ottiene un sufficiente coordinamento tra la sede centrale e le varie branche autonome? In che misura pesano i fattori locali e il ruolo dello Stato? Come sottolinea Westney (v., 1993), la letteratura organizzativa su questi punti è ancora singolarmente scarsa. È verosimile presumere che, data l'importanza crescente delle imprese multinazionali nel mondo, si assista nei prossimi anni a una fioritura di studi su questi temi. (V. anche Amministrazione pubblica; Burocrazia).
Aldrich, H.E., Organizations and environment, Englewood Cliffs, N.J., 1979.
Argyris, C., Schön, D., Organizational learning: a theory of action perspective, Reading, Mass., 1978.
Bartlett, C.A., Ghoshal, S., Managing across borders: the transnational solution, Boston, Mass., 1989.
Burns, T., Stalker, G.M., The management of innovation, London 1961 (tr. it.: Direzione aziendale e innovazione, Milano 1974).
Clark, B., The organizational saga in the higher education, in "Administrative science quarterly", 1972, XVII, pp. 178-184 (tr. it.: La saga organizzativa nelle istituzioni accademiche, in Le imprese come cultura, a cura di P. Gagliardi, Torino 1986).
Emery, F.E., Trist, E.L., The casual texture of organizational environments, in "Uman relations", 1965, XVIII, pp. 21-32.
Gouldner, A., Organizational analysis, in Sociology today (a cura di R. Merton, L. Broom e L. Cottrell), New York 1959.
Granovetter, M., Economic action and social structure: the problem of embeddedness, in "American journal of sociology", novembre 1985, XCI, pp. 481-510.
Greiner, L.E., Evolution and revolution as organizations grow, in "Harvard business review", luglio-agosto 1972, L, 4, pp. 37-46 (tr. it.: Evoluzione e rivoluzione nelle organizzazioni che si espandono, in "L'impresa", settembre-ottobre 1972, XVI, 5, pp. 314-320).
Hannan, M., Freeman, J., The population ecology of organizations, in "American journal of sociology", 1977, LXXXV, 5, pp. 930-964.
Kimberly, J., Miles, R., The organizational life cycle, San Francisco 1980.
Lawrence, P.R., Lorsch, J.W., Organization and environment, Boston, Mass., 1969.
Mayo, E., The social problem of an industrial civilization, Boston, Mass., 1945 (tr. it.: I problemi umani e sociopolitici della civiltà industriale, Torino 1969).
Meyer, J.W., Rowan, B., Institutionalized organizations: formal structure as myth and ceremony, in "American journal of sociology", 1977, LXXXV, 2, pp. 340-363 (tr. it. in: Le imprese come cultura, a cura di P. Gagliardi, Torino 1986).
Miller, E.J., Rice, A.K., Systems of organization, London 1967.
Morgan, G., Images of organizations, Beverly Hills, Cal., 1986 (tr. it.: Images. Le metafore dell'organizzazione, Milano 1989).
Ohmae, K., The borderless world, New York 1990 (tr. it.: Il mondo senza confini, Milano 1991).
Orrù, M., Biggart, N., Hamilton, G., Organizational isomorphism in East Asia, in The new institunionalism in organizational analysis (a cura di W. Powell e P. Di Maggio), Chicago 1991.
Ouchi, W., A conceptual framework for the design of organizational control mechanisms, in "Management science", settembre 1979, XXV, 9, pp. 833-848 (tr. it.: La progettazione dei meccanismi di controllo organizzativo, in Organizzazione e mercato, a cura di R.C. Nacamulli e A. Rugiadini, Bologna 1985).
Ouchi, W., Markets, burocracies and clan, in "Administrative science quarterly", marzo 1980, XXV, pp. 129-141.
Parsons, T., Suggestions of a sociological approach to the theory of organizations, in "Administrative science quarterly", giugno-settembre 1956, I, pp. 63-85, 225-239.
Parsons, T., Essays in sociological theory, New York 1964.
Parsons, T., Smelser, N.J., Economy and society: a study in the integration of economic and social theory, London 1956 (tr. it.: Economia e società. Uno studio sull'integrazione della teoria economica e sociale, Milano 1970).
Pfeffer, G., Management as a symbolic act: the creation and maintenance of organizational paradigms, in "Research in organizational behavior", 1981, III, pp. 1-52 (tr. it. in: Le imprese come cultura, a cura di P. Gagliardi, Torino 1986).
Porter, M., The competitive advantage of nations, New York 1989 (tr. it.: Il vantaggio competitivo delle nazioni, Milano 1991).
Powell, W., Di Maggio, P. (a cura di), The new institutionalism in organizational analysis, Chicago 1991.
Pugh, D., Hickson, D. (a cura di), Organizational structure in its context: the Aston programma I, London 1976.
Pugh, D., Hining, C.R. (a cura di), Organizational structure. Expansions and replications: the Aston programma II, London 1976.
Pugh, D., Payne, R.L. (a cura di), Organizational behaviour in its context: the Aston programma III, London 1977.
Simon, H.A., Administrative behavior: a study of decision-making processes in administrative organization, New York 1945 (tr. it.: Il comportamento amministrativo, Bologna 1958).
Simon, H.A., On the concept of organizational goal, in Readings in organization theory, a behavioral approach (a cura di W. Hill e D. Egan), Boston, Mass., 1956.
Simon, H.A., March, J.G., Organizations, New York 1958 (tr. it.: Teoria dell'organizzazione, Milano 1966).
Smircich, L., Concept of culture and organizational analysis, in "Administrative science quarterly", 1983, XXVIII, pp. 339-358.
Stinchcombe, A., Social structure and organizations, in Handbook of organizations (a cura di J.G. March), Chicago 1965.
Taylor, F.W., Scientific management, New York 1947 (tr. it.: L'organizzazione scientifica del lavoro, Milano 1952).
Thompson, J.D., Organizations in action, New York 1967 (tr. it.: L'azione organizzativa, Torino 1988).
Weber, M., Wirtschaft und Gesellschaft (1922), Tübingen 1956⁴ (tr. it.: Economia e società, 2 voll., Milano 1961).
Westney, E., Istitutionalization theory and the multinational corporation, in Organization theory and the multinational corporation (a cura di S. Ghoshel ed E. Westney), New York 1993.
Whitley, R., The social construction of business systems in East Asia, in "Organization studies", 1991, n. 12, pp. 1-18.
Williamson, O.E., Market and hierarchy: analysis and antitrust implications, New York 1975.
Williamson, O.E., Economic organization. Firms, market and policy control, Brighton 1986 (tr. it.: Organizzazione economica. Imprese, mercati e controllo politico, Bologna 1991).
Williamson, O.E., The economic institutions of capitalism. Firms, market, relational contracting, New York 1986 (tr. it.: Le istituzioni economiche del capitalismo. Imprese, mercati, rapporti contrattuali, Milano 1987).
Woodward, J., Industrial organization: theory and practice, New York 1965 (tr. it.: L'organizzazione industriale. Teoria e pratica, Torino 1975).