Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Contro impressionismo e scuola naturalista, troppo legati al reale e ai sensi, alla precarietà percettiva del momentaneo, il simbolismo si volge verso una forma di conoscenza assoluta, tentando di portare il linguaggio a un massimo di tensione conoscitiva, in modo che in esso si possano trovare il presente e l’eterno, il reale e l’idea. Caratteristiche della nuova scuola sono il tentativo di rivestire l’Idea di una forma sensibile non fine a se stessa (cioè il "simbolo"), l’uso di un linguaggio raffinato, di un sistema metaforico ardito e multiforme, e la sperimentazione di una nuova metrica.
Il simbolismo, in quanto scuola poetica che riprende e porta a esasperazione alcuni dati del pensiero e delle poetiche romantiche, può essere inquadrato entro limiti cronologici che vanno dal 1870 ai primi anni del Novecento. Se la data d’inizio in base ai documenti di provenienza soprattutto francese è definibile con una certa sicurezza, più difficile è stabilire il momento finale della stagione simbolista. La nozione infatti si dilata rapidamente a livello internazionale, e molte delle opere che noi oggi consideriamo rappresentative del "moderno" vengono concepite in clima simbolista o su premesse simboliste (basta fare i nomi di Proust, della Woolf, di Rilke o di Montale). Esiste dunque anche un aspetto "allargato" del simbolismo, che in generale si riferisce a una fondamentale sperimentazione novecentesca sul linguaggio poetico e sulle strutture narrative.
A monte di dichiarazioni esplicitamente simboliste, troviamo nella letteratura francese definizioni quali "poeti maledetti" e "decadenti". La prima è di Verlaine, riguarda Mallarmé, Rimbaud e Corbière, e indica un atteggiamento di ribellione verso le convenzioni sociali che si rispecchia anche nelle scelte poetiche; la seconda viene da Paul Bourget e si riferisce a Baudelaire e alla coscienza di operare in una condizione di esasperante ritardo: “Io sono un uomo nato sul ritardo di una razza” dirà lo stesso Bourget, che nel 1881 pubblica una Teoria della decadenza, manifesto di una generazione nata in un mondo ormai vecchio e stanca di tutto. “Je suis l’Empire à la fin de la décadence” gli farà eco Verlaine in un famoso sonetto uscito su "Le chat noir" il 26 maggio 1883.
L’apparizione del termine simbolismo con valore di nuova poetica può essere fatta risalire al 18 settembre 1886, giorno in cui compare sul "Figaro" un articolo a firma di Jean Moréas, alias Ioannis Papadiamantopoulos: “Un manifeste littéraire: le symbolisme”. Ma già qualche mese prima Moréas era intervenuto per difendere i poeti cosiddetti "decadenti" dagli strali del giornalista Paul Bourde (su "Le temps" del 6 agosto 1885). I decadenti, aveva precisato Moréas, potrebbero essere chiamati più giustamente simbolisti, dal momento che sono rappresentanti di una scuola artistica importante come quella romantica che trova il suo precursore in Charles Baudelaire e i suoi migliori esponenti in Mallarmé e Verlaine. Caratteristiche della nuova scuola sono il tentativo antirealistico di rivestire l’Idea di una forma sensibile non fine a se stessa (cioè il "simbolo"), l’uso di un linguaggio raffinato e di un sistema metaforico ardito e multiforme, la sperimentazione di una nuova metrica apparentemente disordinata.
Numerose sono le discussioni che seguono la pubblicazione del manifesto, ma non danno comunque ragione dell’importanza reale delle singole soluzioni e delle derivazioni che ne nascono. René Ghil nel Traité du verbe del 1886 individua la funzione del simbolo nell’unica visione degna della molteplicità disordinata del reale. Nel 1889 Charles Morice pubblica una Littérature de tout’à l’heure, dove si propone una letteratura che – appoggiandosi ai dati della scienza – riscopra la sua natura di "religione", facendo sì che lo scrittore voyant diventi portavoce di un processo di spiritualizzazione capace di pervenire a una "rivelazione", cioè a una "unione mistica" tra verità e bellezza. Neoplatonismo, Schopenhauer, Novalis, Carlyle e Rimbaud sono le componenti di questo programma.
Arthur Rimbaud
Le bateau ivre
Stavo discendendo dei Fiumi imperturbati,
quando persi la guida dei miei alatori:
Pellirosse urlanti li avevano inchiodati
nudi come bersagli ai pali di colori.
Me ne ridevo di equipaggi portatori
di grani fiamminghi e di cotoni inglesi.
Quando ogni strepito svanì con gli alatori
lungo i miei Fiumi liberamente discesi.
Più sordo della mente dei fanciulli, nei tonfi
furibondi delle invernali mareggiate,
ieri io corsi!, e le Penisole salpate
mai subirono più caotici trionfi.
La tempesta segnò i miei risvegli marini.
Dieci notti, indifferente all’occhio annidato
dei fari, sopra i flutti, gli eterni arrotini
di vittime, più lieve di un sughero ho danzato!
Dolce più che la carne dei pomi ai bambini,
la verde acqua penetrò il mio scafo di pino
mi lavò, sperdendo il timone e il grappino,
dai vòmiti e dalle macchie di azzurri vini.
D’allora m’immersi nel poema del mare
lattescente e infuso d’astri, divorando
verdi azzurri, ove, rapito e livido flottare,
discende un annegato pensando;
dove, le azzurrità a un tratto nel rossore
del giorno tingendo, ritmi lenti e deliri,
più forti dell’alcol, più vaste delle lire,
fermentano le vampe amare dell’amore!
Conosco i cieli in lampi squarciati, e le trombe,
risacche e correnti; la sera ho conosciuto,
l’Alba esaltata come stirpe di colombe,
e a volte ho veduto ciò che l’uomo ha creduto:
il sole basso, macchiato di mistici orrori,
vidi illuminare di lunghi grumi viola,
come attori di drammi più antichi, lontane
onde rotolanti in sussulti di persiane!
Sognai la verde notte di nevi abbagliate,
bacio lento che risale agli occhi dei mari,
la circolazione delle linfe impensate,
il giallo risveglio dei fosfori canori!
Ho seguito, come mungitori eccitati,
per mesi, i marosi all’assalto dei frangenti,
ignaro che Marie dai piedi lucenti
forzassero il morso agli Oceani sfiatati!
Mischianti ai fiori di pantere, strane
Flòride ho urtato, sapeste! di pelli umane,
arcobaleni tesi come finimenti,
sotto l’orizzonte dei mari, a glauchi armenti!
Vidi fermentare paludi, come bisacce
enormi dove imputridisce un Leviatano
fra i giunchi! Frane d’acque in mezzo alle bonacce
e orizzonti cascanti nei gorghi lontano!
Ghiacciai, soli d’argento, cieli incandescenti,
perlacei flutti, orridi incagli in golfi mori
dove rosi da cimici mostri serpenti
piombano da alberi storti con neri odori!
Avrei voluto ai bimbi mostrare le orate
dell’onda azzurra, quei pesci d’oro e cantanti.
Schiume di fiori han cullato le mie bordate,
e ineffabili venti mi alarono a istanti.
Il mare, dal pianto che dolce mi rullava,
stanco martire dei poli, a volte aizzava
le gialle ventose della sua flora ombrata
e io restavo come donna inginocchiata...
Penisola agitante ai miei bordi i letami
e le risse d’uccelli chiassosi dal biondo
occhio. E vogavo mentre tra i miei esili legami
scendevano annegati a dormire sul fondo!
Ora, io, barca persa in anse di capelli,
dall’uragano spinto nell’aria senza uccelli,
carcassa ebbra d’acque che mai Corazzata
o Vela Hanseatica avrebbe ripescata;
libero, fumante, io, salito da viole
brumali, sbrecciante il cielo come pareti
rosseggianti, squisita conserva ai poeti,
di mocci d’azzurro e di licheni di sole;
io in corsa, da elettriche lunule macchiato,
legno folle, da neri ippocampi scortato,
quando il randello dei lugli mandava in rovine
gl’imbuti ardenti delle volte ultramarine;
tremando per i gemiti a cinquanta leghe
dei Maelstrom e dei Behemòt dalle dense freghe,
eterno filatore di azzurrità uguali,
rimpiango l’Europa dai vecchi davanzali!
Siderali arcipelaghi ho veduto! ed isole
dai cieli deliranti aperti al vogatore:
è in queste notti senza fondo che dormi ésule,
milione d’aurei uccelli, o futuro Vigore?–
Ma troppo ho pianto. Le Albe sono tormenti,
tutti i soli atroci e tutte le lune amare:
l’acre amore mi gonfiò d’ebbri assopimenti.
O scoppi la mia chiglia! O m’inabissi in mare!
Se desidero un’acqua d’Europa, è la nera
e fredda pozza ove alla balsamica sera
un bimbo, accoccolato e triste, scioglie in viaggio
un’esile barca come farfalla a maggio.
Non posso più, onde!, immerso nei vostri languori,
rubare il solco ai portatori di cotoni,
violare l’orgoglio dei vessilli e degli ori,
nuotare sotto gli occhi orrendi dei pontoni.
Testo originale:
Comme je descendais des Fleuves impassibles,
Je ne me sentis plus guidé par les haleurs:
Des Peaux–Rouges criards les avaient pris pour cibles,
Les ayant cloués nus aux poteaux de couleurs.
J’étais insoucieux de tous les équipages,
Porteur de blés flamands ou de cotons anglais.
Quand avec mes haleurs ont fini ces tapages,
Les Fleuves m’ont laissé descendre où je voulais.
Dans les clapotements furieux des marées,
Moi, l’autre hiver, plus sourd que les cerveaux d’enfants,
Je courus! Et les Péninsules démarrées
N’ont pas subi tohu–bohus plus triomphants.
La tempête a béni mes éveils maritimes.
Plus léger qu’un bouchon j’ai dansé sur les flots
Qu’on appelle rouleurs éternels de victimes,
Dix nuits, sans regretter l’oeil niais des falots!
Plus douce qu’aux enfants la chair des pommes sûres,
L’eau verte pénétra ma coque de sapin
Et des taches de vins bleus et des vomissures
Me lava, dispersant gouvernail et grappin.
Et dès lors, je me suis baigné dans le Poème
De la Mer, infusé d’astres, et lactescent,
Dévorant les azurs verts; où, flottaison blême
Et ravie, un noyé pensif parfois descend;
Où, teignant tout à coup les bleuités, délires
Et rhythmes lents sous les rutilements du jour,
Plus fortes que l’alcool, plus vastes que nos lyres,
Fermentent les rousseurs amères de l’amour!
Je sais les cieux crevant en éclairs, et les trombes
Et les ressacs et les courants : je sais le soir,
L’Aube exaltée ainsi qu’un peuple de colombes,
Et j’ai vu quelquefois ce que l’homme a cru voir!
J’ai vu le soleil bas, taché d’horreurs mystiques,
Illuminant de longs figements violets,
Pareils à des acteurs de drames très antiques
Les flots roulant au loin leurs frissons de volets!
J’ai rêvé la nuit verte aux neiges éblouies,
Baiser montant aux yeux des mers avec lenteurs,
La circulation des sèves inouïes,
Et l’éveil jaune et bleu des phosphores chanteurs!
J’ai suivi, des mois pleins, pareille aux vacheries
Hystériques, la houle à l’assaut des récifs,
Sans songer que les pieds lumineux des Maries
Pussent forcer le mufle aux Océans poussifs!
J’ai heurté, savez–vous, d’incroyables Florides
Mêlant aux fleurs des yeux de panthères à peaux
D’hommes ! Des arcs–en–ciel tendus comme des brides
Sous l’horizon des mers, à de glauques troupeaux !
J’ai vu fermenter les marais énormes, nasses
Où pourrit dans les joncs tout un Léviathan!
Des écroulements d’eaux au milieu des bonaces,
Et les lointains vers les gouffres cataractant!
Glaciers, soleils d’argent, flots nacreux, cieux de braises!
Échouages hideux au fond des golfes bruns
Où les serpents géants dévorés des punaises
Choient, des arbres tordus, avec de noirs parfums!
J’aurais voulu montrer aux enfants ces dorades
Du flot bleu, ces poissons d’or, ces poissons chantants.
– Des écumes de fleurs ont bercé mes dérades
Et d’ineffables vents m’ont ailé par instants.
Parfois, martyr lassé des pôles et des zones,
La mer dont le sanglot faisait mon roulis doux
Montait vers moi ses fleurs d’ombre aux ventouses jaunes
Et je restais, ainsi qu’une femme à genoux...
Presque île, ballottant sur mes bords les querelles
Et les fientes d’oiseaux clabaudeurs aux yeux blonds.
Et je voguais, lorsqu’à travers mes liens frêles
Des noyés descendaient dormir, à reculons!
Or moi, bateau perdu sous les cheveux des anses,
Jeté par l’ouragan dans l’éther sans oiseau,
Moi dont les Monitors et les voiliers des Hanses
N’auraient pas repêché la carcasse ivre d’eau;
Libre, fumant, monté de brumes violettes,
Moi qui trouais le ciel rougeoyant comme un mur
Qui porte, confiture exquise aux bons poètes,
Des lichens de soleil et des morves d’azur;
Qui courais, taché de lunules électriques,
Planche folle, escorté des hippocampes noirs,
Quand les juillets faisaient crouler à coups de triques
Les cieux ultramarins aux ardents entonnoirs;
Moi qui tremblais, sentant geindre à cinquante lieues
Le rut des Béhémots et les Maelstroms épais,
Fileur éternel des immobilités bleues,
Je regrette l’Europe aux anciens parapets!
J’ai vu des archipels sidéraux! et des îles
Dont les cieux délirants sont ouverts au vogueur:
– Est–ce en ces nuits sans fonds que tu dors et t’exiles,
Million d’oiseaux d’or, ô future Vigueur?
Mais, vrai, j’ai trop pleuré ! Les Aubes sont navrantes.
Toute lune est atroce et tout soleil amer:
L’âcre amour m’a gonflé de torpeurs enivrantes.
Ô que ma quille éclate ! Ô que j’aille à la mer!
Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesse, lâche
Un bateau frêle comme un papillon de mai.
Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, ô lames,
Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,
Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des flammes,
Ni nager sous les yeux horribles des pontons.
Arthur Rimbaud, Opere complete, a cura di A. Adam, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992
Nel 1892 "L’idealismo" di Remy de Gourmont rilancia i principi di spiritualizzazione del movimento: “In rapporto all’uomo, soggetto pensante, il mondo, tutto ciò che è esterno all’Io, non esiste se non secondo l’idea che egli se ne fa”. Dunque, contro impressionismo e scuola naturalista, troppo legati al reale e ai sensi, alla precarietà percettiva del momentaneo, i simbolisti si volgono verso una forma di conoscenza assoluta, vogliono portare il linguaggio a un massimo di tensione conoscitiva, in modo che in esso si possano trovare insieme il presente e l’eterno, il reale e l’idea. “Io è un altro”, afferma Rimbaud nella lettera all’amico Paul Demeny del 15 maggio 1871 per illustrare sinteticamente questa inclusione di finito e infinito, e aggiunge: “il poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi”. Dopo più di dieci anni, Mallarmé ribadisce: “Decadente, Mistica, le scuole che si dichiarano tali, o sono etichettate in fretta dalla nostra stampa d’informazione, adottano, come punto d’incontro, un idealismo che [...] rifiuta i materiali naturali e, come brutale, un pensiero esatto che li ordini; per non serbare, d’ogni cosa, che la suggestione”.
Per quanto riguarda l’Italia, i tempi di assorbimento del nuovo clima culturale sono rapidi: i libri di Morice e Bourget cadono presto sotto agli occhi di un personaggio attento alle mode come D’Annunzio, dietro al quale non bisogna però trascurare la presenza del critico d’arte con velleità filosofiche, Angelo Conti, che conosce Schopenhauer, Wagner e Walter Pater e teorizza – nei saggi estetici sul "Marzocco"e poi nel volume La beata riva – una religione dell’arte a cui collaborano insieme musica, pittura e parola.
Più a margine, ma meno ingenuamente di quel che potrebbe sembrare, si svolge la ricerca di Giovanni Pascoli. Il suo celebre discorso, Il fanciullino, elaborato tra il 1896 e il 1903 (e allusivamente polemico verso la teoria estetica di Croce), rappresenta la vera risposta italiana alle teorie simboliste: i temi dell’invisibile, del mistero, di una parola che risalga alla pienezza espressiva delle origini sono filtrati da una presenza infantile, comune a tutti gli uomini, che si realizza nella voce del poeta, nuovo Adamo capace di ridisegnare la semantica di un linguaggio ai limiti del dicibile. Alla rarefazione metaforica e sintattica di Mallarmé corrisponde la regressione a un primitivismo percettivo capace di arricchire la parola di nuova forza analogica, capace inoltre di portare nella poesia un blando messaggio di utopia sociale: “Siano gli operai, i contadini, i banchieri, i professori in una chiesa a una funzione di festa; si trovino poveri e ricchi, gli esasperati e gli annoiati, in un teatro a una bella musica: ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell’anima, illuminati da un sorriso o aspersi d’una lagrima che brillano negli occhi de’ loro ospiti inconsapevoli; ecco i fanciullini che si riconoscono, dall’impannata al balcone dei loro tuguri e palazzi, contemplando un ricordo e un sogno comune”.
Giovanni Pascoli
Incipit
Il fanciullino
È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nella più matura, perché in quella, occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima donde esso risuona. E anche, egli, l’invisibile fanciullo, si pèrita vicino al giovane più che accanto all’uomo fatto e al vecchio, ché più dissimile a sé vede quello che questi. Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; ché ne sdegna la conversazione, come chi si vergogni d’un passato ancor troppo recente. Ma l’uomo riposato ama parlare con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; e l’armonia di quelle voci è assai dolci ad ascoltare, come d’un usignolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora.
O presso il vecchio grigio mare. Il mare è affaticato dall’ansia della vita, e si copre di bianche spume, e rantola sulla spiaggia. Ma tra un’ondata e l’altra suonano le note dell’usignolo ora singultite come un lamento, ora spicciolate come un giubilo, ora punteggiate come una domanda. L’usignolo è piccolo, e il mare è grande; e l’uno è giovane, e l’altro è vecchio. Vecchio è l’aedo, e giovane la sua ode. Väinämöinen è antico, e nuovo il suo canto. Chi può immaginare, se non vecchio, l’aedo e il bardo? Vyàsa è invecchiato nella penitenza e sa tutte le cose sacre e profane. Vecchio è Ossian, vecchi molti degli skaldi. L’aedo è l’uomo che ha veduto (oîde) e perciò sa, e anzi talvolta non vede più; è il non veggente (aoidós) che fa apparire il suo canto.
Non l’età grave impedisce di udire la vocina del bimbo interiore, anzi invita forse e aiuta, mancando l’altro chiasso intorno, ad ascoltarla nella penombra dell’anima. E se gli occhi con cui si mira fuor di noi, non vedono più, ebbene il vecchio vede allora soltanto con quelli occhioni che son dentro lui, e non ha avanti sé altro che la visione che ebbe da fanciullo e che hanno per solito tutti i fanciulli. E se uno avesse a dipingere Omero, lo dovrebbe figurare vecchio e cieco, condotto per mano da un fanciullino, che parlasse sempre guardando torno torno. Da un fanciullino o da una fanciulla: dal dio o dall’iddia: dal dio che sementò nei precordi di Femio quelle tante canzoni, o dall’iddia cui si rivolge il cieco aedo di Achille e di Odisseo.
Ma il garrulo monello o la vergine vocale erano dentro lui, invisibilmente. Erano la sua medesima fanciullezza, conservava in cuore attraverso la vita, e risorta a ricordare e a cantare dopo il gran rumorìo dei sensi. E la sua fanciullezza parlava perciò più di Achille che d’Elena, e s’intratteneva col Ciclope meglio che con Calipso. Non sono gli amori, non sono le donne, per belle e dee che siano, che premono ai fanciulli; sì le aste bronzee e i carri da guerra e i lunghi viaggi e le grandi traversie. Così codeste cose narrava al vecchio Omero il suo fanciullino, piuttosto che le bellezze della Tindaride e le voluttà della dea della notte e della figlia del sole. E le narrava col suo proprio linguaggio infantile.
Tornava da paesi non forse più lontani che il villaggio che è più vicino ai pastori della montagna; ma esso ne parlava ad altri fanciulli che non c’erano stati mai. Ne parlava a lungo, con foga, dicendo i particolari l’un dopo l’altro e non tralasciandone uno, nemmeno, per esempio, che le schiappe da bruciare erano senza foglie. Ché tutto a lui pareva nuovo e bello, ciò che vi aveva visto, e nuovo e bello credeva avesse a parere agli uditori. La parola "bello" e "grande" ricorreva a ogni momento nel suo novellare, e sempre egli incastrava nel discorso una nota a cui riconoscere la cosa. Diceva che le navi erano nere, che avevano dipinta la prora, che galleggiavano perché ben bilanciate, che avevano belli attrezzi, bei banchi; che il mare era di tanti colori, che si moveva sempre, che era salato, che era spumeggiante. I guerrieri? Portavano i capelli lunghi. I loro caschi? Avevano creste che si movevano al passo. Le loro aste? Facevano una lunga ombra. Per non essere frainteso ripeteva il medesimo pensiero con altra forma: diceva "un pochino, mica tanto!", "vivere, mica morire!", e anche "parlò e disse", "si adunarono e furono tutti in un luogo". Non mancava di quelle spiegazioni che chiudono la bocca: "ubbidite, perché ubbidire... è meglio", "solo devo rimanermene senza dono? Non sta bene". La chiarezza non è mai troppa: "I pulcini erano otto, e nove con la madre, che aveva fatti i pulcini", "Aias, quello più piccolo, non grande come l’altro, ma molto più piccolo: era piccino...". Qualche volta riusciva sublime, ma senza farlo apposta: saltava qualche circostanza, per giungere a ciò che importava più e che era più sensibile. Un divino arciere tirava l’arco "e per tutto si vedevano cataste accese per bruciare i morti". Il dio supremo mosse il sopracciglio e scosse i capelli, "e scrollò l’Olimpo che è così grande". Sopra tutto, per far capire tutto il suo pensiero, in qualche fatto o spettacolo più nuovo e strano, s’ingegnava con paragoni tolti da ciò che esso e i suoi uditori avevano più sott’occhio o nell’orecchio. E in ciò teneva due modi contrari: ora ricordava un fatto piccolo per farne intendere uno grande, ora uno maggiore per farne vedere uno minore. Così rappresentava un mare agitato che non le grosse ondate spumeggianti si getta contro la spiaggia, e strepita e tuona, per dar l’idea d’una moltitudine d’uomini che accorre in un luogo; e descriveva uno sciame di mosche intorno ai secchielli pieni colmi di latte, per esprimere il confuso e vasto agglomerarsi d’un esercito di guerrieri.
Questo era il suo solo artifizio, se pure si può chiamare artifizio ciò ch’egli faceva così ingenuamente che spesso la cosa, mediante il suo paragone, riusciva più piccola, sebbene sempre paresse più chiara; come quando confrontava il fluido parlare di alcuni vecchi savi all’incessante frinire delle cicale, o la resistenza d’un grande eroe all’indifferenza d’un asino che séguita a empirsi d’erba nel prato donde i bimbi vogliono cacciarlo a suon di bastonate. No no: il fanciullino del cieco non tanto voleva farsi onore, quanto farsi capire: non esagerava; perché i fatti che raccontava, gli parevano già assai mirabili così come erano. Ed egli sapeva, né per altro argomento se non perché parevano anche a lui, che mirabili dovevano parere anche agli altri bambini come lui, che erano nell’anima di tutti i suoi uditori. I quali ora come allora lo ascoltano con maraviglia. E non sarebbe ragionevole, di cose che dopo trenta secoli non si credono più verosimili. Ma dopo pur trenta secoli gli uomini non nascono di trent’anni, e anche dopo i trent’anni restano per qualche parte fanciulli.
Ma è veramente in tutti il fanciullo musico? Che in qualcuno non sia, non vorrei credere né ad altri né a lui stesso: tanta a me parrebbe di lui la miseria e la solitudine. Egli non avrebbe dentro sé quel seno concavo da cui risonare le voci degli altri uomini; e nulla dell’anima sua giungerebbe all’anima dei suoi vicini. Egli non sarebbe unito all’umanità se non per le catene della legge, le quali o squassasse gravi o portasse leggere, come uno schiavo o ribelle per la novità o indifferente per la consuetudine. Perché non gli uomini si sentono fratelli tra loro, essi che crescono diversi e diversamente si armano, ma tutti si armano, per la battaglia della vita; sì i fanciulli che sono in loro, i quali, per ogni poco d’agio e di tregua che sia data, si corrono incontro, e si abbracciano e giocano.
Eppure è chi dice che veramente di generi umani ve ne ha due, e non si scorge che siano due, e che l’uno attraversa l’altro, sempre diviso ma sempre indistinto, come una corrente dolce il mare amaro. Vivono persino nella stessa famiglia, sotto gli occhi della stessa madre, e vivono in apparenza la stessa vita germinata da uguale seme in unico solco; e questi sono stranieri a quelli, non d’un solo tratto di cielo e di terra, ma di tutta l’umanità e di tutta la natura. Essi si chiamano per nome e non si conoscono né si conosceranno mai. Ora se questo è vero, non può avvenire se non per una causa: che gli uni hanno dentro sé l’eterno fanciullo, e gli altri no, infelici!
Ma io non amo credere a tanta infelicità. In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza e credenza falsa. Forse gli uomini aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni e operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita sono semplici e umili. Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose ugualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio dei due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna. Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell’uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell’anima di chi più non crede, vapora d’incenso l’altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare le selce che riluce. E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.
C’è dunque chi non ha sentito mai nulla di tutto questo? Forse il fanciullo tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole.
Ma in tutti è, voglio credere.
Siano gli operai, i contadini, i banchieri, i professori in una chiesa a una funzione di festa; si trovino poveri e ricchi, gli esasperati e gli annoiati, in un teatro a una bella musica: ecco tutti i loro fanciullini alla finestra dell’anima, illuminati da un sorriso o aspersi d’una lagrima che brillano negli occhi de’ loro ospiti inconsapevoli; ecco i fanciullini che si riconoscono, dall’impannata al balcone dei loro tuguri e palazzi, contemplando un ricordo e un sogno comune.
R. Ceserani e L. De Federicis, Il materiale e l’immaginario, Torino, Loescher, 1986
Se nel 1899 Arthur Symons pubblica Il movimento simbolista in letteratura, mettendo insieme Nerval, Villiers de l’Isle-Adam, Rimbaud, Verlaine, Laforgue, Mallarmé, Huysmans, Meterlinck, Yeats e D’Annunzio e se dal 1894 in Russia Valerij Brjusov comincia a introdurre nella letteratura russa i motivi e le forme del simbolismo europeo, è chiaro che alla velocità di propagazione della poetica corrisponde un proporzionale allargamento delle sue possibilità di applicazione. “Un mot est un gouffre sans fond”, dirà a posteriori Valéry a proposito delle infinite interpretazioni del termine "simbolo"; in effetti è difficile creare suddivisioni a proposito di una concezione che coinvolge, oltre la poesia vera e propria, la critica d’arte, la musica e il romanzo.
Dalla scuola di Mallarmé prendono origine soluzioni diverse e spesso opposte: il simbolismo moderato e classicista di Henri de Régnier – ancora vicino al parnassianesimo e libero da eccessive oscurità – non ha niente in comune con lo sperimentalismo di René Ghil, che con L’oeuvre tenta un’epopea cosmica sul tema dell’evoluzione attraverso la sintesi tra arti e pensiero. Théodore de Wyzewa ed Edouard Dujardin, vicini al mondo musicale e ammiratori di Wagner, propongono dalle pagine della "Revue wagnérienne" una relazione tra letteratura e simbolismo che in Mallarmé conferma l’ipotesi del livre, dove dovrebbe realizzarsi l’esperienza completa del mondo. Ma questa stessa relazione con la musica wagneriana influisce profondamente sulle strutture narrative tradizionali, ormai rifiutate, e porta all’elaborazione di una prosa sinfonica che può diventare, con Les lauriers sont coupés di Dujardin, la registrazione in diretta di sei ore della giornata di un personaggio e costituire così il precedente al monologo interiore joyciano.
Era stato Walter Pater a parlare della musica e del romanzo come forme dominanti del mondo moderno, sulla base del fatto che la prosa riesce a sintetizzare un’infinità di sensazioni simili a quelle espresse dalla musica. Morice può così avvicinare Balzac e Wagner, ritrovando nel primo l’enciclopedismo mitologico del secondo: il Balzac veggente teso verso un "assoluto estetico" prepara già l’esperienza di Proust, così come il Flaubert di Salammbô viene adottato come capostipite da Huysmans nella ricerca preziosa del suo A rebours, dove il genere romanzo recupera anche la vecchia esperienza della prosa di confessione secentesca unendola alla moderna analisi dell’interiorità esposta da Bourget nei suoi Essai de psychologie contemporaine, l’opera che insegna a Nietzsche cosa è la décadence.
In Italia è probabilmente D’Annunzio ad accogliere con interesse lo sperimentalismo che conduce a intersezioni tra prosa e poesia. In lui le suggestioni nietzschiane e wagneriane si fanno sentire sia nei progetti poetici, che hanno sempre un andamento complesso e costruito, sia nei romanzi. Dall’accorpamento di singoli testi si formano così i lunghi poemi dal titolo mitologico di Maia, Elettra o Alcyone, dove non manca mai un collegamento narrativo esplicito, sia il racconto di un’esplorazione della Grecia o il diario trasfigurato di un’estate in Versilia. I romanzi poi, sempre progettati a cicli di tre (Romanzi della Rosa, del Giglio, del Melagrano), diventano spesso contenitori di altri progetti letterari o esaltano la figura dell’artista in quanto veggente, mago, scopritore di segrete analogie tra le cose e spesso vittima del proprio incessante autoanalizzarsi.
Al di là delle realizzazioni letterarie, la nuova letteratura simbolista diventa comunque una ricca fucina dove si elaborano tipi e miti, resi in seguito ampiamente fruibili dalla moda, dai giornali e rimessi in gioco dalla stessa letteratura. Il dandy, l’esteta decadente che nasce dalla triade Wilde (Dorian Gray), D’Annunzio (Andrea Sperelli), Huysmans (Des Esseintes) sarà poi implacabilmente analizzato da Proust nella figura di Swann della Recherche. Ma già Baudelaire o Gérard de Nerval sono entrati nel costume con la rinomanza di vite maledette dalla poesia e dalla follia.
Oscar Wilde
Un nuovo edonismo
Il ritratto di Dorian Gray, Cap. XI
L’adorazione dei sensi è stata spesso, e con ragione, screditata, perché gli uomini provano un naturale, istintivo terrore per le passioni e le sensazioni che sembrano più forti di loro stessi e che essi sanno di condividere con le meno nobili forme di esistenza. Ma pareva a Dorian Gray che la vera natura dei sensi non fosse mai stata compresa, o fosse rimasta selvaggia e bruta solo perché il mondo aveva cercato di opprimerla e mortificarla, o di ucciderla con le sofferenze invece di cercar di farne il motivo di una nuova spiritualità la cui nota dominante fosse un profondo intuito della bellezza. Se si volgeva a guardare il cammino dell’uomo nella storia, si sentiva oppresso da un senso di inutile spreco. A quante cose si era rinunciato, e con qual misero guadagno! Vi erano state folli volontà rinunciatarie, mostruose forme di macerazione e di rinnegamento di sé, tutte causate dalla paura e con l’unico risultato di una degradazione infinitamente più terribile di quella a cui, nella loro ignoranza, gli uomini avevano cercato fuggire. La natura, nella sua meravigliosa ironia, nutriva l’anacoreta insieme con gli animali selvaggi del deserto e dava come compagni all’eremita le bestie dei campi.
Sì, un nuovo edonismo, come aveva preannunciato Lord Enrico, sarebbe sorto per ricreare la vita e salvarla da quell’arido e rozzo puritanismo che ha avuto ai nostri giorni un singolare risveglio. Certo avrebbe dovuto sostenersi all’intelletto, ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi che implicassero la rinuncia a una qualunque appassionata esperienza. Il suo scopo, infatti, doveva essere l’esperienza stessa e non i suoi frutti, dolci o amari che fossero. Sarebbe rimasto egualmente estraneo all’ascetismo, che mortifica i sensi ed alla depravazione volgare che li ottunde; ma avrebbe insegnato all’uomo a concentrarsi tutto negli attimi di una vita che è essa stessa un attimo. (...)
La creazione di un mondo simile sembrava a Dorian Gray il vero scopo o uno dei veri scopi della vita; e nella sua ricerca di sensazioni che fossero a un tempo nuove e piacevoli e possedessero quella nota di eccentricità così essenziale al romantico, accoglieva spesso modi di pensiero alieni alla sua natura, si abbandonava alle loro sottili influenze, e poi, avendone afferrato il colore e soddisfatto la propria curiosità intellettuale, li abbandonava con quella strana indifferenza che non è incompatibile con un temperamento ardente e che anzi, secondo alcuni moderni psicologi, ne è una condizione.
Una volta corse la voce che egli stesse per convertirsi alla Chiesa cattolica; e certo il rito romano aveva sempre avuto per lui un grande fascino. Il sacrificio quotidiano, più terribile di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva per il suo superbo disdegno di ogni evidenza sensibile non meno che per la primitiva semplicità dei suoi elementi e l’eterno pathos della tragedia umana di cui è simbolo. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e guardare il sacerdote nei suoi rigidi paramenti fioriti, che lentamente, con bianche mani, scostava il velo del tabernacolo, o elevava il gemmato ostensorio con quella pallida ostia che a volte appare davvero il panis coelestis, il pane degli angeli; o quando, nelle vesti della Passione di Cristo, spezzava l’ostia nel calice e si batteva il petto per le sue colpe. Gli incensieri fumanti, agitati nell’aria come grandi fiori dorati da fanciulli severi vestiti di pizzo e di porpora, avevano su di lui un sottile fascino. Nell’allontanarsi guardava con un senso di meraviglia i confessionali bui, e avrebbe desiderato sedersi in quell’ombra profonda e ascoltare uomini e donne che sussurravano attraverso la grata la vera storia della loro vita.
Ma non commise mai l’errore di arrestare il suo sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un sistema, o confondendo la casa in cui si vive con un albergo che può servire per l’alloggio di una notte o per poche ore di una notte senza stelle e a cui la luna non bada. Il misticismo, con il suo mirabile potere di renderci prodigiose le cose comuni e il sottile antinomismo che sempre lo accompagna, lo commosse per qualche tempo; e per qualche tempo si volse alle dottrine materialiste del movimento darwiniano tedesco, trovando un singolare piacere nel derivare i pensieri e le passioni umane da una cellula madreporea del cervello o da un candido nervo del corpo, e divertendosi all’idea di un’assoluta dipendenza dello spirito da determinate condizioni fisiche, sane o malate, normali o meno. Tuttavia, come abbiamo detto, nessuna teoria della vita gli sembrava di qualche importanza in confronto con la vita stessa. Sentiva acutamente quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è separata dall’azione e dall’esperienza. Sapeva che i sensi, non meno dell’anima, possono rivelare i segreti dello spirito.
Ed ecco volle studiare i profumi e i segreti della loro fattura, distillando olii odorosi e bruciando profumate resine dell’Oriente. Si accorse che non v’era moto dell’animo che non avesse una corrispondenza nella vita dei sensi, e tentò di scoprire le loro vere relazioni domandandosi perché l’incenso spinge al misticismo mentre l’ambra eccita le passioni, le violette risvegliano il ricordo dei morti amori, il muschio turba l’intelletto, la magnolia ravviva l’immaginazione. Più volte cercò di elaborare una vera psicologia dei profumi calcolando le varie influenze di radici odorose, i fiori ricchi di polline, di balsami aromatici, di legni fragranti: il nardo che illanguidisce, la hovenia che rende folli, l’aloe che, dicono, libera l’animo dalla malinconia.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e, in una lunga sala dalle finestre inferriate, dal soffitto rosso e oro, dalle pareti di lacca verde oliva, diede strani concerti in cui zingari frenetici strappavano una selvaggia musica da piccole chitarre, o gravi tunisini in scialli color ocra pizzicavano le corde tese di mostruosi strumenti mentre negri ghignanti battevano con monotonia su tamburi di bronzo e, rannicchiati su tappeti scarlatti, flessuosi indiani dalla testa avvolta nel turbante soffiavano in lunghi pifferi di canna o di rame e incantavano o fingevano incantare grandi serpenti a cappuccio e orribili aspidi cornute. Gli aspri intervalli e le acute dissonanze di quella barbara musica lo commuovevano a volte, mentre la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin, l’armonia possente dello stesso Beethoven non parlavano più al suo orecchio. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che poté trovare nelle tombe di popoli scomparsi o tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale; e si compiaceva di toccarli e provarli.
Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, trad. it. di U. Dèttore, Milano, Rizzoli, 1951
La mescolanza di estetismo, corruzione, superomismo e satanismo ridefinisce i confini di un immaginario che sopravvive fino al cinema dei nostri giorni (si pensi al caso di Visconti). Il crepuscolo del giorno (1884) di Elémir Bourges, ammiccando a Wagner e a Gobineau, mette in scena la dissoluzione di una famiglia ducale tedesca tra amori incestuosi e lussuriosi, favoriti dall’italiana Giulia Belcredi. La Décadence latine (1884) di Joséph Péladan riutilizza insieme, in diciannove volumi, neoplatonismo, esoterismo e wagnerismo, alla ricerca di una nuova morale che liberi dalle ossessioni del vizio. Figure simboliche di questo mondo sono la donna dal potere distruttivo (poi riciclata in molte figure dannunziane, da Elena Muti del Piacere a Ippolita Sanzio del Trionfo della morte) o la variante idealizzata dell’androgino, portatore di un mito ideale che si contrappone, eccitandolo, al sensualismo estenuato. Monsieur Vénus (1884) della belga Rachilde (psuedonimo di Marguerite Eymery Vallette) costituisce uno dei casi letterari della fine del secolo: il romanzo racconta la storia di un’aristocratica perversa che seduce e corrompe un giovane fioraio, rovesciando così la legge naturale della subordinazione dei sessi, alla luce del fatto che “l’uomo è materia, la voluttà è donna”.
Se l’Italia conosce una sua versione provinciale dei miti decadenti con D’Annunzio, la poesia di Pascoli, che sembra essere lontana da atmosfere fin de siècle, rappresenta invece il tentativo di sperimentazione più interessante, in quanto memoria letteraria e innovazioni formali vengono fatte convivere alla luce di un personalissimo tentativo di narrazione. Le direzioni di questa operazione sono almeno quattro, e spesso sincroniche: il componimento di breve formato, apparente registrazione di ineffabili dati sensoriali (la cosiddetta myrica, che dà titolo alla raccolta omonima, e I canti di Castelvecchio); il poemetto narrativo di ambiente contadino, collegato al folklore ma anche a richiami classici (la doppia raccolta dei Primi e Nuovi poemetti); la trascrizione diretta di motivi classici (i Poemi conviviali) e la ripresa del racconto storico nazionale di origine carducciana (i Poemi italici, le Canzoni di Re Enzio e i Poemi del Risorgimento). In realtà, questo complesso organismo, paragonabile per ideazione ai grandi cicli narrativi ottocenteschi, potrebbe essere interpretato come il tentativo – tipicamente simbolista – di comporre un’autobiografia non reale ma profondamente trasfigurata da elementi mitici o addirittura cosmologici, dove il livello più intimo del soggetto, l’appena cosciente (quella che viene definita la "voce" del fanciullino) riesce a coesistere con livelli altissimi e complessi di memoria storica extraindividuale (quelli che portano al recupero trasfigurato di figure classiche o medievali). Una volta elaborato un linguaggio le cui possibilità possono andare dal minimo espressivo del verso animale alla sinestesia, dall’onomatopea all’astrazione, Pascoli lo usa per passare in rassegna tutti i gradi dell’esistente, da se stesso al cosmo, dal presente al passato, costruendo una serie di cicli lirici che, visti nel loro insieme, non sono molto lontani da quelli programmati nella cultura francese che guarda a Wagner come esempio non solo di una musica nuova ma anche di una nuova psicologia (per Thomas Mann il Leitmotiv sarà un principio di analisi psicologica e di costruzione narrativa).
Momento culminante di questa ricerca può essere considerato il Ritorno a San Mauro, la serie di nove componimenti finali dei Canti di Castelvecchio, dove la rarefazione linguistica e la tecnica analogica cercano di creare correspondances tra presente, passato e futuro: il poeta sogna un viaggio all’indietro nel tempo che è dialogo coi morti, identificazione col fantasma materno e realizzazione di un desiderio di vendetta nei confronti dell’assassino del padre.
Fra le tre varianti tardo-romantiche della carne, la morte e il diavolo, in Pascoli è soprattutto la seconda a prendere il sopravvento.
Giovanni Pascoli
Mia madre
Zitti, coi cuori colmi,
ci allontanammo un poco.
Tra il nereggiar degli olmi
brillava il cielo in fuoco.
Come fa presto sera,
o dolce madre, qui!
Vidi una massa buia
di là del biancospino:
vi ravvisai la thuia,
l’ippocastano, il pino...
Or or la mattiniera
voce mandò il luì;
Tra i pigolìi dei nidi,
io vi sentii la voce
mia di fanciullo... E vidi,
nel crocevia, la croce.
sonava a messa, ed era
l’alba del nostro dì:
E vidi la Madonna
dell’Acqua, erma e tranquilla,
con fruscìo di gonna,
dentro, e l’odor di lilla.
pregavo... E la preghiera
di mente già m’uscì!
Sospirò ella, piena
di non so che sgomento.
Io me le volsi: appena
vidi il tremor del mento.
Come non è che sera,
madre, d’un solo dì?
Me la miravo accanto
esile sì, ma bella:
pallida sì, ma tanto
giovane! una sorella!
bionda così com’era
quando da noi partì.
in Poesia italiana del Novecento, a cura di Edoardo Sanguineti, Torino, Einaudi, 1971