ORO (aurum, ie. da *ausom; quod illi [Sabini] ausum dicebant: Fest., viii, 14; χρυσός è di origine semitica; cfr. Ernout-Meillet, 1959, s. v.; Boisacq, s. v.)
È il metallo prezioso e nobile per eccellenza per la sua rarità e per la sua resistenza agli agenti atmosferici, agli acidi e alcali, e al calore. "D'oro furono i primi uomini mortali (χρύσεον γένος) che gli Olimpi crearono; vivevano come gli dèi, col cuore libero da cure e al riparo da pene e miserie;... morendo sembravano addormentarsi; e ogni bene era a loro.... Scomparsi dalla superficie della terra, essi divennero i buoni genî, guardiani dei mortali, dispensatori della ricchezza" (Hesiod., Op. et di., 109 ss.). Con il metallo stesso, dunque, splendente e incorruttibile, identificarono gli antichi occidentali il primo genere umano, il quale appunto per la sua incorruttibilità non poteva scomparire del tutto, ma solo nascondersi nelle viscere della terra. Il mito della favolosa età dell'oro nacque, per quel che ne sappiamo, in un tempo e in un luogo, la Grecia dell'VIII sec. a. C., in cui l'o. era scarso e perciò altamente prezioso. Di qui il fiabesco nei posteriori racconti sull'o., dalla "invenzione" del medesimo, attribuita ora a Cadmo fenicio o al fratello di lui Thasos, ora a Eaco figlio di Zeus, ora al Sole, figlio di Oceano (Plin., Nat. hist., vii, 197), all'o. dell'India, dove straordinarie formiche di grandezza intermedia tra cani e volpi, scavando le loro tane in regioni desertiche gettavano per aria sabbia mescolata a o. (χρυσῖτις), o a quello degli Iperborei, sottratto ai grifoni suoi guardiani dagli Arimaspi, uomini monocoli secondo un' etimologia che s'accorda non solo col meraviglioso, ma anche con un carattere proprio delle divinità solari (e l'o. per il suo giallo splendore ben s'addice a tali divinità; cfr. il monocolo Zaleuco locrese) (in realtà: amanti dei cavalli) (Herod., iii, 102, 106, 1 16), o infine all'o. della Colchide, la classica terra dell'o. nell'antichità, col suo famoso vello d'o. (simbolo, secondo Strabone [xi, 2, 19] di un modo, ivi usato, di raccogliere le pagliuzze d'o. fornite dai torrenti locali, appunto mediante velli dalla lunga lana a cui le pagliuzze facilmente si attaccavano) (cui si avvicinerà l'agnello d'oro rubato ad Atreo dalla moglie Aerope e donato a Tieste: Paus., ii, 18, 1). "Pare che le regioni estreme che contornano il resto del mondo e lo serrano, posseggano esse sole le cose che noi stimiamo più belle e che sono le più rare" commenta malinconicamente Erodoto a proposito dell'o. degli Arimaspi (iii, 116), e già in queste parole, sia pure in modo indiretto, l'o. è sentito come la somma di ogni felicità, ma lontana e pressoché irraggiungibile, e verso cui tuttavia si accanirà in ogni tempo l'esecranda fame dei mortali (auri sacra fames: Verg., Aen., iii, 57).
L'oro (Au), ha un peso spec. da 19,30 (fuso) a 19,50 (laminato o trafilato), fonde a 1063° circa, è inattaccabile dall'aria, dagli acidi e dagli alcali (si scioglie in acqua regia, in acqua di cloro e in acqua di bromo), ed è l'unico metallo che si salda a freddo su se stesso (per battitura o per compressione). Cristallizza nel sistema cubico (ottaedri e rombododecaedri), ma per lo più in aggregati dentritici. È nota la sua proverbiale malleabilità, la massima che si conosca (lamine sottili fino a 2 millesimi di millimetro di spessore, trasparenti e di color verdastro); Plinio (Nat. hist., xxxiii, 61) sa che da un'oncia d'o. si potevano trarre più di 750 brattee o foglie di quattro dita quadrate), e la sua duttilità (con 5 centigrammi di metallo si può tirare un filo lungo 162 m). Per queste sue caratteristiche non si usa quasi mai allo stato puro, ma in lega, onde ottenergli appunto maggior durezza e resistenza. Le principali leghe sono: 1) oro e argento: più del 50 % di argento o. bianco (già così chiamato in Erodoto: λευκὸς χρυσός); circa il 40 % o. verde acqua; circa il 30 % = o. foglia morta; circa il 25 % = o. verde; 2) o. e rame la più usata, che gli conferisce la maggior durezza senza diminuirne la malleabilità finché non supera il 10 %; col 50 % di rame si ha l'oro rosso; 3) o., argento e rame. L'oro nativo, anche quando lo si considera puro, non è mai purissimo, cioè a 24 carati (= 1000 millesimi), ma è per lo più a 22 carati (= circa 900 millesimi). In generale l'o. si rinviene associato o combinato con altri metalli, fra i quali ricordiamo l'argento, il rame, il piombo, l'antimonio, il bismuto, il selenio e il tellurio. Si chiama o. di montagna quello che si trova in giacimenti primari, incluso in piriti, calcopiriti, arsenopiriti, rocce quarzose, ecc., oppure in rocce eruttive e clastiche (quasi sempre argentifero), o anche allo stato di impregnazione, nella quarzite o nel calcedonio, sia puro sia combinato col selenio. Dai giacimenti secondari, ovverosia alluvioni aurifere geologicamente antiche e recenti, che si sono formati per disgregazione ed erosione dei giacimenti primari, provengono le ben note pepite (che da pochi grammi giungono al peso di 80-100 kg), i granuli e le pagliuzze. L'o. infine si trova anche nell'acqua marina, allo stato di cloruro d'o. (da 0,01 a 0,05 mgr per m3, e nei mari polari, forse per l'attrazione dei poli magnetici, fino a 3-8 mgr per m3).
Le miniere d'o. più importanti nell'antichità si trovavano in Asia e in Africa. Per la prima ricorderemo le miniere di Atameo, di Cremaste, di Lamporeo, dello Tmolo, del Sipilo, dell'Armenia, della Colchide, e le sabbie aurifere dell'Ermo, del Pattolo, dell'Oxus; per la seconda le miniere dell'isola di Meroe in Egitto e quelle dell'Etiopia. La Grecia, in generale povera d'o. e perciò importatrice dall'Oriente del prezioso metallo (si ricordi che il nome dell'o. in greco è un imprestito dalle lingue semitiche), ebbe tuttavia notevoli miniere d'o. a Sifno, coltivate specialmente nel sec. VI a. C., e a Thasos (dall'antico nome significativo di Chryse), nelle sabbie dell'Ebro in Tracia, nell'Epiro e soprattutto nella Macedonia (Pangeo) e nella valle dello Strimone (Strabone [xii, fr. 37] racconta che ai suoi tempi era ancora possibile che l'aratro incontrasse delle pepite). Per l'Italia si ha notizia di miniere d'o. solo al N, nel paese dei Salassi (Dora Baltea), nel territorio di Vercelli e nei dintorni di Aquileia. Specialmente note furono le miniere iberiche della Turdetania e anche della Lusitania. In Gallia importanti erano quelle numerose del paese dei Tectosagi e ancora di più quelle dei Tarbelli sulle coste del golfo Galattico. O., infine, si trovava anche in Dalmazia e nel Noricum, e anche in Svizzera, Bretagna, Dacia. Per quanto riguarda l'estrazione del metallo, istruttiva è la descrizione di questa operazione che Diodoro (iii, 12 ss.) dà con ampiezza e precisione di particolari a proposito delle miniere dell'alto Egitto. Scavato il minerale aurifero in galleria, e spezzato e triturato in pezzi sempre più piccoli fino a farne una specie di farina, quest'ultima veniva disposta su larghe tavole inclinate e indi sottoposta a lavaggio continuato e anche spremuta con l'ausilio di spugne finché la "raschiatura d'oro" (ψῆγμα τοῦ χρυσοῦ) era purificata. Questa poi veniva messa in vasi di argilla con un'aggiunta proporzionale di piombo, di sale di stagno e di crusca d'orzo. Infine i recipienti suddetti col loro prezioso contenuto si coprivano, si sigillavano e si esponevano al fuoco per cinque giorni e cinque notti continuate, finché se ne ricavava o. puro (χρυσὸς καϑαρός). La difficoltà del lavoro, ma soprattutto le tremende e bestiali condizioni degli schiavi ad esso adibiti conducono Diodoro a concludere, in verità molto saggiamente, che l'o. dà fatica a trovano, difficoltà e preoccupazione a conservarlo e gioia e dolore ad usarlo: "ὁ χρυσὸς γένεσιν μὲν ἐπίπονον ἔχει, ϕυλακὴν δὲ χαλεπήν, σπουδὴν δὲ μεγίστην, χρῆσιν δὲ ἀνὰ μέσον ἡδονῆς τε καὶ λύπης". Anche Plinio (Nat. hist., xxx, 66 ss.) si occupa estesamente del rinvenimento e dell'estrazione dell'oro. Dei tre diversi casi di cui tratta (o. estratto dai fiumi, o. scavato da pozzi non profondi [aurum canalicium], e o. estratto da profonde gallerie) è soprattutto il terzo (operazione, egli dice, che opera vicerit Gigantum) che lo stimola a una descrizione accuratissima. Il metodo è in sostanza quello che si è visto sopra: estrazione e triturazione del materiale, e lavaggio, qui ottenuto con più complesso e raffinato sistema.
L'o. è conosciuto in Occidente fin dalla età neolitica (Tessaglia, Egitto, Francia), foggiato con martello di pietra in forma di rudimentali ornamenti. La sua fusione sembra tuttavia che non abbia preceduto ma seguito, per il suo assai più elevato grado di calore, quella del rame e dello stagno. Che esso sia stato impiegato fin dai tempi più remoti nelle forme più svariate, lo attestano le scoperte archeologiche in Mesopotamia, Egitto, Troade, Grecia, Etruria (v. oreficeria). Le fonti parlano sovente non soltanto di oggetti di uso personale quali fibule, vasi, armi, e tutta una svariatissima quantità di ornamenti, ma anche di mobili e perfino di porte, di soffitti, di pareti, di tegole. Naturalmente in questi ultimi casi si deve credere che si trattasse per lo più di intarsi (v. caelatura), rivestimenti e dorature di varia specie (v. doratura). Basterà qui menzionare il letto di Ulisse (Od., xxiii, 200), il palazzo di Menelao che scintillava d'oro, argento e elettro (ibid., iv, 73), le porte scolpite d'o. e d'avorio che Virgilio progetta nel suo tempio sul Mincio (Georg., iii, 26), il tempio costruito da Antioco Epifane, di cui Livio (xli, 20) dice: Non laqueatum auro tantum, sed parietibus totis lamina inauratum, le tegole del tempio Capitolino (Plin., Nat. hist., xxxiii, 3, 18). Grande quantità d'o. sotto forma di oreficerie e anche di lingotti (v. avanti) ebbero i tesori dei templi. Singolare è la notizia di Livio (xxiv, 3), che nel tempio di Giunone Lacinia presso Crotone esisteva una colonna d'o. massiccio, frutto delle rendite del tempio stesso (columna... aurea solida). Largamente impiegato, l'o. fu anche per le statue. La più antica statua d'o. massiccio si sarebbe trovata, secondo Plinio (Nat. hist., xxxiii, 4, 24), nel tempio di Anaitis, dove fu fatta a pezzi al tempo della spedizione di Antonio contro i Parthi; (Plinio aggiunge che essa fu creata prima di qualsivoglia statua di bronzo). Di una statua colossale di Zeus (Marduk) in o. che si vedeva in un tempio di Babilonia parla Erodoto (1, 183): ἄγαλμα μέγα χρύσεον; nello stesso luogo era anche un'altra statua χρύσεος στερέος (cioè d'o. massiccio). Sempre nella medesima città di Babilonia esistevano, secondo Diodoro (ii, 9), altre tre statue d'o. lavorate a martello (ἀγάλματα χρυσᾶ σϕυρήλατα), collocate sul fastigio del tempio di Belos. In Grecia, come è noto, si preferì per le grandi statue la tecnica crisoelefantina (v. crisoelefantica, tecnica), ma non mancarono (forse per influsso orientale) statue di solo o.: basterà ricordare lo Zeus offerto da Cipselo a Olimpia, σϕυρήλατος χρυσοῦς ἀνδριὰς εὐμεγέϑης (Strab., viii, 3, 30).
Come segno di ricchezza, anzi come il massimo segno, e quindi di potenza, l'o. fu anche largamente impiegato in cerimonie di grande importanza. Tipico a questo riguardo è il racconto particolareggiato che Diodoro (xviii, 26 s.) fa dei funerali di Alessandro Magno da Babilonia ad Alessandria: la bara d'o. era portata da un carro sfarzosamente adorno d'o. e di porpora, e condotto da sessantaquattro muli ornati ciascuno di una corona d'oro. Numerosissimi furono i vasi e le corone d'o. nella pompa di Antioco IV di Siria, nella quale furono anche esposte moltissime statue dorate o rivestite di drappi d'o. rappresentanti tutte le divinità, gli eroi e i dèmoni conosciuti (Polyb., xxxi, fr. 3; Athen., v, 22). Si ha notizia che straordinariamente ricche per o., avorio, ebano e stoffe preziose, furono le feste date da Tolomeo II a Alessandria (Theocr., xv, 112 ss.; Athen., v, 25 ss.). A Roma, memorabile fu il trionfo di Paolo Emilio su Perseo re di Macedonia, nel quale figurarono, oltre al vasellame aureo del re vinto, quattrocento corone d'o. offerte dalle varie città al trionfatore (Plut., Paul. Aem., 33). Due enormi corone d'o. di 700 e di 900 libbre arricchirono il trionfo di Claudio sui Britanni, quali doni delle province della Spagna Citeriore e della Gallia Comata (Plin., Nat. hist., xxxiii, 3, 16). Nerone poi, per abbagliare Tiridate re d'Armenia, coprì d'o., per un sol giorno, il teatro di Pompeo; Plinio, che ne tramanda la notizia (loc. cit.), così commenta: et quota pars ea fuit aureae domus ambientis urbem! La "casa d'o." dell'ultimo imperatore della casa giulio-claudia, contenente un'intera città, doveva restare nella memoria dei posteri come l'espressione massima, unica ed inimmaginabile della ricchezza dell'o., o dall'o. comprata, estesa a proporzioni non mai, né prima né dopo, vedute.
Gli antichi non tesaurizzarono l'o. soltanto sotto forma di oggetti (aurum factum) o di monete, ma anche sotto forma di lingotti, usati un po' dappertutto (ma specialmente in Egitto per l'assenza della moneta) ora foggiati a sbarre, ora a mattoni, ora a piastre (nel libro di Giosuè, [vii, 21, 24], si parla di una "lingua d'oro" pesante 50 sicli). Per la Grecia citeremo l'episodio di Creso, il quale, secondo Erodoto (i, 50), fece fondere per il santuario di Delfi una gran quantità d'o. per farne ἡμιπλίνϑια (mattoni di mezza misura) lunghi palmi 6, larghi 3, spessi 1 (ne fece 117 di cui 4 di o. puro [ἀπέϕϑος χρυσός], del peso di due talenti e mezzo; gli altri erano di o. bianco [λευκός χρυσός], cioè mescolato con argento, del peso di due talenti; Class. Review, 1931, p. 118 s.). Questi mattonilingotti servirono poi a formare il piedistallo ad una statua di leone in o. puro. Per Roma possiamo ricordare i lateres aurei (e anche argentei) menzionati da Varrone (ap. Non., s. v. Lateres): primum conflati et in aerarium conditi. Cesare ne asportò 15.000 durante la guerra civile, insieme a 30.000 d'argento (Plin., Nat. hist., xxx, 3, 17). Alcuni esemplari di lingotti aurei di età romana imperiale ci sono noti direttamente per una scoperta veramente pregevole fatta nei pressi di Sirmio (Pannonia Inferiore) nel 1887. Sono 15 sbarre che hanno un peso variabile da circa 1/4 a circa mezzo kg. Vi sono impressi i ritratti a mezzo busto degli imperatori Graziano, Valentiniano II e Valente, nonché l'immagine della Fortuna e due iscrizioni di officiali monetieri, di cui uno si rende garante della purezza dell'o. (Babelon, C. I. L., iii, 8080).
La preziosità del metallo, che fu adoperato per la monetazione fin dal VI sec. a. C. (Creso), suscitò tutta una serie di provvedimenti legali atti a infrenare l'abuso. La prima precisa limitazione si ha in quella che è tradizionalmente considerata la più antica legislazione ellenica, attribuita al leggendario Zaleuco di Locri (VII sec. ?): vi si proibiscono, alla donna, gli ornamenti d'o. o le vesti intessute d'o., e all'uomo l'anello di color d'o. (o parzialmente d'o.: ὑπόχρυσος) (oltre che lo himàtion di tipo milesio), se non vogliono esser considerati alla stregua della gente di malaffare (Diod., xii, 21). (Nelle leggi di Solone si consentiva alla sposa di portare con sé nella nuova famiglia non più che tre vestiti e oggetti di basso valore: σκεύη μικροῦ τιμήματος: Plut., Sol., 20). Sapore di contrappasso dantesco hanno al riguardo il noto racconto del mitico re Mida (una possibile realtà di sabbie aurifere si nasconde nella leggenda del fiume Pattolo che dopo il bagno del re diventa χρυσοῤῥόας), nonché l'impiego presso i Parthi, attestato da Tertulliano (De cultu femin., ii, 10, 2; 1, 7, 1: ed. J. Marra, 1951), di catene e manette d'o. per mcatenare i malfattori, e opprimerli così col metallo stesso per il cui possesso erano stati spinti a commettere i loro crimini, e tanto più quanto più grande era stata la loro malvagità, per non parlare del crudele beveraggio imposto alla testa di M. L. Crasso da Orode (Flor., iii, 11). A ragioni economiche più che morali è da ritenere che fosse ispirata in Roma la proibizione espressa dal fr. 8 della decima legge delle XII Tavole neve aurum addito, di seppellire cioè insieme al defunto oggetti d'o., fatta eccezione per l'o. che legava eventualmente i suoi denti (Fontes iur. anteiust., 1 ed., S. Riccobono, p. 68); il senso pratico dei Romani e, d'altra parte, il loro relativamente poco sviluppato culto dei morti, dovevano far loro apparire come uno sperpero ingiustificabile di una ricchezza quanto mai utile alla vita dell'uomo l'abbandono sotto terra di ingenti corredi di preziosi del tipo di quelli rinvenuti nelle tombe di Palestrina, di Cerveteri e altrove. E a distanza di molti anni lo stesso senso dovette avere la famosa lex Oppia, decretata su proposta del tribuno G. Oppio nel 215 a. C. durante la seconda guerra punica, per la quale era fatto divieto alle donne di portare addosso più di una mezza oncia d'o. (= nel bronzo a gr 1,16); la legge passò, ma durò poco, perché appena venti anni dopo dovette essere abolita, a seguito di una rivolta di donne tumultuanti in Campidoglio, su proposta del tribuno L. Valerio, nonostante l'opposizione di M. Porcio Catone che allora era console (Liv., xxxiv, 1-8). Le quali donne romane, tre secoli più tardi, avevano talmente aumentato la quantità dei monili che portavano addosso da provocare la sarcastica invettiva di Plinio (Nat. hist., xxxiii, 2, 12): habeant feminae in armillis digitisque totis, collo, auribus, spiris; discurrant catenae circa latera et in secreto margaritarum sacculi e collo dominarum auro pendeant, ut in somno quoque unionum conscientia adsit: etiamne pedibus induetur... ? E tuttavia le disposizioni contro il lusso non erano mancate né mancarono in seguito: sappiamo che Tiberio proibì totalmente l'uso del vasellame d'o. (Tac., Ann., ii, 33; Cass. Dio, 57, 15), e che una speciale tassa fu imposta agli orefici e agli artigiani di oggetti di lusso da Alessandro Severo per sovvenire alle spese dei bagni popolari (Scr. Hist. Aug., Alex. Sev., 24).
Tecnica della granulazione e del pulviscolo. - Nuovi elementi riguardo alla tecnica della granulazione (v.) sono emersi da uno speciale studio condotto in questi ultimi tempi sulle oreficerie della Tomba Regolini-Galassi del Museo Gregoriano Etrusco da F. Magi e dal chimico Vittorio Federici. Queste ricerche hanno permesso di scoprire un procedimento per la fabbricazione dei granuli e del pulviscolo e per la loro saldatura, che è senza dubbio il più semplice fra quelli finora inventati dai moderni orefici, i quali, a cominciare da Alessandro Castellani nella seconda metà del secolo scorso, hanno tentato di emulare gli antichi con imitazioni più o meno approssimate dei loro prodotti. Tenuto conto del fatto che i metalli allo stato liquido, quando siano versati da una certa altezza su una superficie non bagnata si scindono, a causa del loro peso specifico, in numerose sferette di varia dimensione, si fece cadere, da circa mezzo metro di altezza dell'o. fuso su di un piano di marmo a temperatura d'ambiente (sostituibile da un qualsiasi altro piano di pietra levigata), provvisto tutt'intorno di un rialzo di contenimento, e si ottennero così granuli sferici di assai differente misura, alcuni dei quali di diametro tanto piccolo da potersi decisamente identificare col cosiddetto pulviscolo. La separazione del pulviscolo dalle sferette e la distinzione di queste in gruppi di varia grandezza si poteva fare facilmente con setacci provvisti di fori di vario diametro, ma era anche facilmente fattibile a mano, aiutandosi col tatto e con la vista. Per il fissaggio e la conseguente saldatura dei granuli o del pulviscolo così fabbricati sulla superficie aurea da decorare fu decisiva la scoperta, fatta con l'ausilio di mezzi di fortissimo ingrandimento, di strisce rossastre sui tracciati dei granuli nelle oreficerie etrusche prese in esame. Queste strisce rivelarono l'impiego di resine (e non di colle animali) per il fissaggio, nonché l'azione del cannello ferruminatorio per la saldatura. La resina infatti funge da riducente sotto l'azione del calore, per il carbone organico che se ne forma, ed è inoltre capace di fissare nei suoi residui catramosi, come in un composto colloidale, il finissimo pulviscolo rossastro che, come è noto, si produce dall'o., sia pure in minima quantità, quando esso è sottoposto all'azione del dardo ossidrico. Gli esperimenti fatti riuscirono perfettamente: si ottenne il facile fissaggio delle palline su un piccolo disegno ornamentale tracciato col pennello intriso di resina su di una laminetta d'o., e quindi la loro saldatura al piano di posa e fra di loro appena portate al calor rosso: e si ottenne anche la striscia rossastra sul loro tracciato, esattamente come si era riscontrato sulle antiche oreficerie. Il cannello ferruminatorio usato dagli antichi poteva essere di metallo, ma poteva anche essere costituito più semplicemente da un osso opportunamente forato; se, come si è fatto nei nostri esperimenti, esso agiva col suo getto d'aria sulla fiamma di una lucerna a olio, cioè sulla fiamma più consueta, ne traeva, colpendola al centro, un potere riducente particolarmente efficace a tutto vantaggio della operazione. Solo la sua azione, che poteva essere regolata, interrotta o ripresa con ogni facilità, poteva consentire a un abile artigiano l'operazione delicata di una simile saldatura. Si deve infatti rilevare che l'oggetto, che i granuli o il pulviscolo decorano, è quasi sempre fatto, nell'oreficeria antica, di una sottile e talora sottilissima foglia d'o., la quale fonderebbe del tutto o almeno si deformerebbe violentemente se venisse messa all'interno di un forno avente il calore necessario per la saldatura autogena dei granuli o del pulviscolo; i quali poi - e peggio ancora il pulviscolo - posti in tali condizioni si disfarebbero in una massa informe. Essi invece, anche quelli più minuti, formano al più dei brevissimi peduncoli d'attacco, che però non sono visibili a occhio nudo (e che si sono formati anche nei nostri esperimenti). Il nuovo procedimento (che chiameremo Federici-Magi) non è dunque solamente il più semplice fra tutti quelli finora escogitati, ma risponde anche, e meglio di ogni altro, alle esigenze caratteristiche dell'antica tecnica della granulazione e del pulviscolo, e perciò rende legittima l'ipotesi che esso sia quello stesso usato dagli antichi o per lo meno il più simile. (È da ritenere, per quanto non si sia sperimentato, che il cannello ferruminatorio si sia usato anche per la saldatura della filigrana).
Bibl.: L. De Ronchaud, in Dict. Ant., s. v. Aurum; E. Ardaillon, ibid., s. v. Metalla; E. Babelon, ibid., s. v. Lateres; G. D'Achiardi, in Enc. Ital., s. v. Oro (per la mineralogia); M. Levi-Malvano, ibid., (per la chimica e l'industria); C. H. V. Sutherland, L'oro (trad. O. Nicotra), Milano 1961 (i primi cinque cap.).