SCAMMACCA, Ortensio
– Di famiglia nobiliare, nacque da Antonio e da Isabella d’Arezzo nel 1562 o 1565, in Sicilia, a Lentini.
Dal paese d’origine si allontanò per studiare a Siracusa e Caltagirone; entrò, ventenne, nell’Ordine della Compagnia di Gesù a Palermo. Lì, trascorse tutta la sua vita dedicandosi, oltre che alla predicazione, all’insegnamento e alla scrittura di opere drammaturgiche. Nel collegio insegnò teologia e filosofia oltre che retorica, per preparare gli studenti alle tecniche del dire e del recitare.
Studioso coltissimo, conoscitore di diverse lingue, anzitutto della greca e della latina ma anche dell’ebraica, araba e caldea, compose in volgare ben cinquantadue testi teatrali, in cui affrontò un’ampia serie di esperienze letterarie, dal dramma sacro alla tragedia di ispirazione classica, in cui i soggetti religiosi convivono con temi mitici e storici. Tutte le opere, eccetto sette, perdutesi, furono pubblicate in quattordici tomi con il titolo Delle tragedie sacre e morali (Palermo 1632-1648).
Se le ‘sacre’ si ispirano al Vecchio Testamento e alle leggende di santi e sante (ad esempio, Giuseppe riconosciuto, Alessio, Roboamo, Rosalia, Lucia, Agata, Placido, I Santi Fratelli), le ‘morali’ si suddividono in traduzioni e rifacimenti di tutte le tragedie di Sofocle e di ben quattordici Euripide: Oreste, Le Trachinie, Ifigenia in Aulide, Elena e via enumerando. Nei rifacimenti, pur in una trasposizione nel complesso fedele all’originale, Scammacca cambiò nomi e ambientazione rispetto alle tragedie di Sofocle (ad esempio, Ernando ripropone l’Edipo; Teodolinda, l’Elettra; L’apostolo della Spagna, Aiace; Amira, l’Antigone) e di Euripide (Crisanto ripropone l’Ippolito; Goffredo, la Medea; Demetria in Trabisonda, le Troiane), servendosi dei drammaturghi antichi per la rappresentazione delle effimere vicende terrene annullate dall’eterno. Con questa intenzione, sostituì al mito la storia; parecchie di queste opere sono ispirate a vicende medievali: contese fra Goti e Franchi (Amira, Crisanto), fra Normanni e Saraceni (Goffredo), fra turchi e bizantini (Demetria in Trabisonda), fra musulmani e cristiani (Teodolinda), con ambientazioni spesso inventate, prevalentemente in Sicilia, anche se non mancano altri contesti come quello inglese, in tre tragedie (Tommaso da Londra, Tommaso in Conturbia, Tommaso Moro). La predilezione di un Medioevo in lotta con i movimenti eretici che, in quell’età, attraversarono la storia della Chiesa, era luogo temporale privilegiato perché lo si caricava di valenze simboliche che consentivano rimandi al presente, alla disamina cinque-secentesca delle moderne eresie, quelle delle Chiese di recente riformate. L’esigenza di lotta con le altre confessioni, propria del cattolicesimo postridentino, trasformò la rappresentazione dei miti classici in cassa di risonanza del messaggio religioso.
Alla riscrittura di un teatro d’ispirazione confessionale, sul palinsesto dei modelli classici, si accompagna la rigida obbedienza ai canoni aristotelici fissati da Ludovico Castelvetro relativi al rispetto delle tre unità, alla suddivisione canonica in cinque atti, alla presenza nel coro di ‘giro’, ‘rigiro’, ‘stanza’, sul modello della tragedia greca. Nel testo, in endecasillabi sciolti, ai calchi della tragedia antica si aggiungono rimandi ai poeti in volgare (Iacopone da Todi, Dante, Francesco Petrarca, Pietro Bembo, Torquato Tasso) oltre che alle Sacre Scritture.
Il gusto dominante di tipo classicistico, nel rispetto del verosimile, nell’insistenza su principi di proporzione, di causalità e di coerenza drammaturgica, non esclude una tecnica retorica artificiosa, costruita su una elocutio dilatata, che trasforma i testi teatrali in saggi oratori dallo stile magniloquente. Ornata di lunghe perifrasi, di blocchi di aggettivi, di continue similitudini, di lunghi monologhi, di veri e propri ‘sermoni’, di complesse digressioni, questa scrittura si accompagna ad acutezze stilistiche e a paradossi, ma anche a elementi romanzeschi e fantastici propri del gusto barocco, con l’aumento del numero dei personaggi e con la presenza di figure angeliche e demoniache.
Il tentativo di rinsaldare le qualità morali del pubblico si evidenzia attraverso la rappresentazione a tutto tondo di due personaggi contrapposti, il tiranno, tutto malvagio, e il martire, espressione di tutte le virtù, che si fronteggiano secondo lo schema tipico della disputatio fra due opposte concezioni del mondo, in un susseguirsi di battute simmetriche che si corrispondono specularmente, scandendo attraverso antitesi e ossimori la diversa funzione delle due personalità, di cui l’una risulta il rovescio dell’altra. E il rituale della vita di corte, che fa da sfondo alle tragedie, viene prevalentemente rappresentato su suggestioni senecane – pur programmaticamente rifiutate – quale scenario di violenze e di inganni che, da ultimo, ricadono su chi li ha esercitati, in una sconfitta finale nella quale prevale solo la morte, da intendere come condanna e perdizione per il tiranno, contrapposta alla morte come libertà per il giusto, secondo il ricorrente ossimoro morte-vita. Questo il messaggio che Scammacca, con numerosi autori coevi (Emanuele Tesauro, Pietro Sforza Pallavicino, Benedetto Cinquanta) portò avanti nel suo teatro. Molto noto in quegli anni e ammirato come ‘il Sofocle del suo tempo’, anche fuori dell’ambito del suo ordine (Tommaso Aversa lo considerò un maestro), godette di buona fama fino a tutto il Settecento se Pier Jacopo Martello, nel Dialogo della tragedia antica e moderna, lo contrappose in positivo a Giovanni Vincenzo Gravina per aver riproposto la tragedia greca, e se Giovanni Mario Crescimbeni e Girolamo Tiraboschi manifestarono interesse per il suo teatro.
Le sue opere risultano rappresentate, oltre che a Palermo, in diversi collegi, fin dal 1593, e furono continuamente riproposte. Al di fuori del collegio gesuitico operava a Palermo l’Accademia degli Agghiacciati – con il suo teatro nel piano della Misericordia e nello spazio della chiesa dello Spasimo – che rappresentò, nel 1621-22, il Sant’Alessio, la Sant’Agata, la S. Lucia, il Crisanto e i Ss. Fratelli; nel 1625-26, la Rosalia, il Crisanto, il Goffredo. La Rosalia fu messa in scena ben sei volte, Il Crisanto e il Goffredo quattro volte ciascuno.
Quando gli spettacoli si apprestavano nel collegio palermitano, veniva costruita per il pubblico – formato dagli allievi, dai loro familiari e dai rappresentanti del potere locale – una grandiosa macchina teatrale per la rappresentazione del ‘meraviglioso’ cattolico, che coinvolgeva tutte le arti (architettura, pittura, musica danza e canto), destinate a creare stupore nei destinatari dello spettacolo, secondo un vero e proprio progetto registico che, in ossequio alle indicazioni della ratio studiorum, teatralizzava, attraverso la decorazione, la prospettiva, i personaggi e le vicende rappresentate, l’attività svolta dalla Compagnia di Gesù, esaltandone il ruolo primario di realizzazione della civitas dei.
Morì nel 1648 a Palermo, e fu sepolto nella chiesa dei gesuiti.
Opere. Delle tragedie sacre e morali, a cura di M. La Farina et al., I-XIV, Palermo 1632-1648. Fra le edizioni recenti si vedano: Tommaso in Conturbia, a cura di C. Donzelli, Catania 1976; La Rosalia, a cura di G. Romagnoli, Palermo 2004; Il Crisanto: tragedia morale, a cura di I. Castiglia, introduzione di M. Sacco Messineo, Pisa 2013; La Rosalia, a cura di D. Bellini, postfazione di M. Sacco Messineo, Pisa 2013; Il Tommaso in Londra, a cura di Ziba Ahmadian (diss.), Department of Italian studies, University of Toronto, 2013.
Fonti e Bibl.: T. Afflitto, Scenografia degli apparati del collegio di Palermo, Palermo 1622; A. Tantillo, Discorso della tragedia intorno alla economia delle scene e delle persone, Palermo 1622; Anonimo, Avvertimento d’uno intendente intorno al modo del rappresentare queste tragedie, in O. Scammacca, Delle tragedie sacre e morali, V, Palermo 1633, pp. 8 s.; M. La Farina, Discorso della tragedia, ibid.; G. Spuches, Discorso del modo di comporre la tragedia, Palermo 1633; L. D’Arezzo, Prefazione, in O. Scammacca, Delle tragedie sacre e morali, X, Palermo 1644, pp. 2-5; G.M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, II, Venezia 1730, p. 130; P.J. Martello, Della tragedia antica e moderna, in Id., Opere, I, Bologna 1735, p. 21; E. Aguilera, Provinciae siculae societatis Jesu ortis et res gestae, Panormi 1737-1740, pt. II, pp. 39-97; L. Allacci, Drammaturgia accresciuta e continuata fino all’anno 1755, Venezia 1755, pp. 289 ss.; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, VIII, Modena 1780, p. 330; Diari della città di Palermo dal sec. XVI al XIX, a cura di G. Di Marzo, III, Palermo 1869; Biblioteca storica e letteraria di Sicilia. Drammatiche rappresentazioni in Sicilia e poesie di autori siciliani dal sec. XVI al XVII, a cura di G. Di Marzo, XIII, Palermo 1875; R. Starrabba, Dell’Accademia detta degli Agghiacciati. Notizie e documenti, in Archivio storico siciliano, IV (1879), pp. 176-186; L. Natoli, O. S. e le sue tragedie, Palermo 1885; B. Soldati, Il collegio Mamertino e le origini del teatro gesuitico, Torino 1908; A. Prosperi, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna, in Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino 1981, pp. 159-252; La «ratio studiorum». Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di G.P. Brizzi, Roma 1981; I. De Loyola, Esercizi spirituali, a cura di G. Giudici, Milano 1984, pp. 19 s.; M. Sacco Messineo, Il martire e il tiranno, O. S. e il teatro tragico barocco, Roma 1988; Pietro Novelli e il suo ambiente, Palermo 1990; G. Zanlonghi, La tragedia tra ludus e festa nella scena gesuitica fra Sei e Settecento. Rassegna sulla tragedia in Italia dei nodi problematici delle teorie settecentesche, in Comunicazioni sociali, XV (1993), 2-3, pp. 157-240; I gesuiti e i primordi del teatro barocco in Europa, a cura di M. Chiabò - F. Doglio, Roma 1995 (in partic. M. Sacco Messineo, I primordi del teatro gesuitico e la sua evoluzione, pp. 101-117); G. Martellucci, Palermo. I luoghi del teatro, Palermo 1999; M. Fumaroli, Eroi e retori. Retorica e drammaturgia secentesche, Milano 2002; Padre Stefano Tuccio S.I.: un gesuita tra la Sicilia e Roma nell’epoca della Controriforma, a cura di M. Saulini, Monforte San Giorgio 2008.