SCALFARO, Oscar Luigi.
– Nacque a Novara il 9 settembre 1918 da Guglielmo, funzionario delle Poste di origini calabresi, e da Rosalia Ussino, piemontese.
I genitori appartenevano alla media borghesia benestante e religiosa. La madre allevò i figli – la maggiore, Concetta, era nata nel 1916 – nell’abitudine quotidiana del rosario. L’ambiente familiare fu distante dai toni nazionalisti del fascismo al potere. Obbligato a prendere la tessera del Partito nazionale fascista per non essere licenziato, il padre spiegò ai figli che era un’imposizione e non una libera scelta. Frequentato l’asilo e le elementari in una scuola di religiose, dopo le medie Scalfaro si iscrisse al liceo classico Carlo Alberto di Novara. Dagli anni del ginnasio iniziò a frequentare l’Azione cattolica, e ne portò il distintivo per tutta la vita motivando così la scelta: «Lì mi hanno insegnato che c’è la libertà e che si lotta prima per la libertà degli altri e poi per la propria» (Grasso, 2012, p. 22). Sin dal liceo desiderò fare il magistrato, sulle orme del prozio paterno, Orazio Scalfaro, giurista calabrese e patriota, nel 1892 divenuto consigliere di Cassazione a Roma e che concluse la carriera come primo presidente di Corte di appello. Scalfaro si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università cattolica di Milano e si laureò nel giugno del 1941 con una tesi in diritto penale. Si fidanzò allora con Marianna Inzitari, figlia di un collega del padre, anche lei di origini calabresi. Nel luglio del 1941 fu chiamato alle armi servendo ad Alessandria, nell’alto Monferrato, a Tortona e infine in Sicilia. Lì gli giunse la notizia del superamento del concorso in magistratura, con conseguente esonero dal servizio militare. Nell’ottobre del 1942 tornò a Novara e dopo un breve periodo di formazione come uditore giudiziario a Torino prese servizio, dividendosi tra il lavoro in tribunale e l’impegno nella GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) di cui era divenuto presidente diocesano. Il 26 dicembre 1943 sposò Marianna Inzitari che, dopo aver dato alla luce una figlia, il 27 novembre 1944, morì il successivo 14 dicembre. Alla neonata, che aveva ricevuto il nome di Gianna Rosa, venne cambiato il nome in Marianna.
Intanto nel Nord Italia si era instaurata la Repubblica di Salò. Scalfaro, in quanto magistrato, non venne richiamato alle armi dai repubblichini. Molti suoi amici ripararono in montagna aderendo alla Resistenza. Scalfaro non vi partecipò in maniera attiva, ma consentì che armi e materiali dei partigiani fossero nascosti nelle sedi dei circoli di Azione cattolica. Alla fine della guerra, dopo le sentenze sommarie dei tribunali partigiani, si costituirono le Corti d’Assise straordinarie e Scalfaro fu aggregato a quella di Novara.
Riguardo alla polemica sulle richieste di pena di morte nel suo ruolo di pubblico ministero – aspetto riproposto a fini denigratori nel corso della sua carriera – è ormai accertato che solo in un caso, pur dichiarandosi contrario alla pena capitale in sede processuale, chiese, secondo le norme vigenti, la condanna a morte per un imputato, accusato di aver seviziato e ucciso un giovane antifascista. La condanna fu commutata dalla Cassazione in trent’anni di reclusione, e le successive amnistie restituirono il condannato alla libertà.
In vista delle elezioni per l’Assemblea costituente, la nascente Democrazia cristiana (DC) abbisognava di uomini nuovi e preparati. Il vescovo di Novara, Giacomo Leone Ossola, chiese a Scalfaro di candidarsi. Da principio egli pensò di rifiutare sia perché non era iscritto ad alcun partito in quanto magistrato, sia perché vedovo e padre di una figlia piccola. Ma le insistenze dell’ecclesiastico e il consiglio di un amico magistrato – Manlio Borrelli, padre di Francesco Saverio poi procuratore capo a Milano nella stagione di tangentopoli – lo spinsero ad accettare.
Nel referendum istituzionale del 1946 il voto di Scalfaro andò alla monarchia, per rispetto ai suoi antenati filosabaudi. Per la Costituente egli risultò primo degli eletti nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli con oltre 40.000 voti, sopravanzando candidati più affermati come Mario Pastore e Giuseppe Pella. La Costituente rappresentò il suo battesimo politico, stagione di altissimo profilo nella costruzione delle regole della convivenza, alla quale spesso fece riferimento come parametro della levatura dell’azione politica. In seno all’Assemblea si impegnò perché alla magistratura fosse riconosciuta autonomia e si batté contro la proposta di rendere i giudici figure elettive. Riguardo alla composizione del Consiglio superiore della magistratura fu sua una proposta di mediazione che voleva i membri eletti per un terzo dal Parlamento e per due terzi da magistrati. Nacque in quegli anni l’ammirazione per Alcide De Gasperi, punto di riferimento ideale, e il legame con Mario Scelba, del quale fu sempre sodale.
Eletto nel 1948 alla Camera dei deputati e rieletto senza soluzione di continuità fino all’XI legislatura (1992-94), Scalfaro si collocò all’interno della DC in quella pattuglia fedele al centrismo degasperiano.
Anticomunista, antifascista, diffidente nei confronti della collaborazione con i socialisti, non fu chiuso alle istanze delle classi disagiate e criticò le posizioni della destra economica liberista anche nel suo partito. Il primo incarico governativo fu quello di sottosegretario al Lavoro nel I governo Fanfani, nel 1954, che però durò meno di un mese. Nel governo successivo, presieduto da Scelba, fu sottosegretario alla presidenza del Consiglio, vivendo il momento del ritorno di Trieste all’Italia. In quella posizione, con la delega per le politiche per lo spettacolo, applicò rigidi limiti di censura a vari film, suscitando la reazione della sinistra e dei produttori cinematografici che minacciarono di non trasmettere nelle sale cinegiornali con notizie riguardanti il presidente del Consiglio e il segretario politico della DC.
Il governo Scelba cadde nel 1955 a causa delle divisioni create in seno alla DC dalla guida di Amintore Fanfani e dalle elezioni per il nuovo presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi (eletto l’11 maggio 1955). Si trattò di una crisi extraparlamentare che generò in Scalfaro una profonda avversione per i passaggi che non trovassero nel Parlamento il luogo dell’individuazione delle soluzioni. Rimase al governo come sottosegretario alla Giustizia nei ministeri Segni (1955) e Zoli (1957-58), ma la pattuglia di amici di Scelba alzò il livello della polemica contro il segretario Fanfani, in modo particolare dopo le prime aperture ai socialisti. Escluso dal II governo Fanfani creato dopo le elezioni del 1958, Scalfaro tornò nel ruolo di sottosegretario all’Interno con il governo Segni (1959-60) e vi rimase fino alla fine della III legislatura (1963) con i governi Segni II, Tambroni (1960), Fanfani III (1960-62) e IV (1962-63).
Fu accanto a Scelba nella battaglia contro l’apertura a sinistra tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Nel 1959 diedero vita assieme a una corrente d’opposizione alla maggioranza dorotea, denominata Centrismo popolare, che si rafforzò gradualmente e alla vigilia del congresso di Napoli del 1962 – nel quale si varò l’apertura a sinistra – contava 18 senatori, 38 deputati, 17 membri nel Consiglio nazionale.
Centrismo popolare vide convergere due gruppi: quello maggioritario degli ‘scelbiani’ e quello minoritario guidato da Guido Gonella. Dopo il congresso DC del 1962 la corrente si dotò di un settimanale politico, Il Centro, diretto da Gonella, con Scalfaro nel comitato di direzione. Dalla creazione del I governo Moro di centrosinistra organico (1963-64) Scelba, Scalfaro e Centrismo popolare furono emarginati e non ottennero incarichi né nel partito né nella compagine governativa. Era la prima volta che membri della minoranza interna venivano lasciati senza incarichi. La situazione venne sanata nel 1965 con la gestione unitaria di Mariano Rumor, che chiamò Scelba, Scalfaro e Mario Martinelli a far parte della direzione della DC. Scalfaro divenne uno dei quattro vicesegretari. Nel 1966, con il III governo Moro, egli divenne ministro dei Trasporti e Scelba fu eletto presidente del Consiglio nazionale della DC. Ricomposto il quadro interno, la corrente cessò di esistere. Scalfaro si impegnò a fondo nella campagna per l’abrogazione del divorzio, dopo aver tentato di favorire la codifica di maggiori possibilità di separazione in una proposta di riforma del diritto di famiglia bocciata dall’aula. Tornò al governo agli inizi degli anni Settanta con i primi due ministeri Andreotti (1972; 1972-73). Nel primo (che non ebbe la fiducia) fu designato ai Trasporti e nel secondo alla Pubblica Istruzione.
Con il ritorno alla formula di centrosinistra iniziò per Scalfaro un periodo di esclusione dal governo e di marginalità nel partito. Nel 1975 fu eletto vicepresidente della Camera e fu riconfermato nella VII e VIII legislatura (1976-79; 1979-83). Fu impegnato anche nella battaglia contro l’approvazione dell’aborto, equivalente per lui «all’uccisione di una persona» (Grasso, 2012, p. 102), pur favorendo un impegno del suo partito al rispetto della decisione del Parlamento senza ricorrere a forme di ostruzionismo per bloccarne l’iter.
Nella stagione della ‘solidarietà nazionale’ considerò un errore cercare l’intesa con il Partito comunista italiano e salutò con soddisfazione gli esiti del congresso DC del 1980 che chiuse la stagione di quella collaborazione. Dopo le elezioni del 1983 Bettino Craxi lo volle nel governo come ministro degli Interni in una stagione segnata dai colpi di coda del terrorismo politico, da quello internazionale, dall’azione crescente della criminalità organizzata. Antico avversario dei socialisti, era stimato dal nuovo presidente del Consiglio e dal presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che lo apprezzavano per la sua rettitudine. In quegli anni crebbe la sua popolarità: capolista nel Nord-Ovest alle elezioni europee del 1984, sfiorò le 400.000 preferenze. Nella crisi politica che precedette le elezioni del 1987 il nuovo presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, lo incaricò di formare un governo, ma constatata l’assenza di condizioni Scalfaro declinò l’offerta spianando la strada a un ministero Fanfani che condusse il Paese alle elezioni con Scalfaro agli Interni. Nei governi successivi alle elezioni del 1987 non ci furono incarichi per lui. Tornato semplice deputato rafforzò la sua battaglia in difesa della centralità del Parlamento e contro equilibri di potere incapaci di elaborazione. Quando emerse lo scandalo sulla ricostruzione in Irpinia, a seguito del terremoto del 1980, fu chiamato a presiedere la Commissione bicamerale d’indagine sulla vicenda, presentando una relazione che denunciava il fallimento della classe dirigente locale e nazionale.
In quella fase la sua fu tra le poche voci critiche democristiane verso il degrado che rischiava di allontanare gli elettori. Per questo suo atteggiamento, e per l’antico legame con il cardinale vicario di Roma, il novarese Ugo Poletti, la DC gli propose di correre come capolista nelle elezioni comunali della capitale nel 1989, ma egli rifiutò perché il suo partito aveva già un accordo per la nomina a sindaco del socialista Franco Carraro.
Nella fase finale della presidenza Cossiga, Scalfaro si presentò a più riprese come strenuo difensore del parlamentarismo – tentò anche di far approvare una modifica costituzionale contro le crisi extraparlamentari con l’aggiunta di un comma all’art. 94 – e avversò le spinte in senso presidenzialista. Progressivamente, a fronte della ricetta del presidente Cossiga, che riteneva superato il modello costituzionale basato sulla centralità del Parlamento e auspicava un rafforzamento dell’esecutivo e l’introduzione di elementi di presidenzialismo, Scalfaro incarnò l’idea di un superamento della crisi attraverso il ritorno allo spirito della Costituzione. A suo giudizio il presidente della Repubblica non poteva adoperarsi per un cambiamento istituzionale mentre ricopriva la carica di garante degli assetti dettati dalla Costituzione sulla quale aveva giurato (O.L. Scalfaro, La mia Costituzione..., 2005, p. 121): in questo senso Scalfaro divenne l’anti-Cossiga, mentre contro il presidente della Repubblica si coalizzò parte della sinistra che nel dicembre del 1991 ne invocò la messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione. Dopo le elezioni politiche del 1992 Scalfaro fu eletto presidente della Camera (24 aprile 1992); il presidente della Repubblica, che ricevette a lungo il nuovo presidente del Senato, Giovanni Spadolini, si rifiutò di ricevere quello della Camera; due giorni dopo Cossiga si recò a casa di Scalfaro e, a seguito di un lungo colloquio, tornato al Quirinale annunciò le sue dimissioni.
Le elezioni per il nuovo presidente della Repubblica si aprirono il 13 maggio con una serie di 15 scrutini inconcludenti nei quali Scalfaro fu sempre votato, pur non superando mai i 25 voti. Il 23 maggio a Capaci un attentato della mafia uccise il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta. Due giorni dopo, come risposta all’attacco alle istituzioni, il Parlamento elesse Scalfaro al 16° scrutinio con 672 voti (il 66,5%).
Il suo settennato presidenziale fu caratterizzato da grandi rivolgimenti. L’esplosione dello scandalo delle tangenti a Milano, che coinvolse il cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, lo spinse a non dare l’incarico al leader socialista scegliendo però uno dei nomi che questi gli aveva segnalato per formare il governo, Giuliano Amato. La formazione del governo fu difficoltosa, anche a causa delle nuove regole che si era data la DC sulla incompatibilità tra incarichi governativi e parlamentari. Inoltre si dovettero affrontare la svalutazione della lira, l’uscita dal sistema monetario europeo, una manovra da 93.000 miliardi di lire, la ratifica dei trattati di Maastricht. Per Scalfaro il traguardo dell’unione monetaria era strategico, ma la difficoltà maggiore che dovette affrontare fu il cambiamento radicale del sistema politico a seguito del referendum dell’aprile 1993 che abrogò il finanziamento pubblico ai partiti e alcune norme della legge elettorale del Senato a vantaggio di un sistema maggioritario uninominale. A fronte di quanti avrebbero voluto un’immediata consultazione elettorale, visto che l’esito del referendum in senso maggioritario sembrava loro aver delegittimato il Parlamento, Scalfaro ritenne che fosse necessario adeguare al sistema maggioritario anche la legge elettorale per la Camera e quindi promosse un governo guidato dal governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, con ministri non concordati con i partiti. Tale governo fu chiamato a fronteggiare la crisi economica e a creare le condizioni per il voto. Intanto si stava ridisegnando il quadro politico con il tramonto dei partiti che avevano generato la Costituzione, e con una nuova legge elettorale maggioritaria.
Le elezioni del 1994 offrirono una situazione inedita, con una maggioranza formata dal partito appena creato da Silvio Berlusconi (Forza Italia), alleato nel Meridione con il Movimento sociale italiano e al Settentrione con la Lega Nord che rivendicava l’indipendenza del Nord. Scalfaro si oppose alla richiesta del leader incaricato della formazione del governo, Berlusconi, di nominare ministro della Giustizia il suo avvocato personale, Cesare Previti. Quando il governo fu sfiduciato dai leghisti, alla fine del 1994, egli respinse le richieste di Berlusconi che pretendeva lo scioglimento delle camere, un nuovo voto e, da ultimo, che fosse il suo governo a gestire le elezioni. La difesa di Scalfaro delle sue prerogative costituzionali – tese a verificare l’esistenza in Parlamento di una maggioranza – e la successiva nascita del governo Dini, fecero sorgere sui mezzi di comunicazione di centrodestra la leggenda del preteso ‘ribaltone’. Eppure, quando nel 1998 cadde il I governo Prodi, a fronte dell’ipotesi di ritorno al voto ventilata da esponenti del centrosinistra, Scalfaro si comportò coerentemente con il dettato costituzionale.
Il settennato di Scalfaro rappresentò un’evoluzione dell’interpretazione del ruolo presidenziale, sulla scia di altri ‘inquilini’ del Quirinale che – come Pertini e Cossiga – avevano superato la figura del presidente ‘notaio’, ma in un quadro inedito. Scalfaro, in una stagione di forti mutamenti, in un contesto politico progressivamente caratterizzato da un bipolarismo conflittuale e a fronte di interpretazioni della Costituzione lesive del ruolo del Parlamento e del presidente della Repubblica, si propose quale perno del sistema e garante attivo della Carta del 1948 in vigore, senza pregiudizi verso eventuali modifiche che trovassero ampio consenso tra le forze politiche in Parlamento.
Concluso il suo mandato presidenziale, si oppose alla equiparazione delle violenze della Resistenza con quelle dei nazifascisti e nel 2001 accettò la nomina a presidente degli Istituti per la storia della Resistenza (poi Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia); fu contrario alla riforma in senso federale della Costituzione promossa dal centrosinistra, approvata con referendum nel 2001, e a quella per la modifica della seconda parte della Costituzione promossa dal centrodestra e bocciata dal referendum del 2006 (O.L. Scalfaro, La mia Costituzione..., cit., p. 131). In particolar modo per questa seconda consultazione si mise a capo del comitato Salviamo la costituzione favorendo il respingimento delle modifiche.
Negli ultimi anni della sua vita guardò con amarezza al ritorno della guerra come strumento per la soluzione dei problemi internazionali e si schierò contro l’idea dello ‘scontro di civiltà’ e la dottrina degli interventi preventivi. Prima di morire, a conferma della sua vita cristiana, volle che la sua casa a Novara fosse donata alla Comunità di Sant’Egidio per l’accoglienza di anziani indigenti e immigrati.
Morì nella sua casa a Roma il 29 gennaio 2012.
Opere. Conversazioni, Roma 1961; Amen, Siena 1980; Le chiacchierate di Oscar Luigi Scalfaro alla Sala Francescana di S. Damiano, Assisi 1984; Discorsi del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro al Corpo Diplomatico per la Festa Nazionale del 2 giugno e per gli auguri di fine anno (1992-1998), Roma 1999; Messaggi di fine anno agli italiani del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (1992-1998), Roma 1999; La mia Costituzione. Dalla Costituente ai tentativi di riforma, intervista di G. Dell’Aquila, Firenze 2005; Non arrendetevi mai. Colloquio con Oscar Luigi Scalfaro, a cura di F. Di Lascio - D. Paris, Milano 2007; Quel tintinnar di vendette. Giustizia difficile tra protagonismo dei magistrati e ritorsioni della politica, a cura di G. Dell’Aquila, Roma 2009; Di sana e robusta Costituzione. Intervista di Carlo Alberto dalla Chiesa, Torino 2010 (con Gian Carlo Caselli); Credere nei valori. Discorsi sulla Costituzione e sull’Italia, a cura di M. Scalfaro, Novara 2012.
Fonti e Bibl.: Le carte personali di Scalfaro sono state donate nel 2012 alla rivista Civiltà cattolica.
G. Caldonazzo, S., Una vita da Oscar. La prima biografia del Presidente, Bergamo 1996; G. Lehner, La strategia del ragno. S., Berlusconi e il pool, Milano 1996; M. Franco, Il re della Repubblica, Milano 1997; M. Breda, La guerra del Quirinale. La difesa della democrazia ai tempi di Cossiga, S. e Ciampi, Milano 2006; G. Galloni, Da Cossiga a S. La vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura nel quadriennio 1990-1994, Roma 2011; G. Grasso, S. L’uomo, il presidente, il cristiano, Cinisello Balsamo 2012; M. Gervasoni, Le armate del Presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana, Venezia 2015 (cap. IV).