D'ARCANGELO, Ottavio
Storico e poeta, nacque e visse a Catania tra la seconda metà del XVI e i primi decenni del sec. XVII. Appartenne a nobile famiglia, che il Mugnos (Teatro genealogico..., II, p. 91) dice originaria del Mantovano; è attestato che vari esponenti di essa ricoprirono importanti cariche cittadine, mentre una Margherita D'Arcangelo donò nel 1602 la sua sontuosa dimora per la fondazione di un monastero di suore. Scarsissime sono le notizie sulla vita del D., che viene sempre citato con l'appellativo di gentiluomo e indicato come cancelliere del Senato di Catania. Si sa soltanto che compì diversi viaggi oltre lo Stretto e che sostò a Roma, dove si era recato alla ricerca di manoscritti, iscrizioni, monete. Di questo materiale, di dubbia autenticità, corredò la sua opera per suffragare le sue indimostrabili imposture. In tal modo il D. dotò Catania e la vicina Acireale, dove testimonianze indirette lo fanno supporre del pari operoso, di un monumentale quanto improbabile patrimonio di leggende, invano confortate da infedele erudizione.
L'opera in cui il D. prodigò la sua immane fatica di immaginazione e di pedanteria, l'Istoria delle cose insigni e famosi successi di Catania, divisa in due ponderosi volumi, non è stata mai pubblicata e oggi si conserva manoscritta (ma non autografa) nelle Biblioteche riunite civica e A. Ursino Recupero di Catania (Civ. Mss. B 30/31), dopo essere rimasta fino al secolo scorso separata tra due diverse collezioni. Il D. riuscì a sistemare solo il primo volume che reca la data 1621; mentre il secondo fu riordinato dall'abate cassinese Valeriano Di Franchi nel 1633, dopo la morte dell'autore.
Evidenti sono le finalità municipalistiche dell'Istoria, che il D. aveva concepito come risposta catanese alle pretese delle altre due grandi città della Sicilia, Messina e Palermo, di affermare la loro egemonia politica; ed in effetti il lavoro è dedicato al Senato catanese quasi a fornire un sostegno alle sue rivendicazioni mediante l'attestazione delle benemerenze passate. Il D. ha palesemente due obbiettivi: dimostrare che Catania è la "città prima e principale della Sicilia", "come di moltissimi autori posti nell'istoria si coglie"; conseguire, conformemente agli indirizzi che si affermavano nelle altre maggiori città isolane, il titolo di primo storiografo locale. Nel perseguire il suo scopo egli aveva, in effetti, pochi predecessori; perciò più meritevole doveva apparirgli la sua impresa, per la quale chiedeva continuamente una conferma nelle innumerevoli citazioni.
Il D. divise l'Istoria in una Cataneide antica e in una Cataneide moderna, corrispondenti ai due volumi dell'opera. Nel primo, diviso in tre libri, discorre della fondazione di Catania, della sua "origine e antichità, di molti popoli, città e luoghi a lei soggetti, da lei originati e fondati e di molti Reggi, Principi, huomini famosi ed eroi". Il D. sposta l'origine della città nella più remota antichità, sostenendo che Catania è "stata edificata innanzi Cartagine, Athene, Troia, Roma ed altre città antichissime e poco dopo l'universal diluvio, secondo l'opinione più probabile di autori gravi"; e proprio Cam cita come fondatore di Catania, per affermare una priorità che risultava così insuperabile. Nel secondo, comprendente quattordici capitoli, mostra che una non meno prestigiosa antichità può vantare la Chiesa di Catania, fondata da s. Berillo discepolo di s. Pietro; ed in questo modo essa poteva rivendicare un onore che nell'età della Controriforma non doveva certo essere considerato secondario.
L'Istoria è animata da un unico sentimento: illustrare le credenziali gloriose della città; e a tal scopo il D., che pure accampava pretese di veridicità e definiva invidiosi gli increduli, non arretra davanti alla mistificazione più grossolana, offrendo tutto un campionario di fonti inventate e di documenti apocrifi. Il meraviglioso prevale sulla testimonianza; ed anche quando questa è allegata, è evidente che viene desunta da autori non degni di fede e utilizzata in contesti-impropri. Gli auctores, su cuisi fonda la malcerta storiografia del D., sono non di rado poeti, favolisti o mitografi, per cui alla fine Cerere e Galatea, i Ciclopi e i Lestrigoni risultano figure perfettamente veridiche, a cui si attribuiscono biografie e avventure con tutto il dispiegamento di opinioni controverse e di fervide discussioni etimologiche.
Oltre ad essere inattendibile sul piano documentario, l'Istoria manca pure di un passabile impianto metodologico. I due volumi appaiono come dilatazioni delle vicende delle due fondazioni (della città e della sua Chiesa); e tutti gli argomenti si diramano pretestuosamente da questi eventi per convalidare la gloria di quegli esordi fortunati. Nel primo volume, dopo aver descritto il sito, i primi abitanti e le gesta di Catania, il D. interrompe la narrazione, per così dire, storico-antropologica al secondo libro e traccia nel successivo la topografia delle vestigia della città antica, corredandola di numerose illustrazioni. Anche tale descrizione è però infirmata dall'enfasi patriottica, sicché queste pagine che avrebbero potuto rivelare agli archeologi l'assetto di una città che poi sarebbe stata sconvolta da terremoti ed eruzioni, risultano irrimediabilmente manipolate. Ma il D. non volle fare le cose a metà. E nel cap. XV (conclusivo del libro e del volume), inserì il falso più clamoroso di tutta l'opera, quello destinato a dargli un'equivoca notorietà, e cioè la narrazione della guerra tra Catanesi e Libici, che sarebbe avvenuta nel 2400 a. C. e durante la quale i primi si sarebbero appropriati degli elefanti nemici, conservando poi memoria dell'episodio nello stemma del Comune. Stessa assenza di uno schema storico-cronologico si manifesta anche nel secondo libro, riservato alla "storia sacra"; in esso le vicende della Chiesa catanese dalle sue origini fino all'età presente sono ripercorse con intenti ora agiografici (celebrazione dei suoi santi, dal fondatore Berillo ai protomartiri Agata e Euplio), ora adulatori (esaltazione di monasteri o Ordini religiosi); e solo qualche accenno ad avvenimenti o personaggi più recenti rende non inutile la lettura.
L'Istoria è il bizzarro prodotto di una storiografia di provincia, tutta accesa da una verve epico-celebrativa. Essa può quasi apparire come l'informe materiale preparatorio di qualche poema da recitare in accademia; e tuttavia poté affrontare impunemente il collaudo di lettori disarmati sul piano filologico, che non distinguevano le notizie vere dalle fandonie. Così, per campanilismo e per ignoranza, si prestò fede alle innumerevoli simulazioni del D., che sorregge le sue più deliranti elucubrazioni con l'escussione di mirabolanti reperti: dalle Epistole del greco Diodoro Siculo che egli avrebbe tradotto in italiano dalla versione latina del cardinale Bessarione, al trattato Delle cose ammirabili di Sicilia dell'inesistente (ma onomasticamente plausibile) umanista messinese Pietro Biondo, a tutta una pletora di opere e di autori immaginari, esibiti con fantasiosa improntitudine e resi credibili dalle assonanze nominali.
Anche sul piano iconografico e topografico il D., che è cultore di "anticaglie" e ostenta competenze di numismatica e archeologia, si rivela inattendibile; e questo sia quando ricostruisce la planimetria dei monumenti cittadini e disegna statue o edifici classici ricorrendo ad elementi ornamentali tipicamente barocchi, sia quando favoleggia, come ha mostrato V. Casagrandi Orsini (O. D. e il monumento...) dirade e porti naturali, di cui la natura parziale e benevola avrebbe dotato Catania.
Il libro del D. obbedisce alla concezione seicentesca della storia come "scena e teatro" e quindi come luogo delle grandi gesta, cui si confà l'eloquenza e un tono costantemente eccitato. Questo prodotto del secolo di don Ferrante, questa ipertrofica e disarticolata babele, che vuole solo accreditare Catania di una faustissima origine e di solidissima pietà cristiana, ebbe, oltre che creduli lettori, anche degli acclamanti continuatori. Tra questi spiccò nello stesso secolo P. Carrera, che ai falsi solo annunciati dal D. fece seguire, come nel caso delle Epistole diodoree (riportate nelle sue Delle memorie..., I, pp. 457-513), un testo confezionato per l'occasione.
Biasimata e smascherata dalla critica ottocentesca di stampo positivista, che si sdegnò per i suoi arbitri; poco reputata dalla letteratura archeologica (fino a B. Pace), l'Istoria ha conosciuto solo lettori poco benigni e certo non disposti a sobbarcarsi l'onere di una edizione a stampa che al Sabbadini (L'Università…, p. 4) appariva del tutto inopportuna.
Poco rimane delle altre opere letterarie del D., a cui il Mongitore (Bibliotheca Sicula…, II, p. 108) attribuisce tra l'altro la composizione di Poemata heroica e di un Chronicon universale. Sipossono ancora leggere nove canzoni siciliane contenute nella raccolta Le Muse siciliane, a cura di G. Galeano (pseudonimo di P. G. Sanclemente), Palermo 1645, I, pp. 280-84 (due sono riportate nel volume Nuova scelta di rime siciliane, a cura di G. M. Bentivenga, Palermo 1770, p. 187).
Nel metro (l'ottava siciliana), nella scelta del tema (l'amore) e nell'uso del dialetto, queste liriche si ricollegano all'esperienza di A. Veneziano e degli altri rimatori siciliani del tempo. Permangono infatti in questi versi gli echi e le cadenze del Canzoniere petrarchesco fino alle più flagranti imitazioni ("Tal chi fattu sù favula li genti"); ma il tono ha un respiro popolaresco ed ora assume movenze gnomiche ("Pocu simenza produci gran fruttu"), ora attinge dal repertorio locale la freschezza di certe ouvertures ("Donna senza di tia non si fa jornu"), che rimandano a stagioni letterarie più lontane.
Morì prima del 1633, data di stesura della seconda parte dell'Istoria, come si evince dall'introduzione del Di Franchi il quale avrebbe sistemato e ritoccato l'opera del D., "non avendo lui potuto finirla".
Fonti e Bibl.: P. Carrera, Delle memorie histor. della città di Catania, Catania 1639, passim; G. B. De Grossis, Catanense decachordum sive Novissima sacrae Catanensis notitia, Catanae 1642, II, p. 152;R. Pirro, Catanensis Ecclesiae notitia prima, Panormi 1644, p. 95; F.Mugnos, Teatro genealogico delle famiglie nobili titolate feudatarie e antiche nobili del fidelissimo Regno di Sicilia viventi ed estinte, Palermo 1647, II, p. 91; G. B. Guarneri, Le zolle histor. catanee, Catania 1651, passim; V. Privitera, Annuario catanese, Catania 1690, p. 227; A.Mongitore, Bibliotheca Sicula sive De scriptoribus Siculis, Panormi 1714, II, pp. 107 s.; G. Gualtieri, Inscriptiones Catanenses, in Thesaurus antiquitatum et histor. nobilissimarum insidarum Siciliae…,Lugduni Batavorum 1723, VI, col. 224; V. Amico, Catania illustrata, Catanae 1746, II, pp. 209, 240; F. Ferrara, Storia di Catania sino alla fine del sec. XVIII, Catania 1829, pp. V s.; M. Musumeci, Opere archeol. e artistiche, Catania 1845, I, p. 15; A. Narbone, Bibliografia sicola sistematica, Palermo 1850, I, p. 196; V. Cordaro Clarenza, Osservaz. sopra la storia di Catania, Catania 1855, III, pp. 41, 24; E. Reina, Novello onore ai dotti e agli antichi catanesi, Catania 1861, p. 27; G. M. Mira, Bibliografia siciliana, Palermo 1875, I, p. 47; P. Castorina, O. D. cronista della citta di Catania, in Il Bibliofilo, XI (1890), 8-9, pp. 123 ss.; R. Sabbadini L'Università di Catania nel secolo XV, in Storia documentata della R. Università di Catania, Catania 1898, pp. 4, 6; V. Casagrandi Orsini, O. D. e il monumento della Licatia, in Catalecta di storia antica, Catania 1898, pp. 125-36; Id., I primi due storiografi di Catania, O. D. …,in Arch. stor. per la Sicilia orient., V (1908), pp. 303-14; C. Naselli, Letter. e scienza nel convento benedettino, ibid., n. s., V (1929), pp. 268 ss.; B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, Milano-Roma 1958, I, p. 21; S. Nigro, P. Carrera, in Diz. biogr. degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 738-41.