Paideia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con il termine paideia si indica il processo educativo dei giovani nell’antica Grecia, inteso come trasmissione di quei valori fondamentali alla formazione di cittadini adulti e consapevoli ad opera di insegnanti privati pagati dalla città. Tradizionalmente gli insegnamenti comprendono la capacità di leggere, scrivere e fare di conto, l’abilità ginnica e la musica. Nel tempo, con i sofisti, con la scuola platonica e quella aristotelica e le altre scuole filosofiche, a queste discipline tradizionali viene affiancato lo studio della filosofia, della retorica e della dialettica, intese come discipline utili alla partecipazione del cittadino alla vita pubblica. L’introduzione di questi nuovi ambiti di studio porterà poi, in epoca medievale, all’articolazione dell’educazione nelle sette arti liberali.
Il termine greco paideia, tradotto abitualmente con “educazione”, è formato a partire dal termine pais, bambino, e indica il processo, guidato dalla famiglia, da insegnanti e dalla società nel suo complesso, attraverso il quale il bambino acquisisce via via le capacità e i valori che organizzeranno la sua vita adulta. Esiste un altro termine formato a partire da pais ed è paidià, gioco: la paideia è il processo che conduce dal mondo del gioco, proprio dell’infanzia, a quello delle attività serie, che nell’orizzonte delle città greche è costituito in primo luogo dalle attività politiche e militari, proprie del cittadino.
Nell’Odissea (I 296) la dea Atena invita il giovane Telemaco, figlio di Odisseo, a lasciare i giochi da bambino, non più consoni alla sua età. I poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, messi in forma scritta e recitati, attraverso le rappresentazioni delle azioni dei loro eroi, forniscono i modelli di questa formazione. Ancora Platone avrebbe detto che Omero “aveva educato (pepaideuken) l’Ellade” (Repubblica X 606 e). Questa educazione tradizionale consisteva nel saper combattere e nel saper parlare in pubblico ai propri pari, ma anche nel saper suonare la lira. Funzione rilevante nella preparazione all’addestramento militare svolgono gli esercizi ginnici, praticati appunto a corpo nudo (gymnòs) e attività che noi denominiamo sportive e che includono le gare che avrebbero caratterizzato i giochi di Olimpia. Anche la caccia o l’equitazione sono funzionali a tale scopo. Tutte queste attività rafforzano lo sviluppo di uno spirito competitivo, inteso a raggiungere l’eccellenza nelle varie prestazioni per godere dell’approvazione pubblica. Non in tutte le città, però, il peso attribuito alla componente guerriera dell’educazione sarebbe stato altrettanto rilevante quanto lo era, per esempio, in una città come Sparta. Già il poeta filosofo Senofane protesta contro il peso eccessivo dato ad attività ginniche e agonistiche rispetto alla musica, termine che include non soltanto la musica in senso stretto, ma anche la poesia e in generale la formazione intellettuale e culturale.
Ad Atene quest’ultima componente avrebbe assunto rilevanza centrale. Non esisteva però in Atene un’educazione pubblica, gestita direttamente dalla città, con istituzioni quali scuole, insegnanti nominati dalla città, esami e conferimento di titoli con valore pubblico. La formazione dei giovani è affidata in prima istanza all’iniziativa delle famiglie e naturalmente solo le più abbienti sono in grado di inviare i propri figli maschi a scuola da maestri, che insegnano a leggere e scrivere e fare calcoli elementari. È poi la città stessa con le sue leggi, e i valori che esse veicolano, a fornire l’ultimo contributo alla formazione dei futuri cittadini, confermandosi nel suo complesso come un grande apparato educativo.
Una svolta decisiva nella costruzione di una paideia dotata di contenuti intellettuali più complessi è impressa, nella seconda metà del V secolo a.C., da quelli che Platone avrebbe qualificato con l’appellativo comune di “sofisti”, da lui usato in senso svalutativo. In realtà questo termine designa semplicemente personaggi, che professano di essere in grado di insegnare a pagamento forme di sapere, di sophia. Essi sono originari di varie città del mondo greco e si spostano da una città all’altra, come non di rado facevano anche i medici o altri artigiani, per trasmettere le loro conoscenze. Talvolta, come nel caso di Ippia di Elide si tratta di un sapere enciclopedico, che include anche conoscenze matematiche e astronomiche, nonché informazioni storiche sulle antiche tradizioni delle città.
Ma soprattutto il nucleo dell’insegnamento sofistico consiste nell’insegnare a conoscere le proprietà del linguaggio e dei vari tipi di discorso – dall’esortazione alle molteplici forme di argomentazione e alla capacità di rispondere alle domande – e ad usare tali conoscenze allo scopo di convincere gli ascolatori. Per raggiungere questo obiettivo bisogna saper tenere conto anche delle circostanze in cui i discorsi vengono pronunciati e delle caratteristiche emotive e intellettuali di ciascun tipo di pubblico cui i discorsi sono indirizzati, soprattutto in contesti giudiziari o nelle assemblee e riunioni politiche. L’abilità nel parlare e discutere riceve le denominazioni di retorica e dialettica. Questo è il nocciolo fondamentale della nuova paideia sofistica, fondata sull’idea nuova che essa non riguarda solo la fanciullezza, ma deve estendersi anche all’adolescenza sino alle soglie dell’età adulta. Emerge in questo contesto la distinzione fra apprendimento a scopo professionale, per esercitare a propria volta un certo sapere tecnico, come la medicina o la retorica come arte di persuadere, e apprendimento a scopo di paideia, come ingrediente della propria formazione “culturale” e strumento per affermarsi negli ambiti in cui si prendono decisioni importanti per la vita cittadina. Non a caso, in alcuni dialoghi, Platone rappresenta sofisti quali Protagora di Abdera, che si autoproclama in grado di “educare (paideuein) gli uomini”, e Gorgia di Leontini come capaci di attrarre ad Atene soprattutto i giovani appartenenti a ceti abbienti e avidi di apprendere queste tecniche. Per i loro insegnamenti i sofisti riscuotono larghi compensi, segno tangibile che essi rispondono a una forte richiesta.
Non a caso Platone equipara i sofisti a venditori di merci al mercato, i quali sono soliti magnificare la bontà dei propri prodotti messi in vendita, a prescindere dalla loro effettiva qualità. Naturalmente i cittadini, soprattutto delle generazioni più vecchie, ancorate ai valori tradizionali, non potevano non guardare con sospetto al potenziale eversivo rappresentato dalla nuova paideia sofistica. La commedia di Aristofane intitolata Le Nuvole rappresenta icasticamente questo punto di vista, mettendo in scena il giovane Fidippide che va a scuola da Socrate. I frutti che egli trae da questo insegnamento sono il rifiuto dell’autorità del padre, che viene addirittura picchiato, e la dilapidazione dei suoi beni. A questa nuova paideia, che ha il proprio centro nell’agorà come luogo di chiacchiere e discussioni a vuoto, dove s’impara solo a coltivare la lingua, Aristofane contrappone l’antica paideia ginnico-musicale, che rendeva i ragazzi pudichi, robusti e fedeli alle tradizioni e aveva formato gli uomini che avevano combattuto a Maratona contro i Persiani.
Nella rappresentazione di Aristofane la paideia socratica non viene distinta da quella dei sofisti e dei meteorologi. Nel processo che avrebbe condannato Socrate a morte, uno dei capi di imputazione era appunto quello di corrompere i giovani. Grande preoccupazione di Platone sarà invece dimostrare quanto radicale sia la distanza che oppone l’attività educativa di Socrate all’insegnamento dei sofisti, da lui presentati come i veri corruttori dei giovani.
Nei suoi dialoghi Platone ritrae un Socrate che mira all’educazione come formazione di sé. A tale scopo risulta essenziale liberare le menti da false credenze ed errori, che possono attanagliare uomini di qualsiasi età, non solo i giovani. A questo processo di liberazione, paragonato ad una sorta di purga o purificazione, che elimina il peggio per lasciare il meglio, Socrate provvede mediante la confutazione: questa è la condizione preliminare per una vera paideia. Essa consiste nel domandare ai propri interlocutori che cosa intendono quando usano termini come virtù o giustizia o coraggio o sapere e nel sottoporre ad esame le loro risposte, mostrandone le inconsistenze o le vere e proprie contraddizioni rispetto ad altri assunti fatti propri da questi interlocutori. In tal modo Socrate mostra come essi fondino la propria vita su insiemi incoerenti di credenze e mira a far nascere in essi il desiderio di conoscere ciò che non sanno, ossia a diventare filosofi.
A differenza di Socrate, però, che discute soprattutto coi giovani in palestre e ginnasi o in case private, ma anche con sofisti e intellettuali, stranieri e cittadini, Platone, memore del destino da lui subito, fonda una scuola in Atene, l’Accademia. Nelle sue opere politiche, la Repubblica e le Leggi, egli auspica per i futuri cittadini dei modelli di città da lui escogitati, l’istituzione di una educazione pubblica regolamentata, non abbandonata soltanto all’iniziativa privata delle famiglie. Ma nella situazione storica in cui si trova a vivere, dominata da forme di vita politica che egli giudica negative e che di fatto corrompono i giovani, soprattutto i migliori, quelli forniti di attitudini filosofiche, Platone ritiene ciò impossibile. In questo senso la scuola filosofica, un’istituzione privata, diventa il luogo della paideia filosofica, inevitabilmente destinata solo a pochi. Essa è concepita da Platone come formazione e insieme progressiva messa in luce dei caratteri e delle attitudini di coloro che l’affrontano: di qui il suo carattere progressivamente selettivo, per cui soltanto pochi si mostrano in grado di accedere ai vertici della filosofia. Da Platone in poi i filosofi antichi nutrono sovente l’ambizione d’inserire anche la filosofia nel processo della paideia, anzi di considerarla il culmine di essa, superiore non solo alle attività ginniche e sportive, ma anche alla poesia e alla musica e, non di rado, alla stessa attività politica. Nel far ciò essi recuperano alcuni moduli dell’educazione tradizionale.
Da qui la concezione della scuola filosofica come una comunità composta esclusivamente o quasi esclusivamente di maschi, improntata sulla falsariga della relazione omosessuale tra adulti più saggi e adolescenti desiderosi di apprendere. In questo quadro l’eros viene ad assumere una funzione educativa, capace di condurre alla filosofia come amore del sapere e di generare buoni discorsi. Allo stesso modo vengono incorporati aspetti propri della morale militare, che addestra a resistere ai nemici. Nel caso dell’addestramento filosofico si tratta d’imparare a resistere ai desideri, alle passioni e ai dolori: questo aspetto sarebbe stato particolarmente accentuato nella scuola stoica, per cui è diventata proverbiale l’espressione: “sopportare stoicamente il dolore”.
La paideia filosofica non rompe quindi integralmente con quella tradizionale, anzi ne assorbe aspetti importanti, ma soltanto ad un primo livello. Nella Repubblica Platone descrive un processo educativo mirante a formare le uniche figure adatte a governare in modo giusto una città: queste figure sono individuate nei filosofi, in quanto questi sono gli unici a non desiderare e contendersi il potere. La ragione è che essi hanno un oggetto di desiderio superiore al potere: si tratta del sapere e della ricerca della verità. Se la descrizione del curriculum educativo nella Repubblica presenta qualche addentellato con la prassi educativa praticata nella scuola di Platone, si può assumere che in essa un ruolo importante fosse svolto da un lungo apprendimento delle discipline matematiche, preliminare all’addestramento filosofico vero e proprio, consistente nella dialettica. Gli stessi contenuti delle discipline matematiche sono considerati da Platone essenziali per accedere a una delle sue più importanti formulazioni, la dottrina delle idee. Ma al di sopra delle scienze matematiche Platone colloca la dialettica come strumento capace di mettere in discussione non soltanto le credenze comuni, ma anche i principi stessi delle matematiche, per ancorarli ad una base più solida. Egli concepisce infatti l’insegnamento non come semplice trasmissione di contenuti di sapere, come un versare qualcosa da un recipiente pieno a un recipiente vuoto o un conferire la vista ai ciechi; si tratta, invece, di un processo volto a far emergere da ciascuno il sapere di cui è inconsciamente gravido attraverso un processo di progressiva rimemorazione di esso.
Ad Atene l’Accademia di Platone si trova a dover competere con la scuola di retorica fondata da Isocrate, che insegna, anche sulla base di modelli scritti da lui stesso e messi in mano agli allievi, a comporre discorsi giudiziari e politici, ma anche discorsi di propaganda, autopropaganda o autodifesa o di elogio o accusa di altri. Diventa quindi necessario pervenire alla conoscenza di quali siano i luoghi comuni o repertori tematici con i quali costruire i discorsi, le parti del discorso e in quale ordine occorra disporle per ottenere effetti persuasivi sull’uditorio. La finalità dell’insegnamento di Isocrate è etico-politica, il che ne spiega il successo, nonostante la sua fosse – a differenza dell’Accademia platonica – una scuola a pagamento. La ragione è che essa fornisce agli allievi gli strumenti necessari per esercitare con successo la vita politica e giudiziaria, in modo da prevalere nei dibattiti, grazie a questo equipaggiamento retorico, e imporre opinioni utili alla città, per esempio esortando le città greche ad unirsi contro la minaccia persiana, in una prospettiva panellenica. Egli ravvisa infatti nella paideia, fondata sul logos, sulla parola e sul discorso persuasivo, che distingue l’uomo dagli animali, il tratto che accomuna i Greci, soprattutto gli Ateniesi, e li differenzia dai barbari. Isocrate usa anch’egli il termine filosofia per caratterizzare il proprio insegnamento, ma è chiaro che qui filosofia ha un significato ben diverso da quello attribuitogli da Platone.
Secondo Isocrate l’episteme, la scienza, è qualcosa che l’uomo non può raggiungere: solo la doxa, l’opinione, gli è accessibile. In questa prospettiva può essere utile anche lo studio delle matematiche e della stessa dialettica filosofica come arte dell’argomentare, che non sono dunque una pura chiacchiera. Ma la loro utilità si riduce a una sorta di ginnastica mentale, che addestra ad affrontare questioni difficili, attrezza il pensiero di velocità e capacità di comprensione. Si tratta di una gymnasia puramente formale e quindi al suo apprendimento bisogna dedicare solo un periodo limitato di tempo, senza indugiare troppo sui contenuti di queste discipline. Probabilmente era questa l’opinione dominante in Atene, se anche un altro discepolo di Socrate, Senofonte, attribuisce allo stesso Socrate la tesi della necessità di porre limiti all’apprendimento delle matematiche, dell’astronomia e della medicina: è sufficiente apprendere nozioni elementari, quanto può servire a misurare le terre per acquisti o vendite, a distinguere i giorni, i mesi e le stagioni, a fare calcoli elementari e a conoscere ciò che contribuisce alla salute. Anche in Senofonte si afferma una concezione puramente strumentale e utilitaria di tali studi.
La figura che Senofonte ha di mira è quella dell’uomo pepaideumenos, l’uomo che ha ricevuto una paideia, noi diremmo l’uomo “colto”. Anche per la paideia filosofica vale infatti la distinzione già posta, tra gli altri, da Protagora, tra una destinazione volta a formare altri filosofi di professione, capaci a loro volta di insegnare, oppure semplicemente a far acquisire una cultura filosofica generale.
Questa stessa distinzione vale per Isocrate: anche nel suo caso si tratta di formare o retori di professione o semplicemente uomini colti, capaci di usare adeguatamente la parola. Anche Aristotele riprenderà questa distinzione. La questione è: chi può giudicare adeguatamente il sapere degli specialisti, quanto essi dicono e fanno nei loro rispettivi settori di competenza? Soltanto altri specialisti o anche i profani? Ovviamente uno specialista, per esempio un medico, sarà il giudice più adeguato del sapere dei suoi colleghi.
Ma se si ammette che anche i profani possono formulare un giudizio sugli specialisti, si pone la questione: sino a qual punto essi debbono apprendere le discipline ormai specializzate e dotate di un alto grado di complessità, ossia sino a qual punto i contenuti di queste, inclusa la filosofia, devono entrare a far parte della loro paideia? Una risposta tradizionale ravvisa la soluzione nell’acquisizione di un sapere enciclopedico, di quella che era chiamata polymathia, letteralmente l’“aver appreso molte cose”. Caso emblematico, ma anche caso limite di ciò era proverbialmente il sofista Ippia di Elide, che vantava la propria competenza non soltanto nelle conoscenze matematiche o antiquarie, ma anche nel sapersi foggiare da sé vestiti e calzature. Il rischio di questa pretesa è di diventare come Margite, l’eroe di un perduto poema attribuito ad Omero, di sapere tutto, ma di sapere tutto male. Sia Platone sia Aristotele sono infatti convinti che ciascun individuo sia in grado di svolgere bene soltanto una tecnica, ossia di essere competente in un solo ambito ben delimitato di sapere.
Tuttavia per Platone anche un non specialista può essere un buon giudice, ma a condizione che disponga di un sapere superiore a quello dello specialista. Tale è il sapere del dialettico rispetto a quello dei matematici, perché il filosofo capace di praticare la dialettica sa mettere in discussione anche i principi a partire dai quali i matematici costruiscono le loro deduzioni. Ma tale è anche il sapere di chi sa usare i risultati prodotti dalle tecniche e dalle scienze che li producono. Costui si trova nella posizione dell’architekton, letteralmente “colui che dirige i lavori degli esecutori”. Anche Aristotele condivide queste tesi, ma a suo avviso in ogni ambito di sapere ci sono due competenze, “ad una conviene il nome di scienza dell’oggetto, all’altra quello di una certa paideia”, come dice in uno scritto intitolato Sulle parti degli animali.
Il tecnico può giudicare appropriatamente solo sul suo ambito di competenza, non su altri ambiti, mentre al pepaideumenos, proprio perché ha acquisito una cultura generale riguardante “per così dire, tutte le technai”, appartiene la capacità di giudicare la correttezza di quanto i vari specialisti espongono, oralmente o per iscritto, a proposito del loro sapere. Si tratta di una capacità “critica”, consistente nel krinein, nel giudicare e discriminare quanto è detto bene e quanto no. Ma ciò non riguarda tanto i contenuti dei discorsi, perché se così fosse per giudicare occorrerebbe possedere un sapere enciclopedico, universale, irraggiungibile per chiunque. Si tratta invece di giudicare il metodo e le modalità con le quali i vari specialisti costruiscono le proprie argomentazioni o dimostrazioni e quindi la struttura logica formale dei loro discorsi. In questo senso il pepaideumenos è avvicinabile al dialettico, che non costruisce scientificamente delle dimostrazioni a partire da premesse vere, ma sa partire da premesse – che possono essere vere o anche soltanto comunemente ammesse da tutti o dai più o dai più competenti – per pervenire correttamente a conclusioni. Si può assumere che Aristotele con l’insegnamento della filosofia nella sua scuola, il Liceo, e con i suoi scritti mirasse a formare non soltanto altri filosofi in senso professionale, ma anche uomini pepaideumenoi in questo senso. Si può ricordare che ancora in età imperiale, nel II secolo, il medico Galeno, dotato anche di notevole preparazione filosofica, si esibirà davanti a un pubblico colto, non di soli specialisti, non soltanto con dissezioni anatomiche di animali, ma anche con argomentazioni capaci di avere la meglio sui medici con i quali è in competizione e di convincere tale uditorio.
Anche Aristotele è fautore di un’educazione non solo privata, ma pubblica, impartita dalla città, avente come nucleo anche la musica e non necessariamente la filosofia, impartita invece nella scuola filosofica. Non si deve dimenticare che Aristotele stesso ad Atene non era cittadino, ma uno straniero. Secondo Aristotele per diventare buon cittadino non è necessario diventare un filosofo in senso professionale, come del resto per diventare filosofo non è necessario essere cittadino: è il suo stesso caso e sarebbe stato il caso, anche nella successiva età ellenistica, di molti filosofi, presenti non solo nell’Accademia e nel Liceo, ma anche nelle altre due scuole che ad Atene si sarebbero affiancate ad esse, quella epicurea e quella stoica. Per tutti i filosofi la vita filosofica continua ad essere la forma più alta di attività e rappresenta dunque il culmine della paideia: diventare uomini nel senso pieno della parola non significa più semplicemente diventare buoni cittadini. Punta estrema in questa direzione si mostrano i cinici, che conducono una vita itinerante, sradicati da ogni città e vita politica e ostili a tutte le forme della paideia tradizionale e a quella delle stesse scuole filosofiche.
Non a caso è presso i cinici che il bambino diventa espressione e, insieme, modello di bontà, innocenza, spontaneità, vicinanza alla natura, in quanto non ancora corrotto dalla società e dai bisogni innaturali da essa indotti. Per gli altri filosofi, invece, rappresenta uno stadio di incompiutezza e imperfezione. Per Aristotele il bambino è contiguo all’animalità: non ha statura eretta, ma ha la struttura di un nano, con una sproporzione tra le parti superiori, più sviluppate, e quelle inferiori, che lo obbliga a una locomozione a quattro zampe, come quella dei quadrupedi. La statura eretta è, invece, legata allo sviluppo del cervello e la capacità di agire richiede uso del ragionamento e abilità di deliberare, mentre i piccoli dormono per la maggior parte del tempo. “Nessuno” – dice Aristotele – “sceglierebbe di vivere tutta la vita con la ragione di un bambino”. La paideia è il processo che s’innesta sulle potenzialità presenti nel bambino, ma deve portare oltre la condizione propria dell’infanzia, oltre l’ambito della paidià, del gioco.
Tratto specifico delle scuole filosofiche antiche è però il fatto che l’insegnamento filosofico non è limitato all’età adolescenziale, ma è esteso anche all’età adulta. Epicuro afferma che si può cominciare a filosofare anche da vecchi. Al tempo stesso la scuola filosofica può anche essere il luogo in cui porsi al riparo dai pericoli della vita politica (come dietro un muretto durante la tempesta) e dalla cattiva educazione impartita dalle città e dai sofisti, che ne ripropongono i valori dominanti. Non a caso in Atene le scuole filosofiche anche fisicamente hanno sedi per lo più lontane dal centro della città. È noto l’invito di Epicuro ai suoi discepoli: vivi nascostamente. Il filosofo Stilpone, dopo la presa di Megara, al conquistatore Demetrio Poliorcete, uno dei successori di Alessandro, che gli chiede che cosa vuole portare con sé, risponde di non aver perso nulla, perché nessuno gli ha tolto la sua paideia, dato che egli conserva logos e episteme, ragione e scienza.
In età ellenistica, tuttavia, progressivamente le città greche, non solo Atene, accolgono l’insegnamento filosofico come un ingrediente della paideia dei giovani, prima che essi acquisiscano in età adulta lo stato di cittadini. Segno di questo riconoscimento pubblico della portata pedagogica della filosofia è in Atene un decreto in onore del fondatore della scuola stoica, Zenone – che pure non era cittadino ateniese – per aver ben educato i giovani, con l’annessa decisione di costruirgli a spese pubbliche un sepolcro nel cimitero cittadino. Ma ciò è anche segno dell’abbandono del sogno platonico dei filosofi al governo delle città. Atene, come altre città greche, accoglie ora la filosofia non come modello più alto di vita, quanto come propedeutica alla formazione del tipo di uomo che continua a incarnarsi nel cittadino eccellente. La linea vincente risulta piuttosto quella di Isocrate.
E non a caso a partire dall’età ellenistica si assiste ad un avvicinamento tra filosofia e retorica, che non è più vista come un’alternativa radicale alla filosofia, ma un complemento di essa. Nel Mediterraneo la presenza di ginnasi e di scuole diventa segno d’identità delle città greche. Nelle scuole “elementari” continua l’insegnamento tradizionale, consistente nell’imparare a leggere, scrivere e far di conto. Comincia anche a formularsi l’ideale della cosiddetta enkyklios paideia, da non confondere con le posteriori nozioni di “enciclopedia”. Essa verrà via via articolandosi nelle sette arti liberali, suddivise in seguito in trivio (grammatica, retorica, dialettica) e quadrivio (geometria, aritmetica, astronomia e teoria musicale). Interessante è che in essa retorica e dialettica risultano ormai tranquillamente affiancate. Ad epicurei, cinici e scettici questo ciclo di studi appare inutile, mentre per stoici e platonici e aristotelici l’enkyklios paideia può funzionare come formazione preparatoria alla filosofia vera e propria.
Il dominio di Roma non muta il quadro istituzionale della paideia filosofica, che continua ad avere un carattere prevalentemente privato. Solo sotto Marco Aurelio si sarebbe provveduto all’istituzione in Atene di quattro cattedre pubbliche stipendiate per l’insegnamento delle quattro principali correnti filosofiche: platonismo, aristotelismo, stoicismo ed epicureismo. Il ricchissimo Erode Attico, che era stato uno dei precettori dell’imperatore, viene incaricato di scegliere i primi titolari di tali cattedre. Ma l’esperimento non dovette durare a lungo. Nel 425 l’imperatore Teodosio avrebbe organizzato a Costantinopoli una sorta di università di stato, con un professore di filosofia, due di diritto, altri di retorica e grammatica per il latino e il greco. In questo quadro la filosofia occupa solo un piccolo posto e non può vantare alcuna esclusiva o superiorità. Anche a Roma tuttavia la filosofia era stata progressivamente riconosciuta come un ingrediente della formazione dei giovani delle famiglie elevate, continuando quindi ad essere destinata a pochi. Diventa consuetudine, come mostra il caso emblematico di Cicerone, completare la propria formazione con un viaggio in Grecia, soprattutto ad Atene, ma anche in altre città, come Rodi o Alessandria di Egitto, sedi di importanti scuole di filosofia e di retorica. La paideia trova il suo esito compiuto in quella che i latini chiamano humanitas, nel senso di una cultura che porta a perfezione le proprietà distintive dell’uomo, sia intellettuali, sia morali.
Ma il bilinguismo rimane per qualche secolo il contrassegno dei romani colti: nonostante i casi di Lucrezio, Cicerone e Seneca che scrivono di filosofia in latino, la lingua dominante di questa disciplina continua ad essere il greco. Una compiuta paideia filosofica non può fare a meno della conoscenza del greco. In momenti difficili della vita politica, come nel I secolo a Roma, la formazione filosofica può diventare strumento di consolazione e autodifesa contro le prevaricazioni e persecuzioni del potere imperiale, come mostra il caso emblematico di Seneca. Ma nelle scuole filosofiche si assiste progressivamente a una tecnicità crescente dell’insegnamento filosofico, con il riconoscimento della funzione propedeutica delle stesse discipline matematiche per l’acquisizione della filosofia, come nelle scuole neoplatoniche. Grazie a questo insegnamento sono sopravvissuti e giunti sino a noi alcuni dei testi matematici più importanti dell’antichità, come quelli di Archimede. In questi contesti le matematiche non sono soltanto una preparazione alla dialettica, com’era stato per Platone, ma un avviamento alla teologia.
La paideia filosofica viene sempre più assumendo i connotati di un itinerario religioso proiettato verso il ricongiungimento con l’Uno, il principio divino, sino a coincidere con esso in un atto di estasi. Si può trattare di una vera e propria conversione dalla vita comune ad una vita filosofica con sempre più crescente coloritura religiosa, che però non è in grado di competere con la ben più potente conversione operata dall’adesione alla nuova religione cristiana. Questa infatti non si rivolge soltanto a una élite ristretta, né a soli greci, ma a tutti. In questo nuovo quadro, dove il vero modello di vita è indicato da Cristo, la paideia filosofica o viene respinta, come nel caso di Tertulliano, quando chiede che cosa abbiano in comune Atene e Gerusalemme, oppure può essere accolta, ma soltanto attraverso drastiche selezioni, come propedeutica – appunto una propaideia – alla vita e alla dottrina cristiana, come in diversa maniera mostrano Padri greci della Chiesa, quali Clemente Alessandrino Origene e, nell’Occidente latino, Agostino.