Vedi Pakistan: squilibri etnici e tensioni religiose dell'anno: 2012 - 2013
Al momento della partition, nel 1947, il Pakistan era composto da due distinte aree geografiche, divise da circa 1700 km di territorio indiano: da una parte, un’ala orientale, sostanzialmente omogenea sotto il profilo etno-linguistico, con una struttura produttiva agricola incentrata sui piccoli appezzamenti, una tradizione di mobilitazione politica e una classe media urbana moderna; dall’altra, un’ala occidentale, composita sotto il profilo etno-linguistico, con livelli bassissimi di istruzione e partecipazione politica, una classe media urbana quasi inesistente e una struttura produttiva caratterizzata dalla coesistenza del latifondo e di un’economia di sussistenza, legata al nomadismo e a strutture tribali. Nelle istituzioni pakistane, inizialmente controllate dai Mohajir (gruppi urdofoni provenienti dall’India settentrionale), divenne via via dominante la presenza dei Panjabi – un’eredità, questa, delle politiche coloniali britanniche e dell’importanza economica del Punjab. Gli altri gruppi etnici, inclusi i Bengalesi (che costituivano l’etnia numericamente maggioritaria), vennero progressivamente emarginati nelle sedi decisionali e discriminati nell’allocazione delle risorse. La classe dirigente, restia a rinunciare ai propri privilegi e temendo che eventuali concessioni ai regionalismi facilitassero la disintegrazione dello stato, impose al paese una struttura centralizzata. Le rivendicazioni di Sindhi, Beluci e Pashtun rimasero inascoltate e in alcuni casi si inasprirono dinnanzi all’atteggiamento di chiusura delle autorità centrali. Le proteste bengalesi, che iniziarono a farsi sentire negli anni Cinquanta, sfociarono nel 1971 in una guerra civile, che si concluse nella secessione dell’ala orientale. Il ruolo giocato da Nuova Delhi a favore degli insorti alimentò la convinzione tra la classe dirigente pakistana che dietro i movimenti autonomisti e indipendentisti su base etnica ci fosse l’intenzione indiana di frammentare il paese. La perdita del Pakistan orientale, divenuto Bangladesh nel gennaio 1972, indusse Zulfiqar Ali Bhutto, allora primo ministro, e le forze armate, in cui l’elemento panjabi era preminente, a reprimere nel sangue, con il sostegno iraniano, anche la rivolta Beluci che divampò tra il 1973 e il 1977. Nei confronti dei Pashtun, invece, lo stato centrale continuò ad adottare quella politica di cooptazione e di concessioni all’autonomia locale che aveva già caratterizzato i colonizzatori britannici. Le migrazioni interne e il fenomeno dell’inurbamento negli anni Cinquanta-Ottanta, così come il flusso consistente di rifugiati afghani a partire dagli anni Settanta, hanno contribuito a complicare il quadro etnico del paese: rimescolando la composizione della popolazione urbana, in situazioni di diffusa povertà e alienazione da uno stato che è latitante sulle questioni di welfare, le migrazioni interne hanno alimentato scontri interetnici tra gruppi autoctoni preesistenti e nuovi arrivati. Per mettere a tacere le rivendicazioni etniche, la classe dirigente pakistana ha fatto ricorso alla comune identità religiosa, nella speranza che diventasse col tempo un fattore di aggregazione. Le rivendicazioni etniche sono state accusate di minare l’integrità del paese, facendo il gioco degli indiani, e di contraddire l’identità nazionale, fondata sulla religione islamica. L’Islam pakistano, tuttavia, è frammentato in associazioni, partiti e movimenti che esprimono interpretazioni talora divergenti. Il tentativo di trovare un’unica definizione di islam, evidente già nei dibattiti in seno all’Assemblea costituente, ha avuto l’effetto di mettere in luce queste differenze, esasperandole. Si sono così moltiplicati nel corso dei decenni gli episodi di violenza, volti a imporre la propria interpretazione. Le violenze hanno preso di mira non solo le minoranze religiose (cristiani e indù, che costituiscono circa il 3% della popolazione), ma anche gruppi che si considerano musulmani, ma che sono tuttavia ritenuti dalla maggioranza sunnita ‘eterodossi’ (gli sciiti, circa il 20% della popolazione) o ‘non musulmani’ (gli ahmadiyya, il 2,3%). Anche chi, tra giornalisti, docenti e attivisti, ha espresso un’interpretazione progressista o laica della religione è stato spesso oggetto di violenze, non di rado sancite da leggi che, come quelle sulla blasfemia, si prestano ad essere abusate e piegate a interessi che nulla hanno a che fare con la religione.