Pakistan
La terra dei puri
L’instabilità del Pakistan
di
L’opposizione vince le consultazioni indette per eleggere i membri dell’assemblea nazionale pachistana: 87 seggi vanno al Partito del popolo pachistano, di cui era leader Benazir Bhutto, 66 alla Lega musulmana del Pakistan dell’ex premier Nawaz Sharif. La Lega musulmana del Pakistan (Q), costituita nel 2002 dal presidente Pervez Musharraf, ottiene solo 37 deputati.
Aftab Khan Sherpao, ex ministro dell’Interno pachistano scampato a due attentati alla sua vita, non ha certamente mai letto Il Gattopardo. Eppure, a ridosso delle elezioni ‘democratiche’ che nel febbraio 2008 si sono tenute per la prima volta in Pakistan dopo molti anni, azzardava previsioni perfettamente in linea con il personaggio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: cambierà tutto, diceva, per non cambiare niente. E, nonostante le apparenze, aveva perfettamente ragione. Dopo una stagione di cambiamenti che sembravano epocali, difatti, nulla è sostanzialmente mutato all’interno di quello che nel settembre 2007 la Commissione sulle relazioni estere del Senato degli Stati Uniti ha definito il «paese più pericoloso del mondo», essenzialmente composto da «una significativa minoranza di jihadisti che possiede armi nucleari». Nello stesso rapporto, la Commissione ha accusato il presidente George W. Bush di non avere una vera strategia o «politica estera verso il Pakistan, ma soltanto verso il generale Pervez Musharraf», che dal 2001 in poi ha goduto di un trattamento di favore e di una sostanziale immunità da parte di Washington in cambio di un discusso sostegno alla guerra in Afghanistan e alla più generica lotta al terrorismo: terrorismo che in Pakistan, nonostante le presunte strategie messe in atto dal governo, ha subito una decisa impennata. Nel corso del 2007 l’integralismo islamico e le organizzazioni a esso collegate hanno infatti provocato una vera e propria strage: 3599 vittime, tra militari e civili, di attentati e attacchi suicidi, alle quali si sono aggiunti i 2000 morti dei primi otto mesi del 2008. L’estrema instabilità del paese discende direttamente, secondo gli analisti, dal doppio (e a volte anche triplo) gioco fatto da Islamabad a partire dal 2001. È ormai noto che il Pakistan in passato ha finanziato e sostenuto i Talebani, incoraggiando la loro ascesa al potere in Afghanistan, e che ancora oggi nessuno a Islamabad sarebbe felice di vedere un governo stabile e, per di più, filo-indiano insediato a Kabul. La presenza delle forze occidentali nell’area rappresenta in effetti una minaccia diretta al consolidamento del peso geopolitico del Pakistan e la fine del vecchio sogno del grande califfato islamico esteso fino al Medio Oriente, perseguito dall’Inter-Service Intelligence (ISI) e da tutti i governi passati. Islamabad avrebbe quindi soltanto finto di sostenere gli alleati in Afghanistan, prendendosi i milioni di dollari piovuti a vario titolo nel paese e mettendo in scena una rappresentazione di lotta al terrorismo molto di facciata ma, ai fini pratici, dagli effetti quasi nulli. Vale la pena di notare come, in particolare negli ultimi due anni, i media locali, grazie a opportune campagne, abbiano diffusamente parlato dell’arresto di una serie di capi di organizzazioni terroristiche, veri o presunti tali, e come, invece, nessuno apparentemente si ricordi più del mullah Omar che, secondo le ultime informazioni in possesso di Washington, si troverebbe tranquillamente a Quetta, nel Belucistan, sotto la protezione degli uomini dell’ISI. Nessuno ha fatto alcun tentativo per catturarlo, nonostante il Belucistan sia stato ampiamente e sanguinosamente bombardato a più riprese dalle truppe pachistane: l’obiettivo delle truppe governative erano però i ribelli separatisti e non il capo dei Talebani.
Quanto a Osama Bin Laden, stando a una dichiarazione del presidente Musharraf, potrebbe trovarsi a Bajaur che dal luglio 2008 è sotto l’assedio dell’esercito pachistano: assedio che ha provocato centinaia di morti, in gran parte civili, e 300.000 profughi. Ma del capo di Al Qaida nessuna traccia. Nel 2007, poi, i gruppi jihadisti del Waziristan e dintorni si sono riuniti sotto la bandiera unica del Tehrik Taliban-i-Pakistan con la guida di Baitullah Mehsud, allo scopo di «combattere le truppe di occupazione della NATO» in Afghanistan e hanno chiesto il ritiro immediato dell’esercito pachistano dalle regioni di frontiera, accusando il governo di genocidio visto che, dati alla mano, a fare le spese della ‘lotta al terrorismo’ sono stati fino a questo momento soprattutto i civili. Nella valle di Swat, dove per tutto l’anno sono infuriati gli scontri tra esercito e integralisti, come in Waziristan e nella Provincia della Frontiera di Nord-Ovest, si è per reazione instaurato un regime simile a quello dell’Afghanistan pre-Karzai, il quale nutre ulteriormente le fila dei guerriglieri che passano oltre confine. In realtà – e la cosa spesso sfugge a occhi occidentali – ormai da tempo in Pakistan è in corso una vera e propria guerra civile, frutto di anni di tentativi del governo di Islamabad di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, tanto che nell’esercito sarebbero cominciate ormai da tempo le diserzioni: le truppe sarebbero demoralizzate, stanche, demotivate. Soprattutto, i soldati non capiscono perché mai siano costretti a sparare contro i loro connazionali. La valle di Swat, un tempo paradiso turistico, è diventata (anche con la complicità dell’esercito regolare) la roccaforte del mullah Fazlullah, detto ‘Maulana Radio’ per il network di radio FM che ha messo in piedi per diffondere il verbo della jihad e trasmettere ordini alle truppe. Fino all’ottobre 2007 il mullah e i suoi sono stati lasciati liberi di agire e di trasformare la valle in un piccolo eden dell’integralismo islamico. La stessa cosa è accaduta d’altra parte con Baitullah Mehsud e gli integralisti del Waziristan, con i quali il presidente Musharraf aveva firmato un accordo, costato alla coalizione NATO in Afghanistan una delle stagioni di scontri più dure dal 2001, attirandogli le ire di Washington e della Gran Bretagna e le critiche dei generali della coalizione. I rapporti occidentali evidenziavano che i Talebani erano in possesso di uno stupefacente numero di armi e munizioni, nuove e modernissime, e avevano dichiarato esplicitamente di essere stati addestrati e sostenuti dall’ISI. Secondo Ajay Sahni, direttore della South Asia intelligence review e dell’Institute for conflict management di Delhi, «le gerarchie militari pachistane, attraverso l’ISI, sono state per anni la principale organizzazione terrorista dell’Asia meridionale. I Talebani non sono altro che uno strumento, dei burattini, la longa manus dell’ISI. Se l’Occidente non ne prenderà atto e non affronterà il problema, è destinato al fallimento in Afghanistan e a diventare sempre più vulnerabile all’interno dei propri territori».Le elezioni presidenziali
Nel frattempo, nei primi mesi del 2007, il generale Musharraf tocca i minimi storici di popolarità e non soltanto per questioni di politica estera. Il generale, infatti, in febbraio sospende da ogni incarico e fa arrestare, accusandolo di corruzione e di peculato, il giudice della Corte Supema Iftikhar Mohammed Chaudhry, un eroe di stampa e televisione per le sue campagne contro le violazioni dei diritti umani e lo strapotere della polizia e dei servizi segreti. Le immagini del giudice messo agli arresti domiciliari scatenano un’ondata di proteste nel paese: proteste di piazza, ma soprattutto di avvocati e giudici, in segno di solidarietà. Le manifestazioni a favore di Chaudhry si susseguono per mesi, culminando a maggio in un violento scontro tra dimostranti e polizia che, a Karachi, provoca 30 morti e un numero imprecisato di feriti. Infine, a luglio Musharraf è costretto a reintegrare il giudice nel suo incarico. Ma a turbare i sonni già agitati del presidente, si sono aggiunte in giugno le dimostrazioni e le proteste degli integralisti islamici, in particolare degli studenti della Lal Masjid, la Moschea rossa di Islamabad. Da mesi, costoro cercano di convincere i negozi di musica e di dischi a chiudere i battenti, attaccano le macchine guidate da donne picchiando le sciagurate automobiliste, distruggono cassette e CD, percuotono uomini e donne che indossano abiti occidentali. Con una variante non da poco, però, rispetto ai loro confratelli integralisti delle provincie di frontiera: portando, cioè, in prima linea le ragazze. Le più di 2000 studentesse della Jamia Hafsa, la madrasa femminile associata alla moschea, in febbraio, armate di bastoni e kalashnikov, impediscono la demolizione di una vecchia moschea. Poco tempo dopo sequestrano la tenutaria di una presunta casa di tolleranza e rapiscono, anche se per rilasciarle poco dopo, sei cinesi accusate di praticare ‘attività immorali’ nel loro salone di massaggi. A scuola, le ragazze avrebbero ricevuto un vero e proprio lavaggio del cervello e sarebbero state addestrate a compiere attentati suicidi e a servire da ‘scudi umani’ in caso di attacchi alla moschea. Le forze dell’ordine, in effetti, danno l’assalto alla moschea in giugno, sostenendo che al suo interno si trovano ribelli armati in compagnia di almeno un paio di comandanti dell’Harkat-ul-Jihadi-i-Islami, l’organizzazione terrorista legata ad Al Qaida a cui è imputato l’omicidio di Daniel Pearl e di svariati membri della Jaish-i-Mohammed, un altro gruppo armato. La battaglia tra gli studenti e le forze dell’ordine va avanti per più di una settimana, provocando una vera e propria strage. Le cifre ufficiali parlano di 180 morti, ma secondo le cronache non ufficiali nella Moschea rossa sarebbero rimasti uccisi più di 500 tra donne e bambini. Ai giornalisti è vietato l’ingresso negli ospedali in cui sono stati trasportati i corpi delle vittime: rivelarne il numero non sarebbe conveniente né per il presidente né per il suo governo. Nelle settimane e nei mesi successivi la polizia e l’esercito sono oggetto da parte degli integralisti islamici di numerosi attacchi, da ritenere, secondo le autorità militari, rappresaglie all’attacco sferrato dal governo alla moschea. Con l’affare Lal Masjid, il presidente riguadagna un momentaneo credito agli occhi della comunità internazionale e degli USA, facendo dimenticare la costruzione di una nuova centrale nucleare finanziata dalla Cina e il suo doppio gioco in politica estera. Ma agli occhi della popolazione distrugge definitivamente la sua già appannata immagine di ‘dittatore buono’. Sono comunque in molti a pensare che gli avvenimenti della primavera 2007 e la successiva serie di veri o presunti attentati a opera degli integralisti islamici siano soltanto la sapiente orchestrazione di un gioco teso a distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi del Pakistan: lo scontento popolare sempre più diffuso, l’economia a pezzi, la disoccupazione alle stelle, la rivolta, soffocata nel sangue, delle provincie considerate ‘di serie B’, come il Belucistan o il Sindh, penalizzate a favore del Punjab e taglieggiate a livello sia amministrativo sia militare. Un gioco teso soprattutto a dimostrare agli occhi della comunità internazionale la completa ingovernabilità del paese in modo da ‘costringere’ Musharraf a dichiarare, suo malgrado, lo stato di emergenza. In tutto ciò, infatti, il mandato di presidente del primo dittatore democratico della storia sta per scadere e Musharraf deve assolutamente essere rieletto. Le cose, però, non sono così semplici, anche perché, nel frattempo, sono in scadenza anche i termini del mandato parlamentare del primo ministro e della Camera, e gli Stati Uniti, così come tutto il popolo pachistano, premono perché si tengano, finalmente, elezioni democratiche e Musharraf rinunci al suo doppio e incostituzionale mandato di presidente e di capo delle Forze Armate. Sulle elezioni presidenziali indette per l’ottobre 2007 pesano, fin dall’inizio, gravi eccezioni di incostituzionalità. Perché sia consentito a Musharraf di candidarsi sono apportati sostanziali (e illegali) cambiamenti all’ordinamento elettorale e le votazioni si svolgono nonostante molti parlamentari si siano dimessi per protesta. Il presidente stravince, ma sul risultato continua a pendere l’incognita del pronunciamento della Corte Suprema sull’ammissibilità della candidatura.Il ritorno di Benazir Bhutto
A ciò si aggiunge la minaccia rappresentata dalle future elezioni politiche. Si va così delineando, con il favore degli Stati Uniti e della Gran Bretagna che vogliono continuare a ‘dare una possibilità’ a Musharraf assicurandosi al tempo stesso un nuovo alleato, il progetto di identificare come futuro premier Benazir Bhutto. Bhutto ha tutto per piacere all’Occidente e ai media occidentali: è donna, bella, di fascino, ha studiato all’estero. È stata a capo del paese già due volte: dal 1988 al 1990 e dal 1993 al 1996. Gli anni del suo governo, in realtà, non sono registrati negli annali del Pakistan come esempi di trasparenza e di buon governo e in patria non è molto amata, neanche da una larga fetta del suo partito che la accusa, tra le altre cose, dell’omicidio di suo fratello Murtaza, ucciso nel 1996 dalla polizia di Karachi proprio mentre Benazir era premier. Ancor meno amato è suo marito Asif Zardari, noto come ‘mister Ten per cent’, da Benazir messo a capo di posti chiave nella pubblica amministrazione, di cui approfittava per rastrellare contanti e risorse in tutto il paese, trasferendo il malloppo su conti svizzeri. Nei confronti di Bhutto e di Zardari pende, in Pakistan ma anche in Gran Bretagna e in Svizzera, una serie di accuse per reati monetari e per corruzione. Benazir ha inoltre responsabilità politiche pesanti: con la collaborazione dell’allora direttore generale delle operazioni militari Musharraf e del ministro dell’Interno Nasirullah Babar, sotto il suo governo sono nati i Talebani ed è stato consentito a Osama Bin Laden di stabilirsi a Jalalabad e di creare Al Qaida. Bhutto, esiliata dal presidente e riciclatasi paladina dei diritti umani e della democrazia, nel novembre 2007 stabilisce a Londra un’intesa anti-Musharraf con l’ex premier Nawaz Sharif. L’accordo non le impedisce, però, di concordare con l’odiato dittatore un’ipotesi di ‘democrazia alla pachistana’: l’appoggio del Partito del popolo pachistano assicurerebbe a Musharraf la rielezione anche in una competizione elettorale non truccata e Bhutto potrebbe ricandidarsi a premier. Firmato un ‘patto di riconciliazione nazionale’ che fa cadere tutte le accuse nei suoi confronti, Benazir rientra in patria il 18 ottobre 2007. Accolta a Karachi da una folla sterminata, nel tragitto dall’aeroporto a casa subisce un attentato che lascia sul terreno 193 morti e 550 feriti circa. Bhutto afferma di essere stata avvertita ‘da un governo amico’ della possibilità di attentati alla sua vita e che rivelerà al governo una rosa di tre nomi tra cui devono essere ricercati i mandanti dell’attacco a cui è scampata. I nomi, fatti circolare nei giorni successivi dal quotidiano pakistano The News, sarebbero quelli del primo ministro del Sindh, Arbab Ghulam Rahim, del primo ministro del Punjab, Chaudry Perwez Elahi, e dell’ex capo dell’Intelligence Bureau, Eijaz Shah. Non sono i soli, però, a volere Benazir morta: alla lista andrebbero aggiunti gli ex sostenitori del defunto dittatore Zia, i Talebani, gli estremisti del Waziristan e alcuni elementi del movimento Muttahida Qaumi, i servizi segreti più o meno deviati e lo stesso governo. Nonostante questo, Bhutto continua a comparire in pubblico, cercando di guadagnare consensi popolari. Il suo rientro in Pakistan, fortemente voluto dai paesi occidentali e soprattutto dagli Stati Uniti, le ha infatti alienato molte simpatie anche tra i moderati e rischia di trasformarsi in un boomerang dagli effetti imprevedibili. Il clima nel paese, intanto, si è fatto irrespirabile e la luna di miele con Musharraf, per evidenti ragioni di opportunità politica, sembra finire nel giro di pochi giorni.Un’alternativa a Musharraf?
Dopo una serie di veri o presunti tentennamenti, l’emergenza viene dichiarata il 3 novembre 2007, sospendendo tutte le norme costituzionali e rendendo insanabile il conflitto tra Musharraf e i giudici. La Corte Suprema, che deve deliberare riguardo ai ricorsi presentati contro la candidatura di Musharraf a presidente e sulla validità della sua vittoria elettorale, con una decisione definita ‘storica’ si rifiuta di ratificare lo stato di emergenza, dichiarandolo «nullo e illegale», e 60 dei 97 giudici della Corte si rifiutano di prestare giuramento in base alle nuove norme. Musharraf parla al paese dichiarando: «Non posso permettere a questo paese di suicidarsi», con riferimento all’ondata di attentati che è seguita all’assalto alla Lal Masjid e al cosiddetto ‘allarme terrorismo’ nel paese, e 500 tra oppositori politici, attivisti, avvocati e giudici non disposti a sostenere il governo vengono arrestati.
Gli Stati Uniti sono certamente preoccupati per la mancanza di democrazia in Pakistan, ma molto di più per la guerra al terrorismo che ormai da tempo segna una battuta d’arresto. Per Musharraf è abbastanza agevole convincere Washington, ancora una volta, dell’assoluta necessità di un uomo forte al governo e, soprattutto, di un uomo fedele alla causa. Mentre il generale americano William J. Fallon si trova in Pakistan per discutere la guerra al terrorismo, Musharraf ricorre all’unica carta che gli consente di rafforzare il suo traballante potere. Lo spettro della bomba atomica in mano agli integralisti islamici funziona, ormai da anni, alla perfezione. L’emergenza dura poco più di un mese, il tempo necessario a Musharraf a rinsaldare i traballanti puntelli del suo seggio di dittatore prima di lasciare il posto a elezioni ‘libere e democratiche’, abbandonando quella che considera la sua ‘seconda pelle’: la divisa da generale. Prima, però, aggiusta ulteriormente le leggi del paese: il potere di revocare lo stato di emergenza è trasferito, con un decreto d’urgenza, dalle mani del capo delle Forze Armate a quelle del presidente. Mentre continuano gli attacchi suicidi e gli scontri tra esercito e integralisti, Musharraf provvede a nominare ai vertici della giustizia, dell’esercito e dei servizi segreti suoi fedelissimi, come il nuovo capo delle Forze Armate, il generale Ashfaq Parvez Kiyani. Passa poi a modificare, con decreto immediatamente esecutivo, una serie di norme giuridiche, mettendo sotto il controllo diretto del presidente tutto l’arsenale nucleare e la National Command Authority, mossa altamente strategica che gli consente di accreditarsi personalmente come alleato fondamentale per gli Stati Uniti, preoccupati dalla possibilità che le bombe pachistane cadano in mani poco raccomandabili. Sul fronte politico, la situazione appare sempre più complessa. Dietro pressioni dell’Arabia Saudita, è rientrato nel paese anche Nawaz Sharif, l’ex premier esiliato con l’accusa di corruzione, peculato e dirottamento aereo; però è stato escluso dal decreto di ‘riconciliazione nazionale’ e non può presentare la sua candidatura alle elezioni. Benazir, prima disposta a patteggiare la sua rielezione con il presidente e poi dichiaratasi all’improvviso disponibile a un’alleanza senza condizioni o quasi con Sharif contro Musharraf, ricomincia a fare marcia indietro. Sia Sharif sia Bhutto hanno bisogno di Musharraf per presentare la loro candidatura: entrambi sono stati premier due volte e un terzo mandato non è ammesso dalla Costituzione. Le elezioni dovrebbero svolgersi l’8 gennaio 2008, prima dell’inizio del mese di Muharram, sacro per i musulmani di confessione sciita. Ma il 27 dicembre 2007, nel pieno di una campagna elettorale da cui secondo tutti i pronostici dovrebbe uscire vincitrice, Benazir Bhutto viene assassinata a Rawalpindi, durante l’ennesimo bagno di folla. L’omicidio scuote il paese fin nelle fondamenta, scatenando disordini di piazza e proteste, nonché una ridda di ipotesi sulla meccanica dell’attentato, sugli esecutori e sui possibili mandanti. Ma, soprattutto, la morte di Benazir si rivela un disastro politico senza precedenti per Musharraf e per il suo governo. L’opinione pubblica e il Partito del popolo pachistano fanno immediatamente ricadere la responsabilità dell’attentato su di lui, sul governo e, soprattutto, sull’ISI. Bhutto, da politico inetto e corrotto, si trasforma in una martire della democrazia e della libertà. A questo punto, le quotazioni di Musharraf sono in picchiata perfino a Washington. Il governo, dopo una sommaria indagine, accusa dell’omicidio Baitullah Mehsud ma il leader integralista declina ogni responsabilità. L’ex capo dell’ISI Hamid Gul avanza le sue personali ipotesi sui mandanti, insinuando che ci siano ‘paesi stranieri’ interessati a destabilizzare il Pakistan e in cerca di una buona scusa per impadronirsi dell’arsenale nucleare del paese. La ‘teoria del complotto’, che può sembrare improbabile a occhi occidentali, vista dal Pakistan appare molto meno peregrina, specialmente se si pensa che nel paese è fortemente radicata la convinzione che l’Occidente veda come il fumo negli occhi la ‘bomba islamica’ in quanto tale e agisca di conseguenza. Proprio in quei giorni circola la voce, prontamente smentita da Islamabad, che una squadra speciale delle Forze Armate americane è pronta a entrare in azione e a neutralizzare le postazioni nucleari pachistane. Si tratterebbe di un reparto speciale, composto anche da alcuni scienziati del Nuclear Emergency Search Team, che avrebbe ordine di prendere il controllo delle circa 60 basi pachistane in cui si assembla e si produce tecnologia nucleare, se si verificasse la possibilità concreta di un colpo di Stato degli integralisti. Le elezioni vengono rimandate, tra polemiche e veleni, al 18 febbraio.
A capo del PPP viene eletto, almeno formalmente, il diciannovenne figlio di Benazir, Bilawal Zardari, che aggiungerà da questo momento il cognome Bhutto a quello di suo padre. In realtà, il giovane è soltanto un paravento che occulta l’impresentabile Asif Zardari, cui viene attribuita formalmente la carica di co-presidente e che, di fatto, governerà il partito. Intanto, nei palazzi della politica di Islamabad, più che nelle piazze, si stringono o si rompono alleanze, si lasciano aperte o si chiudono opzioni e si fa la conta dei voti probabili o sicuri per capire se Musharraf sarà costretto a dimettersi o lavorerà a fianco di un primo ministro a capo di un governo ‘di ampie intese’. Però, nonostante gli investimenti esteri continuino a piovere sul paese e il tasso di crescita economica sulla carta sia di un buon 8%, in gennaio la popolazione si ritrova a fare la fila per la farina, il cui prezzo è praticamente raddoppiato a causa delle dissennate politiche di esportazione del governo. Sempre in gennaio, raddoppia il prezzo anche di molti generi di largo consumo e si acutizza la crisi dell’energia elettrica e del gas per uso domestico. La pancia vuota e il freddo di uno degli inverni più rigidi a memoria d’uomo fanno alla fine molto di più per l’opposizione del fantasma della povera Benazir. La campagna elettorale si svolge in effetti in un clima quasi surreale, basata essenzialmente sull’ombra di Bhutto e su di un possibile giocatore occulto: il neoeletto capo dell’esercito Kiyani. Il generale ce la mette tutta per guadagnarsi il consenso popolare, imponendo a tutti i militari che ricoprono incarichi civili o politici di dimettersi e disfacendo di fatto la rete di membri dell’esercito messi a capo di lucrose attività civili da Musharraf. La positiva immagine di sé e dell’esercito che il generale faticosamente costruisce, però, per qualcuno è francamente inquietante: «È un copione che si ripete – sostengono in tanti – e comincia sempre con un generale che si guadagna simpatie e consenso popolare dimostrando di essere ‘pulito’ e di voler cambiare le cose». L’ultimo nel tempo è stato nel 1999 Musharraf, il cui colpo di Stato era stato accolto come una ventata d’aria fresca dopo 10 anni di corruzione e beghe politiche, firmate Benazir Bhutto e Nawaz Sharif. Il verdetto delle urne, alla fine, è piuttosto scontato: la maggioranza al Partito del popolo pachistano, seguito a ruota dalla Lega musulmana del Pakistan di Sharif. Terza classificata, con un notevole distacco, la Lega musulmana del Pakistan (Q) che sostiene il presidente Musharraf. Ad Asif Zardari va il compito di scegliere i membri del nuovo governo: un governo di coalizione perché, nonostante la vittoria, il PPP non ha ottenuto la maggioranza assoluta. Il risultato delle urne, che secondo gli analisti e secondo molti politici era già stato deciso in precedenza tra Londra e Washington, cambia molto poco nel paese. Certamente, il presidente Musharraf appare politicamente più debole. Ma non più debole, a conti fatti, di quanto fosse prima del voto. Zardari e Sharif, da soli, non hanno difatti i numeri sufficienti per formare la maggioranza di due terzi che potrebbe mettere il presidente al tappeto, questionando la legalità della sua rielezione e, soprattutto, per abrogare gli emendamenti costituzionali fatti da Musharraf durante l’emergenza. Ma nonostante tutto, e nonostante siano da sempre nemici, i due stringono un’alleanza di governo basata, in sostanza, su una sola forte motivazione: gestire il potere, anche se formalmente ambedue sono fuori dalla distribuzione delle poltrone governative. Nessuno dei due è infatti stato candidato, nessuno dei due ha per il momento la minima possibilità di diventare primo ministro. Entrambi pensano però di candidarsi in seguito, nelle zone in cui le elezioni sono state rimandate per motivi di sicurezza, e di garantirsi quindi il seggio in Parlamento che permetterebbe loro di rientrare trionfalmente nella spartizione delle poltrone. Dopo lunghe e faticose trattative, a marzo un uomo di Zardari, Yousuf Raza Gilani, viene eletto premier. L’alleanza tra Zardari e Sharif va avanti con alterne fortune ricomponendosi soltanto per pareggiare i conti con Musharraf. In agosto, difatti, il presidente viene costretto alle dimissioni per evitare l’impeachment e il 6 settembre viene eletto al suo posto l’impresentabile Asif Zardari. Considerato il ‘male minore’ da Washington, che non si fida affatto di Nawaz Sharif, troppo scaltro, troppo navigato, troppo vicino ai servizi segreti, ai militanti islamici e pronto a dichiarare di voler reintrodurre la sharia nel paese. La momentanea luna di miele tra i componenti del governo si spacca fin da subito sulla questione dei giudici della Corte suprema, che il governo ha liberato ma non ha alcuna intenzione di reintegrare per timore che Zardari venga messo sotto inchiesta per le decine di reati di cui è accusato, reati che sono stati prontamente cancellati dai giudici di Musharraf. Sharif ritira i suoi ministri dal governo, cui garantisce soltanto un appoggio esterno, ma la situazione politica pachistana appare ormai un indistricabile pasticcio. Ne beneficiano i Talebani, che compiono attentati al ritmo di uno ogni due giorni. Nel frattempo i rapporti tra Islamabad e gli Stati Uniti non sono mai stati tanto burrascosi: in giugno le truppe americane uccidono 11 soldati pachistani sconfinando dai confini afghani, un’organizzazione vicina al Pentagono pubblica l’ennesimo rapporto in cui si evidenziano le connessioni tra l’ISI e i Talebani, Abdul Qadeer Khan, padre della bomba atomica pachistana e protagonista del traffico di materiale nucleare con paesi come l’Iran, la Libia e la Corea del Nord, viene di fatto liberato dagli arresti domiciliari. A fine agosto, due elicotteri di combattimento americani atterrano in territorio pachistano per la prima volta, in cerca di terroristi e uccidendo una decina tra donne e bambini. Da allora, gli attacchi missilistici compiuti dagli Stati Uniti in Pakistan diventano una costante. Islamabad convoca l’ambasciatore americano in Pakistan e inoltra una protesta formale, senza alcun risultato.
D’altra parte, come ha ammesso lo stesso Zardari, la lotta al terrorismo va decisamente male: in febbraio il generale Kiyani aveva già concluso un discutibile accordo con la neonata Tehrik-i-Taliban di Baitullah Mehsud, ritirando le truppe governative dal Waziristan. Il primo vero provvedimento preso dal nuovo governo è la firma di un ulteriore accordo con un’altra organizzazione di stampo talebano: la Tehriq-i-Nifaz-i-Shariat-i-Mohammed guidata dal Maulana Fazlullah. L’accordo prevede il ritiro delle truppe governative dallo Swat e l’instaurazione della sharia nella provincia, in cambio della cessazione delle ostilità e dell’impegno a non «prestare aiuto a combattenti stranieri». Il provvedimento scontenta ancora una volta Washington e spinge il presidente afghano Karzai a dichiarare che il suo esercito si riserva il diritto di inseguire i Talebani fin dentro i confini pachistani. Karzai supporta quindi le azioni di guerra americane in territorio pachistano, ma la NATO si rifiuta di seguire gli alleati su un terreno così scivoloso.
In realtà, come previsto da Sherpao, a ben guardare non c’è nulla di nuovo. È cambiato il presidente, certo, ma soltanto quello. L’economia va a rotoli, i terroristi stanno vincendo la loro battaglia, e non ci vorrà neanche molto perché la situazione interna precipiti nel caos. E a quel punto Washington potrebbe anche supportare l’ascesa di qualcuno che, esattamente come Musharraf, riporti il paese alla normalità e al rispetto dell’ordine pubblico, della legalità e, soprattutto, degli accordi internazionali.
repertorioI musulmani dell’India
L’Islam in India
Le prime incursioni arabe in territorio indiano seguirono immediatamente le grandi conquiste avvenute sotto il califfo Omar nel 7° secolo e continuarono sotto gli Omayyadi. Tuttavia la vera conquista musulmana fu opera dei Turchi, cui l’islamismo aveva dato la forza di una coesione interna e di saldi legami politici e culturali con gli altri popoli islamici. Il centro propulsivo del loro potere fu Ghazni in Afghanistan, capitale di un vasto impero che con Mahmud di Ghazni (998-1030) si estese da Lahore nel Punjab a Ispahan in Persia. Zelo religioso e necessità di far affluire ricchezze a Ghazni indussero Mahmud a distruzioni e saccheggi. Al dominio ghaznavide pose fine fra il 1175 e il 1186 un altro conquistatore di provenienza turco-afghana, Muhammad al-Ghuri, il quale, vincendo la resistenza indù dei Rajput, incapaci di coalizzarsi contro il nemico comune, si impadronì di tutta la piana del Gange. In assenza di un principio regolatore nella successione dinastica, grande importanza politica assunsero gli schiavi turchi, che ricoprivano cariche amministrative di grande prestigio. Tra questi ultimi emerse la figura di Iltumish (1210-36), fondatore del sultanato di Delhi, che da allora in poi costituì il centro più importante dell’Islam indiano. Con le dinastie successive il sultanato si espanse a tutta l’India settentrionale, al Deccan, e ancora più a sud fino a Madura. Se la conquista militare fu condotta a termine rapidamente, consolidare l’autorità del sultano si mostrò invece impresa difficile. Ben presto il Sud si rese indipendente, mentre il Deccan e altre piccole entità territoriali si costituirono in regni musulmani autonomi. Più che le complicate vicende dei regni musulmani dell’India, i frequenti cambiamenti di dinastie e le continue guerre interne ed esterne, valsero a modificare le condizioni generali della civiltà indiana le innovazioni culturali recate con sé dai conquistatori. L’islamismo da essi professato aveva assunto da secoli una forte impronta persiana e fu quindi essenzialmente la civiltà persiana (naturalmente nella sua fase islamica) quella che si diffuse nell’India; tuttavia questa civiltà non si fuse che in piccola misura con quella indigena, sia per la resistenza di questa, tenace per quanto passiva, sia per le tendenze stesse dei dominatori, volti a opprimere e a sfruttare piuttosto che a guadagnarsi e ad amalgamare la popolazione che dominavano, considerata come idolatrica e quindi trattata assai peggio di quella, prevalentemente cristiana, della Siria, della Mesopotamia e dell’Egitto, dove si era dapprima insediato l’islamismo vittorioso.
Le contese dinastiche aprirono la strada, nel 1398, all’invasione di Tamerlano, i cui discendenti diedero vita a una nuova dinastia. Benché Tamerlano avesse costruito un vasto impero dal Mediterraneo ai confini della Cina, in India né lui né i suoi discendenti imposero nulla più di un’indulgente sovranità. Il declino del sultanato di Delhi si arrestò con l’avvento della dinastia afghana dei Lodi (1451-1526), alla quale pose fine Zahir ad-Din Muhammad, sopranominato Babur («tigre»), discendente di Tamerlano e di Gengis Khan, di stirpe turca e culturalmente persianizzato, che da Kabul, centro del suo potere, discese in India, ove fondò la dinastia Moghul (mongola). Questa regnò senza interruzione, benché in ultimo in piena decadenza, fino alla metà del 19° secolo, suscitando e favorendo lo sviluppo di quegli elementi che distinguono fortemente l’islamismo indiano da quello di altre regioni soggette all’influenza musulmana.
Sotto i Moghul fiorì una cultura artistica e letteraria raffinata, nata dall’incontro fra due mondi pur inconciliabili per taluni versi. Il governo della nuova dinastia fu in genere severo ma tollerante e ben presto i bisogni di un vasto sistema amministrativo, impostato su modelli persiani, aprirono la partecipazione a esso di molti indù colti. La conversione all’Islam non era richiesta, ma rappresentava un vantaggio; comunque anche tra i non convertiti delle caste più elevate un’istruzione completa e adeguata contemplava lo studio del persiano; nella società rurale, poi, gravata da problemi di povertà e sfruttamento, la conversione all’Islam fu spesso considerata un modo per sfuggire a condizioni castali svantaggiose. Non mancarono anche tentativi di sincretismo, come il sufismo; sotto l’influenza musulmana nacque anche il sikhismo, movimento religioso riformatore e anticastale, che assunse via via connotati militari e si radicò soprattutto nel Punjab.
Dai Moghul all’India britannica
I Moghul estesero il loro dominio a tutta l’India settentrionale, e a parte dell’Afghanistan e del Deccan; svilupparono un’organizzazione amministrativa imperiale, integrando in essa le autorità e le istituzioni locali; cercarono di tassare equamente il reddito terriero e di far rispettare la legge tramite una rete di funzionari che rispondevano direttamente all’imperatore. Massima espressione della tendenza al sincretismo della cultura di epoca moghul fu l’imperatore Akbar (1556-1605). Nipote del fondatore Babur, deve la sua fama, più che alle sue conquiste (Afghanistan orientale, Bengala, Kashmir, gran parte del Deccan), al tentativo di un’audace riforma religiosa e sociale mirante a parificare di fronte allo Stato sudditi musulmani e indù; adottò un culto eclettico, ristretto a pochi fidati cortigiani, e promosse dibattiti fra esponenti di religioni diverse. Il suo tentativo non ebbe però seguito. L’ortodossia islamica fu restaurata da Awrangzeb (1658-1707), il quale ripristinò anche la gizya, la tassa che la legge islamica impone ai sudditi non convertiti, abolita da Akbar. Awrangzeb completò la conquista del Deccan, ma le esigenze politiche che ne derivarono condussero a un ampliamento della burocrazia sproporzionato alle possibilità economiche. Le guerre, la lotta contro il nascente stato indù dei Maratha (sorto nel Deccan a partire dal 17° secolo), la politica repressiva contro indù e sikh segnarono il declino dell’impero. Alla morte di Awrangzeb l’impero moghul si frammentò in una costellazione di piccoli stati musulmani, mentre si consolidava la potenza maratha. Per un certo periodo sembrò che questa potesse conquistare l’egemonia, ma una politica di gravose esazioni impedì la coesione degli Stati annessi o sottomessi. L’India settentrionale fu teatro di nuove invasioni. Tra il 1748 e il 1757 l’afghano Ahmed Shah Durrani si impadronì di Delhi; i Maratha intervennero, convinti di cogliere la giusta occasione per imporsi definitivamente, ma si trovarono isolati, senza l’appoggio degli ultimi Moghul, e subirono una disastrosa sconfitta che segnò il loro declino.
Mentre l’India era divisa dai conflitti, cresceva la presenza delle Compagnie delle Indie europee, specie la francese e l’inglese. Fu la debolezza degli Stati indiani a dare agli Europei la spinta per inserirsi nella scena politica e tentare l’espansione coloniale. Battuti rapidamente i Francesi nel gioco delle alleanze e della strategia politica, nel 1757 la Compagnia delle Indie orientali britannica assunse il controllo effettivo sul Bengala, che ben presto cominciò a estendere al resto dell’India. L’unico tentativo di alleanza fra potenze indiane contro gli Inglesi, capeggiato dai Maratha, si concluse con un fallimento. L’impero maratha si disgregò rapidamente, per essere annesso definitivamente dagli Inglesi nel 1818. Il rifiuto di sancire l’adozione di eredi da parte di sovrani senza figli – un diritto che la Compagnia delle Indie si riservava in qualità di massima potenza indiana – permise l’annessione di altri territori. Nel 1849 fu annesso il Punjab, dopo una lotta contro i Sikh, che avevano costituito una sorta di regno indipendente. Nel 1857 il malcontento degli Indiani proruppe in rivolta aperta con l’ammutinamento dell’armata del Bengala. È la grande insurrezione dei sepoys, le truppe indigene arruolate dalla Compagnia, che mise per alcuni mesi a duro repentaglio, con la vita dei sudditi britannici, le sorti stesse del dominio inglese dell’India. Entro il 1858 la rivolta fu completamente repressa e l’ultimo dei Moghul, Bahadur Shah II, che gli insorti avevano scelto come loro bandiera, scontò con la deposizione e la prigione a vita il breve sogno di resurrezione imperiale della sua dinastia. L’anno dopo, la sovranità dell’India passava dalla Compagnia direttamente alla corona britannica.
Il nazionalismo musulmano
Quando gli Inglesi finirono con il sostituire del tutto la classe dirigente musulmana nel governo dell’India, la minoranza islamica che per secoli aveva amministrato una popolazione a larga prevalenza indù (tranne in alcune zone, come il Bengala orientale, dove le conversioni di massa all’Islam avevano prodotto una maggioranza musulmana) si adattò meno rapidamente degli indù alla nuova situazione creatasi con l’avvento dei britannici. Anche se la parte musulmana della popolazione partecipò al tentativo di formulare unitariamente istanze politiche nazionaliste, l’Islam, fin dalla fondazione del sultanato di Delhi, aveva agito potentemente a costituire gli indiani musulmani in una comunità religiosa separata. Il lungo dominio effettivo dei Moghul sul paese aveva contribuito non poco a conferire a questa separatezza dei musulmani un senso di superiorità anche politica sul resto della popolazione. Il 19° secolo vide un grande fermento intellettuale, che crebbe sull’onda del nascente nazionalismo indiano. Sul fronte islamico, un ruolo determinante fu svolto dall’Aligarh College, l’università anglo-musulmana fondata nel 1877 da Sayyid Ahmed Khan con lo scopo di promuovere un incontro tra Islam e cultura occidentale. Educatore, scrittore, autore di saggi sulla vita di Maometto e di un commento modernista del Corano, Ahmed Khan, la cui famiglia aveva ricoperto incarichi importanti nella Delhi degli ultimi Moghul, fu il principale ispiratore del revival dell’Islam indiano nella seconda metà dell’Ottocento. Dall’Aligarh College prese spunto il movimento intellettuale e politico che portò, all’inizio del 20° secolo, alla formazione della Lega musulmana (LM) prima, e poi, in ultimo, alla fondazione del Pakistan. Nel 1906 una delegazione guidata dall’Agha Khan III Muhammad Shah sostenne presso il viceré inglese dell’India gli specifici interessi nazionali della popolazione musulmana. Il timore era che la via di dotare l’India di istituzioni rappresentative sul modello britannico potesse condurre alla fine a una forma di assoggettamento politico della minoranza islamica da parte della maggioranza indù; timore accompagnato dalla convinzione che la tutela degli interessi musulmani sarebbe stata garantita preservando la loro identità separata, piuttosto che amalgamandosi in un’unica nazione indiana che, a tutti gli effetti, sarebbe stata indù. Così, mentre l’Indian National Congress (INC) premeva sul governo britannico per ottenere riforme costituzionali, i musulmani procedevano alla fine del 1906 a fondare a Dacca una propria formazione politica, la Lega musulmana, tesa a garantire la loro posizione di minoranza. Leader autorevole della LM e protagonista indiscusso del processo che portò alla fondazione del Pakistan fu Mohammed Ali Ginnah, nato a Karachi, trasferitosi a Bombay, presso la cui università seguì gli studi di legge, perfezionati poi a Londra, dove ebbe modo di conoscere a fondo il sistema politico inglese. Tornato in India, fece il suo ingresso in politica partecipando ai lavori dell’INC; sostenitore della collaborazione politica tra indù e musulmani, aderì alla LM nel 1913 quando fu certo che essa avrebbe non meno dell’INC abbracciato la causa dell’emancipazione indiana; a Bombay divenne il principale organizzatore dell’Indian Home Rule League. Da quest’ultima e dall’INC Ginnah si allontanò quando divenne evidente il dominio indù su entrambe, specie dopo l’apparizione sulla scena politica indiana di Gandhi. La riorganizzazione della LM divenne da allora l’obiettivo principale di Ginnah.
Mentre cresceva l’antagonismo tra indù e musulmani, Ginnah si adoperò ancora per la collaborazione tra la LM e l’INC in vista delle elezioni previste dal Government of India Act del 1935, ma l’esito elettorale, due anni dopo, che dette all’INC la maggioranza assoluta, segnò la caduta delle aspettative della LM, che fu totalmente esclusa dalla formazione dei governi provinciali. L’idea di costituire uno Stato musulmano separato si rafforzò in quei frangenti. Dall’inizio degli anni 1930 a spingere in questa direzione era stata l’azione del poeta e filosofo Muhammad Iqbal, voce autorevole della comunità musulmana indiana, che al congresso della LM tenuto ad Allahabad nel 1930 aveva sostenuto la necessità della creazione di uno Stato islamico nell’India nord-occidentale come unico modo per salvaguardare la comunità islamica dalla completa subordinazione politica, economica e culturale agli indù. Ginnah si fece portavoce della rinascita della nazione musulmana e, nel marzo 1940, la LM adottò ufficialmente una risoluzione in cui si chiedeva la creazione di uno Stato musulmano separato, per il quale fu coniato il nome di Pakistan, «la terra dei puri». Il progetto trovò una decisa opposizione da parte dell’INC, e neppure il governo britannico vide di buon occhio la frattura dell’unità politica dell’India; alla fine, però, l’azione politica di Ginnah e del suo movimento ebbero la meglio e sia gli Inglesi sia l’INC non poterono che accettare l’idea della separazione fra due Stati.
L’organizzazione del nuovo Stato
Il Pakistan fu costituito, come Stato indipendente nell’ambito del Commonwealth, il 15 agosto 1947. Sorto in una delle zone industrialmente meno sviluppate dell’India britannica, dovette far fronte fin dalla nascita a gravi problemi di natura religiosa, economica, sociale. La spartizione dei territori fra Pakistan e Unione Indiana scardinò la struttura produttiva soprattutto in Bengala e nel Punjab, che si trovarono divisi tra i due Stati, mentre milioni di profughi musulmani provenienti dall’Unione Indiana si riversavano nel paese, abbandonato a sua volta da gran parte della popolazione indù. Fonte di tensione interna era inoltre lo squilibrio esistente fra le due zone, separate da oltre 1500 chilometri di territorio indiano, da cui era composto il paese: il Bengala, con circa un settimo del territorio e quattro settimi della popolazione, e il Pakistan occidentale (formato da Belucistan, Frontiera di Nord-Ovest, Punjab e Sindh) che, con i sei settimi del territorio e i tre settimi della popolazione, esercitava un netto predominio politico sul primo. La rivendicazione di una forte autonomia fu avanzata dal Bengala fin dai primi anni 1950, ma si scontrò contro la linea centralista adottata dal governo.
La LM dominò i primi anni di vita del nuovo Stato e, con la carica di governatore generale, dotato provvisoriamente di ampi poteri, Ginnah guidò il paese fino alla sua morte (settembre 1948). Gli altri leader erano soprattutto uomini di legge, che avevano appoggiato la linea di Ginnah nella sua battaglia non tanto perché desiderassero uno Stato islamico, quanto perché consideravano l’INC come strumento di dominio indù. Solo per alcuni gruppi l’Islam rappresentava un modello totalizzante di vita, da cui l’intenzione di istituire una forma di teocrazia.
Nel marzo 1956 l’assemblea costituente, eletta da assemblee provinciali nel 1955, varò la prima Costituzione del paese, per la quale il Pakistan fu proclamato Stato federale, formato dalle due province del Pakistan occidentale e del Pakistan orientale, con una forma di governo parlamentare e repubblicana. Ma già due anni dopo, il 7 ottobre 1958, a seguito di un periodo di forti contrasti politici, in cui l’egemonia della LM venne indebolita dalla formazione di altri partiti, il generale Iskandar Mirza, ex governatore generale ed eletto presidente nel 1956, abrogò la Costituzione e proclamò la legge marziale sotto la direzione del capo delle Forze Armate, generale Mohammed Ayyub Khan, che pochi giorni dopo lo sostituì alla presidenza. Nel 1959 fu adottato per gli organismi di governo locale un sistema di ‘democrazia fondamentale’, basato sull’elezione indiretta da parte dei consigli, secondo uno schema piramidale il cui gradino più basso erano i consigli di villaggio, i soli eletti a suffragio universale. Nel 1962 il sistema fu esteso da una nuova Costituzione all’intera struttura statale: venne inoltre istituito un regime presidenziale e fu abolita la legge marziale.
Dalla secessione del Bangla Desh alle basi della resistenza afghana
Malgrado un lieve miglioramento verificatosi nei primi anni 1960, la situazione economica del paese rimase difficile; il crescente malcontento sfociò in un’ondata di agitazioni che travolse Ayyub Khan, sostituito nel marzo 1969 dal generale Yahya Khan; quest’ultimo, dopo aver represso la protesta, indisse elezioni a suffragio universale diretto per un’assemblea nazionale con poteri costituenti. Al successo del progressista Partito del popolo pachistano (PPP), guidato da Zulfikar Ali Bhutto, nel Pakistan occidentale, fece riscontro, nel Pakistan orientale, la vittoria dell’autonomista Lega Awami (LA) che ottenne la maggioranza assoluta di seggi nell’Assemblea nazionale. La crisi politica che ne seguì, con Yahya Khan e lo stesso PPP contrari alla formazione di un governo della LA, portò a una radicalizzazione della politica di quest’ultima, che adottò una posizione separatista. Nel marzo 1971 il Bengala proclamò unilateralmente l’indipendenza come repubblica del Bangla Desh. Il tentativo pakistano di reprimere la secessione fallì di fronte all’intervento dell’Unione Indiana in sostegno dell’indipendenza bengalese. La sconfitta militare portò alla caduta di Yahya Khan, cui subentrò come presidente Ali Bhutto. La separazione del Bangla Desh dal Pakistan fu riconosciuta da quest’ultimo nel 1974.
Dopo il varo di una nuova Costituzione (1973) che istituiva quattro province federate e un regime parlamentare, Bhutto acquisì la carica di primo ministro, continuando a godere di ampi poteri. L’avvio di una politica di modernizzazione delle strutture sociali ed economiche (riforma agraria e nazionalizzazione di grandi aziende industriali e commerciali) non eliminò i gravi squilibri del paese, suscitando l’opposizione dei settori più conservatori. La crisi esplose nel 1977 in seguito alla contestazione, da parte delle opposizioni coalizzate nell’Alleanza nazionale pachistana (ANP), dei risultati delle elezioni del marzo, che avevano registrato una schiacciante vittoria del PPP. L’ANP lanciò una campagna di disobbedienza civile; il crescere della tensione nei mesi successivi scatenò l’intervento dei militari che nel luglio arrestarono Bhutto, sciolsero il Parlamento, sospesero la Costituzione e proclamarono la legge marziale, mentre il potere veniva assunto dal generale Zia ul-Haq. Accusato di aver organizzato un attentato contro un avversario politico in cui era rimasto ucciso il padre di questo, Bhutto fu condannato a morte e impiccato. La politica di Zia (presidente dal 1978) si mostrò sempre più autoritaria e repressiva; furono sciolti i partiti politici e rafforzata la legge marziale; alcune prescrizioni della legge islamica (sharia) furono adottate in campo giuridico ed economico. Nonostante ciò, il ruolo strategicamente rilevante assunto dal Pakistan dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan indusse i paesi occidentali a fornire, nel corso degli anni 1980, ingenti aiuti economici e militari al governo di Islamabad. La resistenza afghana stabilì proprie basi in Pakistan, mentre oltre 3 milioni di profughi (soprattutto Pashtun) trovarono rifugio nel paese.
I governi di Benazir Bhutto
La campagna per il ritorno alla democrazia, promossa dai principali partiti di opposizione, non riuscì a minacciare seriamente la stabilità del regime. Nel 1985 al ripristino della Costituzione del 1973 (con un emendamento che attribuiva ampi poteri al presidente) fece seguito la riconferma di Zia nella carica di presidente, da parte di un Parlamento eletto su base non partitica. I mesi successivi registrarono una cauta liberalizzazione politica: lo stato di emergenza, in vigore ininterrottamente dal 1969, venne revocato e l’attività dei partiti fu nuovamente permessa, sia pure con forti limitazioni. Nell’aprile 1986 il ritorno dall’esilio di Benazir Bhutto, figlia di Zulfikar Ali, diede nuovo impulso alle attività delle opposizioni, mentre il paese veniva attraversato da una recrudescenza di tensioni interetniche, che contrapponeva soprattutto Pashtun e Muhajir (rifugiati musulmani venuti dall’India dopo il 1947). Alla morte di Zia in un incidente aereo, venne imposto nuovamente lo stato di emergenza; il presidente del Senato fu nominato provvisoriamente presidente della Repubblica e, dopo la rimozione delle ultime restrizioni alle attività dei partiti, le elezioni legislative del novembre 1988 videro una buona affermazione del PPP. Abrogato lo stato di emergenza, Benazir Bhutto venne nominata primo ministro di un governo di coalizione tra il PPP e il Movimento Nazionale Muhajir (MNM). La debolezza dell’accordo di governo, la mancanza di stabili maggioranze nei governi provinciali e i contrasti istituzionali con il presidente indebolirono progressivamente il governo Bhutto, che non riuscì a realizzare il proprio programma di riforma democratica del paese. Il riesplodere delle tensioni interetniche, alimentate dal permanere degli squilibri regionali, si sovrappose alla crescita degli episodi di violenza, legati anche alla diffusione del commercio illegale della droga e delle armi, eredità della guerra in Afghanistan. Nell’agosto 1990 il presidente dimise il governo Bhutto, sciogliendo l’Assemblea nazionale e dichiarando lo stato di emergenza. Nelle successive consultazioni (ottobre 1990) il PPP fu battuto dalla conservatrice Alleanza islamica democratica, comprendente anche la vecchia LM. Il suo leader, Muhammad Nawaz Sharif, fu eletto primo ministro, ma la tensione interna non registrò un significativo miglioramento: al proseguimento dei disordini interetnici si sovrapposero le proteste popolari per la partecipazione del Pakistan alla guerra contro l’Iraq. Un grave conflitto istituzionale sorto tra il primo ministro e il presidente della Repubblica si concluse con un accordo imposto dalle Forze Armate che portò alle dimissioni contemporanee di entrambi. Dopo le elezioni dell’ottobre 1993 Benazir Bhutto tornò alla guida di un governo di coalizione tra il PPP e alcuni partiti minori, mentre alla presidenza della Repubblica saliva Ahmed Khan Leghari.
Nella seconda metà degli anni 1990 il Pakistan continuò a essere interessato da ripetuti episodi di grave violenza politica, religiosa e interetnica, e da una crescente protesta sociale alimentata dal peggioramento delle condizioni economiche. L’instabilità politica fu inoltre aggravata dal contrasto istituzionale fra il presidente Leghari e il primo ministro Bhutto, la cui popolarità declinò anche all’interno del suo stesso partito. Il 5 novembre 1996 Leghari destituì Bhutto per abuso di potere e cattiva amministrazione; contemporaneamente, Asif Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto e ministro per gli investimenti, fu arrestato con l’accusa di corruzione. Le elezioni anticipate del febbraio 1997 sancirono la schiacciante vittoria della Lega musulmana del Pakistan, capeggiata da Nawaz Sharif, che tornò così alla guida dell’esecutivo.
Da Nawaz Sharif a Musharraf
Forte della maggioranza di tre quarti del Parlamento, Nawaz Sharif riuscì a imporre una riforma costituzionale che riduceva considerevolmente i poteri del presidente della Repubblica, al quale venne revocata la facoltà di destituire il primo ministro e di sciogliere il Parlamento, di nominare il capo delle Forze Armate e i governatori delle province. Rafforzatosi sul piano istituzionale, il governo si impegnò in un piano di risanamento economico basato su una riduzione globale del carico fiscale e sul sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli e industriali. Per attirare i capitali stranieri l’esecutivo continuò inoltre a proporre, come già aveva fatto Bhutto, una nuova immagine del paese, che sfatasse la visione tradizionale di Stato fondamentalista, ricovero degli estremisti arabi, presentando il Pakistan come uno Stato islamico moderato, disposto ad aiutare l’Occidente nella lotta contro il traffico degli stupefacenti e contro il terrorismo. In realtà, negli anni seguenti il peso dei movimenti fondamentalisti continuò a crescere e nell’agosto 1998 Sharif propose un nuovo emendamento costituzionale che dichiarava il Corano e la Sunna legge suprema dello Stato, ponendoli al di sopra della Costituzione, e conferiva al governo ampi poteri di interpretazione.
In ambito regionale, il Pakistan perseguì l’ambizione di crearsi una propria sfera di influenza nell’Asia centrale e intensificò a tale scopo i legami culturali e commerciali con le popolazioni turche, afghane, iraniane e delle ex repubbliche sovietiche della regione. In questa prospettiva, svolse un ruolo dinamico nella crisi afghana, fornendo il proprio sostegno militare ai Talebani; il paese, inoltre, fu tra i primi a riconoscere ufficialmente il nuovo regime impostosi nel settembre 1996. Costantemente tesi rimasero invece i rapporti con l’Unione Indiana, permanendo sostanzialmente irrisolte le questioni riguardanti i principali punti di discordia: la disputa sullo Stato di frontiera del Kashmir e i rispettivi armamenti nucleari. Nel maggio 1998 la decisione di New Delhi di effettuare una serie di test nucleari provocò l’immediata reazione del Pakistan, che si apprestò ad attuare esperimenti analoghi. In giugno, tuttavia, il governo annunciò una moratoria unilaterale degli esperimenti atomici e vennero ristabilite relazioni fra i due Stati. Tale decisione fu in parte condizionata dalla necessità di riallacciare le relazioni con i paesi occidentali, in particolare con gli Stati Uniti, che dopo l’attuazione dei test nucleari avevano imposto al paese sanzioni economiche. La ripresa dei rapporti con Washington non riuscì tuttavia a modificare sostanzialmente la situazione economica, divenuta nel corso del 1999 particolarmente critica con un conseguente indebolimento del governo Sharif, criticato anche per la sua incapacità di porre un freno alle crescenti violenze etniche e politiche. La crescente incertezza politica offrì ai vertici militari l’occasione di imporre nuovamente la loro supremazia. Il 22 ottobre 1999 Sharif fu destituito da un colpo di Stato guidato dal generale Pervez Musharraf che, sospesa la Costituzione, istituì un nuovo organo esecutivo formato da militari e civili, il Consiglio di sicurezza nazionale, di cui assunse la guida.
Nel giugno 2001 Musharraf assunse anche la carica di presidente della Repubblica. Condannato dalla comunità internazionale, che temeva l’avvento di un regime integralista, si affrettò a presentare il proprio governo come espressione dell’ala moderata e a fornire assicurazioni sull’impegno dell’esecutivo nella lotta al terrorismo. Dopo gli attentati dell’11 settembre il presidente si schierò a fianco degli Stati Uniti e offrì un uso limitato delle basi aeree alla coalizione che si apprestava a colpire l’Afghanistan. Il nuovo credito internazionale così acquisito gli permise di consolidare il potere, nonostante l’ondata di antiamericanismo che aveva investito l’opinione pubblica e la crescente influenza dei movimenti fondamentalisti e dei partiti islamici. Le elezioni politiche del 2002 furono vinte dal partito favorevole al governo, ma per mesi fu impossibile dare avvio ai lavori parlamentari a causa dell’ostruzionismo delle forze d’opposizione contro le modifiche costituzionali proposte da Musharraf al fine di garantirsi i pieni poteri a scapito dell’autonomia del Parlamento e sancire la definitiva istituzionalizzazione delle Forze Armate nella vita politica. Un accordo raggiunto tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004 accolse sostanzialmente le modifiche, ma impose una serie di vincoli formali alle decisioni presidenziali; in cambio, Musharraf ottenne l’assenso del Parlamento al prolungamento del mandato presidenziale al 2007, mantenendo fino a quella data anche la carica di capo delle Forze Armate. Il paese rimase tuttavia in uno stato di continua tensione, con crescenti manifestazioni di protesta antioccidentali, fomentate dalla mancata opposizione del governo all’attacco armato di Stati Uniti e Gran Bretagna contro l’Iraq e dalle offensive lanciate contro i Talebani nelle zone tribali al confine con l’Afghanistan. Lo stesso presidente fu oggetto di attacchi personali e scampò a diversi attentati.