Paleografia musicale
Con tale espressione ci si riferisce al complesso di discipline che hanno come oggetto di studio le antiche notazioni musicali, la loro evoluzione storica e la loro decifrazione. È presa quindi in considerazione la musica europea fino alla fine del 17° sec. e la musica delle nazioni extraeuropee, laddove essa sia stata trasmessa per iscritto. Il paleografo musicale studia il sistema di scrittura, i materiali, la destinazione e le finalità dei vari documenti, la loro cronologia e l'identità degli autori; egli si occupa anche della trascrizione delle antiche semiografie in notazione moderna, pur senza un vero e proprio lavoro di revisione critica. Poiché la notazione musicale è il corrispettivo visivo di un suono, il paleografo decifra i caratteri salienti di un manoscritto - in particolare le altezze, i valori di durata e le pause - traducendoli in notazione moderna. È evidente che il problema della decifrazione sorge quando ci si trova dinnanzi a simboli di scrittura e principi diversi da quelli dell'odierna prassi. La notazione scritta, prodotto delle classi sociali letterate, è il veicolo primario attraverso il quale vengono tramandate le opere musicali della tradizione colta. L'obiettivo finale della p. m. è pertanto la ricostruzione dello sviluppo storico dei sistemi di scrittura musicale e ha, quindi, un'importanza fondamentale nell'ambito della filologia musicale (v. filologia musicale e prassi esecutive).
Un primo, forte impulso agli studi di p. m. fu dato nell'Ottocento dai monaci benedettini dell'abbazia francese di Solesmes, che studiarono gli antichi manoscritti della musica liturgica cattolica. Dal 1833 l'abate P.-L.-P. Guéranger (1805-1875) rilanciò la regola benedettina nel monastero. Tra gli obiettivi principali del lavoro dei monaci vi fu da quel momento il restauro della liturgia romana e, conseguentemente, del canto piano (gregoriano) che è sua parte integrante. Persuasi che le corruzioni del testo e una serie di operazioni arbitrarie compiute nel tempo dai trascrittori, anche per semplificare lo studio degli antichi canti, avessero offuscato il loro senso e la loro intelligenza, i monaci decisero di indagare più da vicino le fonti, le diverse notazioni e di metterle in relazione tra loro. Nelle coeve trascrizioni del gregoriano, infatti, le sillabe erano pesantemente sottolineate ed erano impiegate arbitrariamente suddivisioni in battute, ciò finiva per condizionare la prassi esecutiva dei monaci. Trascrivendo più fedelmente le melodie liturgiche, l'interpretazione di queste risultò di carattere più fluttuante, in quanto finivano per essere vincolate agli accenti delle parole latine del testo. Nel tentativo di rintracciare le versioni più autentiche e antiche del canto, Guéranger formulò un principio in base al quale la versione autentica del canto è quella riscontrabile in diversi monasteri distanti tra loro e con lo stesso testo letterario (Institutions liturgiques, 1° vol., 1840, p. 306). Nel frattempo, Ch.-E.-H. Coussemaker asserì che i neumi derivano dagli accenti acuto, grave e circonflesso (Histoire de l'harmonie au Moyen Âge, 1852). In tal modo, le forme neumatiche più complesse potevano essere raffrontate alle notazioni primitive più semplici. A Solesmes, qualche anno più tardi, un collaboratore di Guéranger, A. Gontier (1802-1881), pubblicò, nel 1859, il Méthode raisonnée de plain-chant, contenente le prescrizioni per una buona pratica del canto liturgico. Le esigenze esecutive e il lavoro paleografico procedettero di pari passo: era ferma convinzione di questi studiosi che soltanto aderendo al contenuto del manoscritto originale fosse possibile una ricostruzione accettabile nella fase esecutiva. Tra gli altri ricercatori attivi nel monastero vanno ricordati P. Jausions (1834-1870) e J. Pothier (1835-1923), il quale pubblicò, nel 1880, un testo che ebbe una notevole diffusione, Les mélodies grégoriennes d'après la tradition. Pothier ebbe chiaro che il ritmo del canto gregoriano era di tipo 'oratorio', vicino a quello della lingua parlata che scaturisce dall'osservanza degli accenti della lingua latina. Il suo successore, A. Mocquereau (1849-1930), lavorò nella stessa direzione, confortato da una sempre maggiore quantità di fonti manoscritte di diverse epoche che venivano raccolte, catalogate e messe a confronto. Nel 1880 Mocquereau divenne responsabile del gruppo di lavoro dell'abbazia. Nel 1883 Pothier portò a termine la prima edizione del Liber gradualis, che venne duramente criticato a causa delle sue novità. Anche per questo motivo, Mocquereau maturò il monumentale progetto della Paléographie musicale, che fu avviato nel 1889 e la cui pubblicazione prosegue tuttora: si tratta di edizioni che presentano in facsimile le fonti più antiche del canto liturgico, con uno studio introduttivo che fa il punto sull'origine del manoscritto e sulle caratteristiche della sua notazione. Il lavoro editoriale dei monaci di Solesmes confermò le corruzioni presenti nell'edizione ufficiale del Graduale romanum, edita a Regensburg nel 1871 dalla tipografia Pustet. Gli studi di Pothier mettevano in evidenza gli errori della Editio medicea, all'epoca la versione ufficiale. Nel 1903 Pio x emanò un motu proprio con il quale stabiliva che la nuova Editio vaticana fosse condotta secondo i principi delineati dai monaci di Solesmes. Nelle loro edizioni, alla notazione quadra si accompagna quella originaria di San Gallo, appartenente ai testimoni più antichi. Il papa nominò una commissione per pubblicare una nuova versione del libro, che venne dichiarata ufficiale dal Vaticano. I risultati dei monaci di Solesmes faticarono però a farsi largo nella comunità degli studiosi. In seguito, Mocquereau definì scientificamente il problema del ritmo: in Le nombre musical grégorien (i° vol., 1908, ii° vol., 1927), lo studioso pervenne alla conclusione che la melodia gregoriana può essere suddivisa in gruppi di due o tre note, raggruppabili in altrettante battute di 2/8 e 3/8, utili come guida all'interprete per una ricostruzione fedele del ritmo generale del brano. Questo sistema fu adottato anche per le edizioni, mediante l'uso di segni grafici aggiuntivi, in cui il cosiddetto ictus contrassegna la tesi (rapportabile al 'battere' della musica moderna) delle unità ritmiche minime di due o tre note.
Nel corso della seconda metà del Novecento i monaci di Solesmes approfondirono lo studio delle notazioni più antiche e delle diverse varianti locali, e a partire dal 1954 vennero pubblicati 14 volumi della serie Études grégoriennes.
Un lavoro altrettanto lungo ha riguardato i manoscritti di musica bizantina, ossia della musica liturgica dell'Impero romano d'Oriente, dalla nascita di Costantinopoli alla sua caduta (1453), e la musica liturgica della Chiesa greca ortodossa scritta, e tramandata in seguito. I manoscritti musicali bizantini ammontano a 1200-1500. Il primo a interessarsi alla notazione musicale bizantina fu B. de Montfaucon (1655-1741), che ne dette una prima descrizione nella Palaeographia graeca (1708), senza tuttavia tentarne una trascrizione. Anche M. Gerbert (1720-1793), nel De cantu et musica sacra a prima ecclesiae aetate usque ad praesens tempus (1774), si occupò dell'argomento, ma il primo studio organico sulla musica liturgica greca fu portato a termine da G.-A. Villoteau (1759-1839) nel quarto volume della Description de l'Égypte (1809), sebbene il problema della decifrazione degli antichi neumi sembrasse ancora insormontabile. Un ulteriore passo si ebbe con gli studi di J.-B.-F. Pitra (1812-1889), il quale scoprì che gli inni greci erano composti con strofe dello stesso metro (Hymnographie de l'église grecque, 1867), non più basate sulla quantità, come nella poesia classica, bensì sugli accenti tonici. Successivamente, fu provato l'influsso dei canti siriaci e di altre chiese orientali e della musica ebraica sulla nascita dell'innografia bizantina. In Résumé philosophique de l'histoire de la musique (1837-1844, 1° suppl. 1878, 2° suppl. 1880), F.-J. Fétis (1784-1871) sottolineò la somiglianza delle semiografie musicali bizantine, armene ed etiopiche, ipotizzando un'origine orientale dei neumi, anche se poi ritrattò questa tesi e ne sostenne la provenienza germanica. In seguito, nel 1907, A. Gastoué (1861-1933) pubblicò l'Introduction à la paléographie musicale bizantine. Catalogue des manuscrits de musique byzantine de la Bibliothèque Nationale de Paris et des bibliothèques publiques de France; il passo successivo fu l'avvio della decifrazione dei neumi bizantini. Negli anni Dieci del Novecento, E. Wellesz (1885-1974) presentò alcuni saggi con trascrizioni. Nel 1931, H.J.W. Tillyard (1881-1968), Wellesz e C. Høeg (1896-1961) fondarono a Copenaghen i Monumenta musicae byzantinae, che nel 1935 avviarono le pubblicazioni, secondo criteri di trascrizione uniformi. Høeg pubblicò, nel 1935, La notation ekphonétique, dedicato alla più antica semiografia bizantina, che si era affermata a partire dallsecolo. Qualche anno dopo, nel 1938, apparve in Italia L'antica melurgia bizantina nell'interpretazione della scuola monastica di Grottaferrata di P.L. Tardo, studio dedicato ai manoscritti della Badia greca di Grottaferrata. Nel secondo dopoguerra, la maggiore disponibilità di riproduzioni in facsimile dei manoscritti permise di avviare studi di più ampio respiro e di mettere in relazione tra loro i testimoni delle più diverse tradizioni liturigiche cristiane. Nel 1966 O. Strunk (1901-1980) pubblicò gli Specimina notationum antiquiorum, e al problema delle scritture più antiche lavorarono vari studiosi, tra cui J. Raasted (1927-1995). Mentre Wellesz - ai cui criteri di trascrizione la scuola danese si era adeguata - aveva sostenuto che il canto bizantino "fosse diatonico prima che l'Impero cadesse sotto l'influenza della musica araba e, ancora di più, turca" (A history of Byzantine music and hymnography, Oxford 1949, 19612, p. 22), autori successivi sostennero la necessità di rivedere i criteri di trascrizione, in particolare di prestare maggiore attenzione al problema ritmico e al contenuto microcromatico della musica bizantina, collegabile all'antica teoria musicale greca, un aspetto sostenuto con vigore soprattutto da studiosi di scuola greca come G.T. Stathes, e non dovuto a influenze orientali successive. Nella seconda metà del Novecento la serie Monumenta musicae byzantinae ha proseguito le pubblicazioni. È stato pubblicato, fra l'altro, il trattato di canto di G. Hieromonachos, Abhandlung über den Kirchengesang (a cura di C. Hannick e G. Wolfram, 1985). Stathes ha continuato la pubblicazione in più volumi del catalogo descrittivo di tutti i manoscritti musicali custoditi nelle biblioteche del Monte Athos.
Come dimostra il lavoro compiuto sulle fonti bizantine, la p. m. è uscita dalle mura dei monasteri per essere affidata a una comunità scientifica che con gli stessi metodi studia gli sviluppi della notazione monodica e di quella mensurale dal Medioevo al Rinascimento in ambito non solo liturgico, ma anche profano. La p. m. si diffonde, a livello universitario, anche in relazione al bisogno di restaurare antichi manoscritti, lo studio e la trascrizione dei quali fa parte di una più generale politica di conservazione e tutela dei beni culturali, tanto che gli studi di p. m. rientrano anche nel campo dell'archivistica.
bibliografia
E. Wellesz, A history of Byzantine music and hymnography, Oxford 1949, 19612.
G.T. Stathes, Ta cheirographa vyzantinis mousikis: Agion Oros, 3 voll., Athinai 1975-1993.
G.T. Stathes, I exigisis tis palaias vyzantinis Simeiografias, Athinai 1978, 19932.
W. Apel, La notazione della musica polifonica dal x al xvii secolo, Firenze 1984.
W. Apel, Il canto gregoriano, Lucca 1998.