PALMERSTON, Henry John Temple, 3° visconte di
Uomo politico inglese, nato a Broadlands, da Henry, 2° visconte, e da Mary Mee il 20 ottobre 1784, morto a Brocket Hall il 18 ottobre 1865. Uscito da famiglia nobile e ricca, in cui era tradizione la carriera diplomatica, passò parte della giovinezza in Italia e compì i suoi studî a Harrow, a Edimburgo e a Cambridge. Cordiale, affabile, di fine educazione letteraria e compiuto uomo di sport, saldo nei suoi convincimenti religiosi, nell'avversione all'oppressione e all'ingiustizia, tenace nel suo patriottismo, rappresentò bene l'aristocrazia inglese del suo tempo, rispettosa della tradizione e delle forme e ligia a un austero senso del dovere. Caduto nelle elezioni del 1806, riuscì a entrare per la prima volta in parlamento nel 1807 per il piccolo collegio di Newton (Wight), iniziando nelle file del partito tory una vita politica lunga e gloriosa. Temperamento ardente e combattivo e insieme lavoratore assiduo e coscienzioso, padrone di più lingue, gran signore nei modi e nell'aspetto, si affermò presto ai Comuni e fu chiamato tra i lord dell'Ammiragliato (gabinetto Portland). Ma un vigile senso di responsabilità gli fece rifiutare la lusinghiera offerta del cancellierato dello scacchiere per accontentarsi del Ministero della guerra (ottobre 1809: ministero Perceval). E per circa vent'anni questo conservatore illuminato tenne l'ufficio, sotto cinque diversi primi ministri, senza mettersi mai troppo in vista, curando la riorganizzazione dell'esercito, coltivando le sue relazioni mondane e facendosi apprezzare come umorista garbato. Tory e apertamente contrario ai whigs e alle idee democratiche, dapprima, ma favorevole insieme a un temperato progresso e all'emancipazione dei cattolici, poté gradatamente passare con intelligente evoluzione attraverso il "canningismo" al liberalismo di lord Grey, per finire più tardi capo del partito liberale moderato. Non fu un oratore di doti eccezionali, ma, chiaro e preciso sempre, seppe l'arte di rivolgersi alle diverse assemblee con il linguaggio più appropriato.
Uscito dal ministero Wellington nel 1828, cominciò da allora a interessarsi prevalentemente di politica estera. I suoi viaggi in Francia gli avevano rivelato le preoccupanti condizioni di quel regno e gli avevano fatto prevedere prossima la caduta dei Borboni; gli avvenimenti di Grecia lo inducevano a chiedere una più attenta vigilanza da parte del governo inglese. Rifiutato il portafoglio offertogli dal Wellington (settembre 1830), il P. entrò poco dopo nel gabinetto liberale di lord Grey come ministro degli Esteri, apparendo finalmente in primo piano sulla scena politica.
Sono gli anni delle rivoluzioni e dei movimenti nazionali quelli in cui il P. opera, gli anni dell'unità italiana e tedesca, dell'indebolimento austriaco, della crisi ottomana, della marcia russa sull'Asia; l'India si agita e il timore di nuove avventure dei Napoleonidi turba gl'Inglesi. Attivo, energico, il P. è fedele alla dottrina del non intervento: ogni popolo deve essere arbitro del proprio destino. Ma prima di tutto egli si considera un soldato cui sono affidati la sicurezza, l'onore, la dignità della Gran Bretagna. E l'interesse britannico fissa il limite alla dottrina. Scoppia la rivoluzione del 1830 e il Belgio si proclama indipendente, ma quest'indipendenza avrà come contropartita la neutralità perpetua del paese e un sovrano amico dell'Inghilterra e, soprattutto, dovrà essere sottratta all'influenza della Francia. Finché questa è debole, il P. le è favorevole; appena accenni a risollevarsi dai colpi del'15 e a riprendere il suo posto nel concerto delle grandi potenze, il P. inizia la lotta.
Le contese tra le regine di Spagna e Portogallo e i loro parenti e avversarî don Carlos e don Miguel (1833-34) spingono il P. a schierarsi a favore del modesto liberalismo delle due sovrane, che dànno buon affidamento di essere favorevoli all'Inghilterra. Germoglia allora nella sua mente l'idea di una quadruplice occidentale (Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo), "potente contrappeso alla Santa Alleanza orientale", alla quale egli è avverso (trattato di Londra, 22 aprile 1834). Ma l'atteggiamento incerto ed equivoco tenuto in seguito da Luigi Filippo lo indispettì e lo volse contro la Francia, come apparve presto nella questione egiziana e in quelle dell'Oriente europeo. Discepolo del Canning, svolse opera di costante appoggio alla giovane Grecia contro la Turchia, ma timoroso che l'indebolimento eccessivo di questa o la sua scomparsa portassero la Russia sul Bosforo e la Francia sul Nilo, dopo il 1830 svolse un'audace ed energica politica in favore della conservazione dell'impero ottomano. Con l'accordo anglo-russo del 1834 mirò a sottrarre la Persia alle mire della Russia, verso la quale era sospettoso e ostile per il trattato di Hunkiar-Skelesi (1833), che egli considerava estorto alla Turchia. Ma non esitò ad accordarsi anche con la Russia per averla alleata nel tentativo di neutralizzare la potenza di Moḥammed ‛Alī, che, strettamente legato alla Francia, appariva troppo pericoloso per l'integrità ottomana. E quando la Francia mirò a sottrarsi agli obblighi derivanti dalla dichiarazione delle cinque potenze per lo statu quo orientale (27 luglio 1839), il P., pure osteggiato dal gabinetto, firmò all'insaputa della Francia quel trattato di Londra del 15 luglio 1840 con la Russia, l'Austria e la Prussia, che impegnava le potenze firmatarie ad aiutare il sultano contro Moḥammed ‛Alī. Trattato umiliante per la Francia contro la quale il P. mirava a risuscitare le antiche prevenzioni britanniche. Tenace, volitivo, intransigente, sprezzava i consigli di moderazione di re Leopoldo e la resistenza che gli opponevano J. Russell e i più influenti tra i whigs. "Il solo uomo di stato dell'Inghilterra" l'aveva chiamato Talleyrand: l'Europa s'accorgeva di aver di fronte uno dei più forti uomini politici del tempo.
L'accordo con la Russia non gl'impediva intanto di ostacolare questa nel medio ed estremo Oriente (azione nell'Afghānistān, guerra con la Cina).
La caduta del ministero Melbourne fu salutare nei riguardi dei rapporti Francia-Inghilterra (1841). Assente il P., la politica del suo successore, Aberdeen, chiarificò la situazione, aiutata dalla sostituzione in Francia del Guizot al Thiers. Ma, assente dal potere, il P. controlla e critica la politica del ministero Peel, al quale rimprovera il trattato Ashburton con gli Stati Uniti, la debolezza mostrata verso la Francia nell'affare Pritchard, missionario e console inglese espulso dai Francesi da Tahiti (1844). Intanto viaggia in Europa, stringe rapporti con varî uomini politici del continente, finché nel luglio 1846 può riprendere la direzione del Foreign Office nel ministero Russell. La regina, il Russell, i whigs speravano che l'esperienza recente avesse modificato il carattere di "lord incendio". Vana illusione: la questione dei matrimonî spagnoli, in cui la sua politica non riuscì a trionfare, risuscitò l'ostilità del P. contro la Francia. La caduta della monarchia orleanista fu salutata gioiosamente da quel passionale, che nella crisi del 1848 non nascose le sue simpatie per la causa rivoluzionaria. Contrario all'Austria e alla Russia, sostiene finché può i Siciliani contro il re di Napoli, il Piemonte contro Vienna e si dichiara favorevole al pacifismo repubblicano di Lamartine. "Io amerei - scriveva al re del Belgio nel giugno 1848 - vedere tutta l'Italia settentrionale unita in un solo regno che comprendesse il Piemonte, Genova, la Lombardia, Venezia, Parma e Modena. Una tale sistemazione contribuirebbe alla pace d'Europa costituendo tra la Francia e l'Austria uno stato neutro abbastanza forte per farsi rispettare e non portato a simpatizzare per le sue abitudini e per il suo carattere né con la Francia, né con l'Austria".
La sua politica favorevole all'Italia e all'Ungheria insorte non incontra il favore della corte né quello dei suoi colleghi, irritati perché troppo spesso il P. aveva agito a loro insaputa, impegnando la loro responsabilità. Né egli era disposto ad accettare il controllo del premier, che la regina aveva tentato d'imporgli. Anche dopo il fallimento della nuova campagna di guerra del 1849 (che egli aveva sconsigliata), il P., che s'era illuso sulla possibilità che l'Austria cedesse la Lombardia a Carlo Alberto per denaro, restò fedele alla sua idea che gli Austriaci non avessero alcun diritto sull'Italia se non quello della forza e dichiarò che il Piemonte non doveva concludere una pace che fosse lesiva del proprio onore e della propria dignità.
Le simpatie per l'italia s'accompagnavano in lui a quelle per l'Ungheria e lo dimostrò quando il voto contrario dei suoi colleghi gl'impedì di ospitare a Broadlands il Kossuth.
Una politica troppo spesso personale e in contrasto con le più moderate tendenze ufficiali del governo doveva provocare una crisi. La famosa questione di don Pacifico, suddito inglese in contrasto con il governo greco, e le gravi misure prese contro la piccola Grecia per appoggiare le pretese del reclamante, suscitarono allarmate e minacciose proteste russe e francesi. Il 17 giugno la Camera dei lord colpì con un voto di biasimo la sua politica, ma il P. dodici giorni dopo riportò il più grande successo oratorio della sua carriera davanti ai Comuni. Superando il pretesto offertogli dalla faccenda di don Pacifico, il P. tenne avvinta per cinque ore la Camera con un'ardente, appassionata apologia di tutta la sua politica, affermando il diritto di tutti gl'Inglesi di essere difesi in tutto il mondo dal loro governo contro l'ingiustizia e il sopruso. Di fronte ai paesi europei sconvolti dalle rivoluzioni, menomati nel loro prestigio, egli seppe far risplendere il quadro di un'Inghilterra ordinata, saggia, potente, rispettata. Nel grande "Pam", che incuteva rispetto e ammirazione agli avversarî, gl'Inglesi riconobbero allora uno tra i più degni campioni del loro paese e ne furono fieri.
Ma il P. fu salvo solo per il momento. L'approvazione esplicita data senza consenso, anzi all'insaputa dei suoi colleghi, al colpo di stato di Luigi Napoleone, "fatto ardito e decisivo" ai suoi occhi, le frasi compromettenti con cui fece l'apologia della politica del principe presidente, il malcontento continuato della regina per l'eccessiva indipendenza dell'azione del P. precipitarono la crisi aperta dalla questione di don Pacifico. Le dimissioni del gabinetto Russell (dicembre 1851) tolsero di mezzo il preoccupante ministro, che non tornò più al Foreign Office.
Ministro degl'Interni nel gabinetto di coalizione Aberdeen, ne uscì per il contrasto sulle misure di riforma proposte dal Russell. Sentiva ormai avvicinarsi un'altra fase critica della questione orientale e voleva che l'Inghilterra fosse preparata e s'accordasse con la Francia. Decisa la guerra, tornò al ministero, finché la spinta dell'opinione pubblica fece sì ch'egli assumesse (5 febbraio 1855) la carica di primo ministro. Sorretto dal favore popolare, che vide incarnato in lui l'imperialismo britannico, guidò con inflessibile tenacia la guerra di Crimea, lottando contro la stanchezza francese, l'ambiguità austriaca, il preoccupante atteggiamento prussiano, favorendo l'alleanza piemontese, resistendo agli attacchi di Gladstone, dei radicali, di Disraeli e dei conservatori. E dopo la guerra, la cui fine gli assicurava la fiducia popolare, riprendeva le fila della sua vittoriosa azione in Persia e in Cina. Battuto ai Comuni sulla sua politica orientale, scioglieva la camera (1857) e con nuove elezioni rafforzava la sua maggioranza liberale. Caduto nuovamente sulla questione delle leggi repressive votate in seguito all'attentato Orsini, cedeva il posto a lord Derby (1858), ma poco più di un anno dopo tornava al potere. Favorevole a un deciso intervento inglese nella questione italiana (come dimostravano gli articoli della Morning Post da lui ispirata), svolse apertamente questa politica al suo ritorno al potere (giugno 1859).
Ma, se voleva l'Italia libera dall'Austria, non la voleva legata alla Francia. Accettava l'intervento francese, ma disapprovava Villafranca e contrastava l'idea del ritorno dei principi spodestati. Mai - scriveva al Persigny - mai l'Inghilterra si potrà associare a un patto così iniquo... L'Austria dovrebbe essere esclusa da ogni ingerenza politica e militare al di là delle sue frontiere". E nel memorandum dei primi del 1860 propugnava addirittura una triplice alleanza anglo-franco-sarda per assicurare la pace in Italia ed eliminare ogni minaccia alla tranquillità europea.
La cessione di Nizza e Savoia risuscitò le sue preoccupazioni antifrancesi al punto da fargli ritenere possibile una guerra con Napoleone. La spedizione dei Mille gli parve opportuna per ristabilire l'equilibrio mediterraneo turbato, e per questo seppe anche rinunciare all'idea di un regno separato delle Due Sicilie. Meglio l'unità d'Italia piuttosto che un Napoleonide a Napoli, e l'unità d'Italia voleva dire per lui anche cessazione del potere temporale, come affermò in un discorso del 1862.
La preoccupazione antifrancese lo rese anche contrario al progetto di taglio dell'Istmo di Suez e favorevole alla convenzione di settembre; il suo rigido nazionalismo britannico gli fece assumere durante la guerra di secessione d'America un atteggiamento contrastante con l'asserita neutralità (questioni del Trent e dell'Alabama). Negli ultimi anni la sua vita politica troppo esclusivista e troppo poco duttile (l'elogio funebre del conte di Cavour è significativo per quella che era la concezione palmerstoniana dell'uomo di stato) lasciò scorgere apertamente il suo lato debole. La guerra dei ducati e lo schiacciamento della Danimarca ruppero l'equilibrio baltico e non a vantaggio dell'Inghilterra, la quale, se poteva rallegrarsi dell'accentuato isolamento francese, non poteva non rendersi conto che anche la sua posizione era quella di un paese troppo orgogliosamente solo. Di qui la necessità di nuovi armamenti, mentre all'interno la riforma elettorale, avversata dal P., suscitava nuove passioni e nuove preoccupazioni.
Ma decretandogli la sepoltura a Westminster il popolo inglese riconosceva nel suo grande ministro il più saldo campione della potenza e della grandezza britannica dopo il Pitt.
Bibl.: Lord Dalling, The life of lord P., voll. 2, Londra 1870, fondamentale (completata per il periodo posteriore al 1847, a cura di E. Ashley, III e IV, 1874-75, ristamp. in 2 voll., 1879); Lloyd Sanders, Life of viscount P., ivi 1888; A. Laugel, Lord P. et lord Russell, Parigi 1877; B. K. Martin, The triumph of lord P., Londra 1926.