DORIA, Paolo Mattia
Nato a Genova il 24 febbr. 1667 da Giacomo e da Maria Cecilia Spinola, apparteneva al ramo dei Doria Lamba, che nell'ultimo secolo e mezzo aveva dato alla Repubblica ben quattro dogi.
"Ricco - ricorderà egli stesso Nell'arte di conoscer se stesso - di beni di fortuna ed abbondante di tutte quelle cose, le quali costituiscono nell'opinione degli uomini la felicità" (Manoscritti, IV, p. 413), trascorse invece un'infarizia solitaria ed infelice. A soli cinque anni perdeva il padre e dopo poco il fratello maggiore Agostino. Né fu più duraturo il sodalizio con le tre sorelle: nel 1680 la maggiore, Teresa, andava in sposa all'aristocratico Giovan Pietro Serra mentre le altre due, Paola e Giovanna, abbracciavano la vita claustrale. Lo sfaldarsi del nucleo familiare ebbe conseguenze non lievi sul processo formativo del D. alterandone la natura "intrinsecamente fervida, [il] temperamento un po' melanconico ma vivace", la propensione alla generosità, "alla virtù e alla gloria" (ibid., p. 413). Un'educazione frivola finì invece per schiacciare queste "belle e fortunate inclinazioni" e provocò deformazioni caratteriali di cui il D. si rammaricherà per tutta la vita. Ed anche nella vecchiaia accuserà la madre d'essere stata "de' miei errori ... la prima e principal cagione" (ibid., p. 412).
Anche se questo giudizio appare eccessivamente severo, certo è che Maria Cecilia Spinola non aveva la tempra dell'educatrice. Anch'essa di natali illustri ma debole di carattere, prodiga e superficiale, non seppe far altro che affidare l'educazione del figlio a medici e ad "educatori" bigotti, con la conseguenza di farlo crescere con il terrore delle malattie e della morte, prospettatagli dai gesuiti come "un positivo castigo agli uomini rei" (ibid., p. 414). Tra nevrosi, aspirazioni alla vita religiosa e scenate d'orgoglio con i maestri, al giovane furono inculcate anche le "maniere nobili e disinvolte" che si addicevano ad un aristocratico, "vivace e grazioso nelle conversazioni ... affabile con tutti, facile e condiscendente con gli amici" (ibid., p. 416). Ma gli fu insegnato anche ad essere orgoglioso, incurante del denaro, vanesio. Insomma, passo dopo passo, il giovane D. era divenuto "uno di quei Petits Maitres disinvolti e alla moda, ... li quali prendono per idea di virtù vere ed esistenti tutte le vanità ... e molte volte prendono con idee di virtù li vizj ancora" (ibid.).
Nel 1683 il D. intraprese con la madre un lungo viaggio per l'Italia, concluso dal carnevale veneziano del 1684. Nell'itinerario formativo del D. quel grand tour segnò una prima svolta: liberatosi parzialmente da fisime e scrupoli religiosi, divenne mondano e temerario, acquisendo "nuovi abiti di mente viziosi, ... li quali mi facevano mirare come idee di virtù la rilassatezza ne' sensi, la prepotenza con i deboli e la vendetta" (ibid., p. 421). Di ritorno a Genova petit-maître ebbe la ventura d'assistere al bombardamento della città ad opera della flotta di Luigi XIV, che in questo modo tentava di staccare la Repubblica dall'orbita spagnola. Se per i Genovesi quell'azione di guerra fu una sciagura, non così accadde per il D., che ebbe l'opportunità di conoscere e frequentare il governatore di Milano, Juan Tomás Enriquez de Cabrera conte di Melgar, accorso in difesa della città ligure. Politico di spicco ma anche militare esperto, il conte di Melgar favorì le propensioni mondane del giovane e lo iniziò alle scienze militari, incoraggiandone uno spirito bellicoso che, invero, rimase allo stato teorico. Non meno decisivo fu l'incontro con una "meritevole donna", della quale si innamorò perdutamente. La morte dell'amata prostrò il D. che, per sfuggire alla depressione, si diede a viaggiare per l'Italia, affrontando rischi e disagi. Nel corso di queste peregrinazioni visitò anche Napoli, dove ebbe modo d'apprezzare il governo del marchese del Carpio, cui forse l'aveva indirizzato il conte di Melgar. Nella capitale del Regno rimase però poco: mosso dall'irrequietezza continuò nel suo girovagare, dissipando in sei anni un patrimonio di 300.000 scudi.
Le difficoltà economiche cagionate dalla prodigalità sua e della madre lo indussero verso il 1690 a recarsi a Napoli per riscuotere alcuni crediti. L'impatto con la complessa situazione del Mezzogiorno non fu tuttavia dei più facili. Costretto a chiedere ai tribunali la liquidazione dei suoi crediti, per quasi un ventennio ebbe modo di sperimentare sulla propria pelle i guasti dell'ordinamento giudiziario, la cavillosità degli avvocati, la corruzione dei subalterni. Tra l'altro dovette anche addentrarsi, egli che era del tutto ignaro di leggi, nei meandri della scientia iuris. Con risultati non mediocri se qualche anno dopo, in un processo per la successione di Giovan Stefano Doria, riuscì a prevalere su Gaetano Argento, uno dei maggiori giuristi dell'epoca. L'apprendimento del diritto ma più ancora la frequentazione degli eruditi e sussiegosi magistrati che governavano il Regno segnarono la personalità del D. che sui "ministri" togati modellerà il suo ideale di governante e di legislatore.
Nella città partenopea non conobbe soltanto la polvere dei tribunaii. Le sue maniere e, soprattutto, la sua abilità di spadaccino gli attirarono la benevolenza del patriziato. A egli stesso a spiegarne i motivi: a Napoli erano "massime di cavagliero ... che fusse atto di disonore e di vergogna il non punire un uomo a sé inferiore quando si haveva da quello qualche offesa ricevuto, e che il perdonare generosamente fusse vergogna; ... ma poscia ... era massima d'estrema vergogna il non chiamare a duello un nobile a sé uguale quando da quello si era qualche offesa ricevuta" (ibid., p. 421). In una siffatta "scuola di puntigli" era naturale che il nobile genovese, per di più "duellista e vendicativo", fosse ben accolto. In meno di tre anni sostenne altrettanti clamorosi duelli e partecipò a risse che gli costarono anche la prigione. Ma sempre il suo nome era unito a quello dei rappresentanti più illustri e turbolenti della nobiltà.
Erano gli ultimi guizzi di una vita sregolata di cui, con il trascorrere del tempo, il D. avvertiva sempre più l'inutilità. Certo è che, a partire dal 1694, il suo nome non compare più nelle pagine dei diaristi come autore di bravate. Nel giro di qualche anno il gentiluomo dedito alla "scienza cavaglieresca" si trasformò in "filosofo metafisico". Su questa metamorfosi influirono elementi diversi. Non è da escludere che i provvedimenti del 1693 contro i beni dei genovesi consigliassero al D. una vita più appartata. Comunque alla necessità della prudenza dovette far riscontro il maturare d'inclinazioni sino ad allora trascurate o non coltivate a sufficienza: giunto a Napoli "solamente erudito nella rettorica" (Narrazione di un libro inedito, Napoli 1745, p. 7), prese subito l'abitudine di dedicare alcune ore del giorno alla lettura. A trasformare questo impegno ancora embrionale e compensativo in una vera e propria scelta di vita contribuì in maniera decisiva l'ambiente culturale napoletano verso il quale il D. si sentiva attratto. La sua cooptazione fra gli animatori della vita intellettuale fu comunque abbastanza rapida se nel 1696 lo si ritrova tra i poeti che si erano riuniti intorno al viceré per celebrare la guarigione di Carlo di Spagna. Ma il D. non limitò il suo intervento alle sole occasioni culturali e mondane né, invero, quelli erano tempi propizi alle celebrazioni.
Già sul declinare degli anni Ottanta un'agguerrita pattuglia di intellettuali, tutti imbevuti di cartesianesimo e di gassendismo, aveva preso a rinnovare lo statuto del sapere: "Tutti - dirà il D. stesso - erano della filosofia di Pier Gassendi seguaci, né altro si cantava che quel verso del poeta Lucrezio: Tangere, vel tangi nisi corpus nulla potest res. Si derideva la setta di que' filosofi che sostengono per vere le conoscenze intellettuali e ... in quel tempo non si vantava altro che il senso e la materia, e si rifiutava tutto ciò ch'era l'oggetto dell'intelletto spirituale e puro" (Difesa della metafisica degli antichi filosofi contro il signor Giovanni Locke ed alcuni altri autori, Venezia 1732, p. 2). Per la loro attenzione verso l'analisi ed il particolare, per l'affermazione del primato della prassi e per il riconoscimento dell'utilità, questi novatores si attirarono le persecuzioni della Chiesa, timorosa che il loro sensismo virasse verso posizioni esplicitamente materialistiche.
Il grande processo del 1694 contro gli "ateisti" dissolse l'illusione di quanti ritenevano di poter coniugare tradizione e progresso e divenne occasione per uno scontro che imponeva a tutti una scelta di campo. Ed anche il D. fece la sua, schierandosi tra i "moderni" che si riunivano nella casa di Nicolò Caravita, un nobile giureconsulto che era stato tra i protagonisti della lotta antinquisitoriale del 1693.
Ad introdurlo nella cerchia del Caravita era stato forse Federico Pappacoda, un aristocratico con il quale condivideva il passato di "duellista". Fu in questo circolo che il D. maturò un cartesianismo che, venato com'era da suggestioni platoniche, era più di facciata che sostanziale. Quella frequentazione gli dette anche l'opportunità di conoscere Giambattista Vico, appena ritornato dal Cilento dopo nove anni d'assenza dalla capitale. Tra i due s'instaurò una "fida e signorile amicizia" che nasceva da una sostanziale convergenza di vedute. Vico nell'autobiografia scriverà anzi che il D. "fu il primo con cui poté cominciare a ragionar di metafisica", intravedendo nella sua adesione al filosofo di La Haye "lumi sfolgoranti di platonica divinità" (Opere filos., a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971, p. 20).
Per sfuggire agli attacchi dei tradizionalisti ed assicurarsi uno spazio di libertà, dal Caravita e dal Pappacoda partì l'idea di un'accademia che, sotto gli auspici del viceré Medinacoeli, raccogliesse il meglio della cultura. La gestazione fu lunga e laboriosa. Ai promotori toccò innanzi tutto rabbonire l'arcivescovo Giacomo Cantelmo, fiero avversario d'ogni modernismo. Poi dovettero vincere l'inerzia e le titubanze del duca di Medinacoeli: ma finalmente nel marzo del 1698 l'Accademia Palatina era solennemente inaugurata. Ed il D. era tra i diciotto membri effettivi. Un onore, questo, che egli ricambiò con un'intensa partecipazione all'attività del sodalizio, del quale sarà anche principe.
Quale che sia il giudizio da darsi all'Accademia Palatina, certo è che essa costituì un importante punto d'aggregazione e di riferimento per la cultura napoletana, il solo possibile dopo la condanna degli "ateisti". Di quel tanto di autonomia che un'istituzione ufficiale poteva garantire, gli accademici fecero un uso quanto meno intensivo. Se i contributi scientifici furono scarsi e di qualità non eccelsa, non altrettanto può dirsi per quelli storico-politici, numerosi e tali da esprimere al meglio la capacità progettuale e di critica degli intellettuali meridionali.
Ne sono buona prova le lezioni del D. che, oltre ad anticipare alcune tematiche delle opere più mature, mostrano come l'erudizione antiquaria fosse in realtà strumento di dialettica politica. Nelle quattro memorie Sopra la vita di Claudio imperadore analizzava, con lo sguardo rivolto al presente, il delicato equilibrio tra il potere del sovrano e quello del Senato, ossia il rapporto intercorrente tra il principio assolutistico e l'ideologia "ministeriale". Si trattava di un tema assai dibattuto nella giuspubblicista del Regno, che sin dal primo decennio del sec. XVII s'era attestata nell'affermare la necessità di un contemperamento tra la funzione del principe e quella delle magistrature. È in questo orizzonte ideologico, tipico della respublica dei togati, che il D. muove la propria analisi sostenendo, tra l'altro, la supremazia della nobiltà per "virtù" su quella di "stirpe". Che avesse adottato la problematica formulata dalla cultura giuridico-politica è peraltro confermato dalle lezioni d'argomento militare (Dell'arte militare, Del conduttor degl'eserciti, Del governatore di piazza, Della scherma), nelle quali demoliva il fondamento stesso dell'ideologia nobiliare. Per il D. l'esercizio bellico non doveva essere appannaggio della "nobiltà di spada" e dei suoi miti: la guerra era da condursi con criteri scientifici, mediante l'applicazione delle scienze. Né il valore temerario degli antichi condottieri poteva essere preso a modello: il comandante militare doveva essere un tecnico, prudente ed in grado di utilizzare al massimo il potenziale umano di cui disponeva. La tesi secondo la quale il buon condottiero agisce da buon filosofo, ossia facendo scaturire i risultati pratici da un'approfondita analisi teoretica, sarà riaffermata in maniera più esplicita in Ilcapitano filosofo, pubblicato a Napoli nel 1739.
Proprio perché rispondenti ad una ideologia ormai largamente diffusa le lezioni accademiche procurarono al D., che sul campo di battaglia non c'era mai stato, una solida fama di stratega. Tanto che nel 1703 il viceré duca di Villena gli chiedeva di partecipare come osservatore ai lavori degli ingegneri francesi, incaricati di prevenire uno sbarco anglo-olandese con una rete di moderne fortificazioni. Ma il D. evitò accuratamente di schierarsi tra i pretendenti al trono. La guerra di successione, insomma, non lo toccò che marginalmente. Ebbe ottimi rapporti con i Francesi ed altrettanto con gli Austriaci, condividendo le speranze di quanti ritenevano che il mutamento dinastico avrebbe giovato alla situazione del Regno. Il generale entusiasmo lo aveva contagiato al punto da indurlo a partecipare in prima linea, il 21 febbr. 1708, alla solenne "cavalcata" che accoglieva la moglie del viceré Daun.
L'anno successivo pubblicò la Vita civile e l'educazione del principe, Francfort [sic], s.d. [ma Napoli, 1709].
Scritta di getto in pochi mesi, l'opera evidenzia le ambiguità teoretiche dell'autore che, come esattamente notava un contemporaneo, (4 non ha inteso il Cartesio, o ... ad arte ne tronca o perverte il senso" (cit. in Ajello, Diritto, p. 104). Ed in effetti nella Vita civile l'analisi della società e dello Stato si muoveva entro una "concezione gnoseologica di tipo adeguazionistico, secondo l'insegnamento aristotelico-scolastico" (ibid.). Per il D., insomma, il mondo non poteva essere che quello "dato" e tuttavia da rimodellarsi secondo valori eterni e resi comprensibili dalla grazia divina. Criticando Tacito e Machiavelli sosteneva che la politica non doveva essere modellata "sopra l'idea degli uomini quali sono" bensì sulle "virtù, il giusto l'onesto" (Vita civile, p. 6, ed. Augusta, 1710). Tali parametri di riferimento non potevano lasciare spazio alle passioni, laddove le naturali tendenze dell'uomo sono "l'amor proprio, la volontà di emendarsi" (ibid., p. 22). In quest'ultimo elemento è l'essenza della vita civile, intesa come "l'ordine dell'umana mente che riduce ad armonia le passioni" (ibid., p. 105). Da questo cognitivismo etico scaturisce la visione politico-costituzionale del D., oscillante tra organicismo e platonismo: "nella Repubblica - scriveva nell'Introduzione - i filosofi son la mente, il popolo è il corpo" (p. 7). Ai filosofi ed ai giureconsulti, proprio in quanto depositari della conoscenza e del giusto, spettava il compito di regolare la società e renderla virtuosa. Entro tale contesto il principe-legislatore doveva esercitare il suo potere, servendosi di essi come "braccia" (ibid., pp. 108 s.). Ma, notava il D., anche il magistrato "dev'esser legiSlatore, acciò in tutti i casi particolari, senza bisogno di particolar legge, sappia giudicare sulla norma degli universali e della ragione" (ibid., p. 314). L'avversione del D. ad un assolutismo non temperato da un Senato di magistrati emerge anche dal trattato pedagogico, nel quale sosteneva che il sovrano doveva essere educato alla virtù: Dio, patria e gloria costituivano, in ordine decrescente d'importanza, i valori sui quali formare un futuro regnante.
Si è detto come sul piano della mera teoresi la Vita civile riflettesse l'ansia di rinnovamento suscitata dal mutamento dinastico. Altrettanto può dirsi di una Relazione dello stato politico, economico e civile del Regno di Napoli (a cura di V. Conti, Napoli 1973) che il D. aveva scritto tra l'estate e l'autunno del 1709 per suggerimento del reggente Gennaro D'Andrea.
Nell'alluvionale produzione doriana lo scritto riveste particolare importanza perché, oltre a delineare ulteriormente la collocazione del filosofo, mostra quale frattura attraversasse l'establishment. Un gruppo di giuristi afrancesados, "fautori dei moderni, entusiasti sostenitori delle scienze particolari e pratiche, poco attenti agli antichi valori di virtù e molto alle dimensioni economiche, politiche e sociali" (Ajello, Diritto, p. 121), premevano per un effettivo rinnovamento delle strutture istituzionali ed economiche. Questo progetto, tendente al ridimensionamento del Collaterale dominato dal D'Andrea, era stato precisato da S. Biscardi in uno scritto che era circolato anonimo. Per reagire all'attacco sferrato dagli afrancesados alla vecchia respublica iurisconsultorum il D'Andrea s'era rivolto al D. che, difatti, nella Relazione tesseva l'apologia dei magistrati dotti e virtuosi. Il rinnovamento, insomma, doveva avvenire nella continuità con il passato, salvaguardando quanto di positivo il Viceregno spagnolo aveva espresso. Non a caso al vecchio Collaterale - organo preposto ad "invigilare a i costumi degli uomini ... e di formar massime di Stato, ... gl'ordini viziosi deprimendo, e i virtuosi inalzando" (ibid., p. 84) - il filosofo genovese affidava il compito di gestire l'eventuale riforma.
La "giubilazione" del D'Andrea suggerì al D. l'opportunità di non mandare alle stampe una Relazione che lo collocava troppo scopertamente tra gli "antichi". Ma che tale fosse considerato è dimostrato dalla circostanza che nel 1710 il Vico dedicava all'amico il De antiquissima Italorum sapientia, riconoscendogli il merito d'aver dimostrato "unus recentiorum omnium primum verum in humanos usus" (Opere filos., p. 61). Un'attestazione imbarazzante: nella Napoli degli afrancesados il clima non era propizio ai metafisici. Forse per reagire all'emarginazione il D. si dedicò alle scienze, pubblicando le Considerazioni sopra il moto e la meccanica de' corpi sensibili e de' corpi insensibili (Augusta 1711), cui seguì una Giunta di P. M. Doria al suo libro del Moto e della Meccanica (ibid. 1712).
In questi opuscoli il D. aveva tracciato un vero e proprio modello epistemologico, nel quale contestava la validità del metodo galileiano e la distinzione cartesiana tra estensione e pensiero. Ed indicava nell'"uno immateriale" di chiara derivazione platonica il fondamento ontologico della conoscenza, considerando "una vera e propria degenerazione scientifica la geometria analitica cartesiana e il moderno calcolo infinitesimale" (Ferroni, p. 537). Si trattava di tesi singolari che, criticate da più parti, accentuarono l'isolamento del Doria.
Solo con la morte del Biscardi (1711) C per effetto della conseguente ventata conservatrice l'astro del D. tornò a brillare. Nel secondo decennio del secolo lo si ritrova ad imperversare in tutti i circoli culturali della capitale, tra nobili e femmes savantes. E gli attestati di stima per le opere di contenuto filosofico gli piovevano dagli ambienti culturalmente più disparati. Nel 1716 Jean Le Clerc: paragonava la Vita civile alle opere di Grozio e di Pufendorf e giudizi altrettanto positivi formulavano i redattori degli Acta eruditorum e del Giornale de' letterati; G. V. Gravina lo definiva in uno dei suoi Iambi "nostri magni secli gloria" e nella traduzione della Vie de M. Descartes di A. Baillet Paolo Francone lo salutava come il fondamento nel "quale parmi che veramente si appoggi in cotesta città la scuola cartesiana". In effetti dopo il ritorno in Calabria di Gregorio Caloprese il D. aveva preso le fila di quanto rimaneva della "setta renatista", anche se il rapporto con la filosofia del francese rimaneva incerto ed ambiguo. Dell'orientamento anticartesiano espresso nelle Considerazioni si è detto. Ma le riserve doriane andavano ben oltre, investendo l'essenza stessa del pensiero critico. Al punto da indurlo ad interrompere la stesura di un commento alle Méditations: l'opera gli era apparsa come un pericoloso veicolo verso lo spinozismo.
Perennemente in mezzo al guado, suggestionato da un platonismo che di fatto contraddiceva un cartesianismo epidermico, i consensi più entusiasti li raccoglieva da un gruppo di nobili dame. Per queste sue "scolare" pubblicava nel 1716 i Ragionamenti ne' quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all'uomo inferiore, dedicati ad Aurelia d'Este duchessa di Limatola (Francfort [sic] ma Napoli).
Uno scritto singolare, questo, nel quale sosteneva la parità dei sessi nel godimento dei diritti naturali. La storia mostrava come le donne potessero più che degnamente governare o essere fondatrici di grandi imperi. Ma non potevano essere legislatrici: il condere leges presupponeva una conoscenza, insieme storica e filosofica, dei sistemi normativi che le donne non potevano avere per motivi fisiologici. Riemergeva, anche in questa occasione, un motivo costante nella produzione del D., ossia il primato del giureconsulto-filosofo, quale Gaetano Argento - "prudente ed erudito legista e ... sapientissimo legislatore" - aveva impersonato. Erano anzi questi esempi a dimostrare quanto avesse sbagliato Cartesio nel sostenere che Dio aveva dato a tutti "eguale abilità per intender le scienze", laddove "Iddio non ha ugualmente a tutti gli uomini distribuito e perciò vediamo che molti non son capaci nelle scienze" (ibid., pp. 344 s.). Che una certa diseguaglianza fosse nell'ordine divino della natura, il D. lo ribadiva nella Soluzione di un problema nel quale si cerca d'indagare la cagione per la quale le donne ... non hanno mai avuto alcuna parte nel governo politico (Manoscritti, IV, pp. 53-124), scritta per rintuzzare le perplessità delle sue "troppo ... incontentabili donne". Verso di loro il D. si sentiva attratto, le considerava interlocutrici privilegiate, forse le sole che lo comprendevano ed apprezzavano. Eppure, per una delle tante contraddizioni del suo carattere, non varcò mai la soglia del matrimonio, che considerava una "legge dura" e dall'incerta definizione teologica (cfr. Rotta, p. 937).
A pochi anni dalla Vita civile le opere sulla condizione femminile mostrano su quale china corresse il pensiero doriano. Come peraltro riconoscerà egli stesso, già verso il 1718 si considerava un "filosofo metafisico e mattematico" che seguendo Platone aveva pressoché "distrutto li saggi di filosofia del signor Giovanni Locke ed in parte ancora la filosofia di Renato Des-Cartes" (Manoscritti, IV, p. 423). A condurlo nello schieramento degli "antichi" contribuì la valanga di critiche che accolse il Nuovo metodo geometrico (Augusta 1714). Sorte anche peggiore ebbero i Dialoghi ... ne' quali ... s'insegna l'arte di esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica la conoscenza del vero e del falso (Amsterdam 1718), dove tra l'altro esaltava il sillogismo "nel quale si contiene la perfetta unità" (dall'Introduzione). Negli anni seguenti pubblicò varie opere geometricomatematiche, che gli procurarono una serie di feroci stroncature da parte degli Acta eruditorum di Lipsia. Il D. rispose sdegnosamente (Conti, Le polemiche, p. 192), e ne attribuì la colpa all'autorevole matematico Guido Grandi, amico di quegli eruditi (C. Galiani a G. Grandi, s.d., in Bibl. univ. di Pisa, Mss. Grandi, 91, c. 494v), monaco camaldolese, magna pars della Sapienza pisana e corifeo della cultura cattolica italiana.
Ma era un falso pretesto: a Napoli circolavano giudizi ancora più duri. Un sonetto, dovuto forse alla penna ostile di Giacinto De Cristofaro, si chiudeva così: "Di rispondere a te nessun si sogna / de' nostri, e strano è assai che Lipsia mandi / risposta a un uom che 'l matto ognun lo noma" (ibid., s.d., c. 507, ma altre durissime critiche anche nelle lettere 28 genn. 1729, c. 488v e s.d., c. 493v). La rottura con i "moderni" era definitiva e Celestino Galiani comunicò a G. Grandi l'edizione completa delle Opere matematiche (2 voll., Venezia 1722-26) scrivendo che "il Doria ha ristampato tutte in un corpo le sue coglionerie" (cit. in Ferroni, p. 533).
La pubblicazione nel 1724 dei Discorsi fisici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e de moderni (Venezia, ma Napoli) rese esplicita la frattura con Cartesio, accusato di un "orientamento sensistico, materialistico, particolarisfico e quindi scettico ed incapace di raggiungere la vera essenza delle cose" (ibid., p. 13 e passim). Gli ultimi legami con i "moderni" si erano così recisi: ormai ufficialmente tra gli "antichi", il D. poteva proseguire la sua controrivoluzione scientifica.
Poco più tardi, nel 1733, fu rifondata con l'autorizzazione del Collaterale l'Accademia degli Oziosi, che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto bilanciare l'influenza dell'Accademia delle scienze creata da C. Galiani. Eletto "censore" del sodalizio, il D. vi profuse le sue energie discettando di "bellica antica e moderna", di diritto romano, di filosofia della storia. Non mancò tuttavia di sferrare violenti attacchi contro la scienza moderna. Pare anzi che per far prevalere le sue tesi non avesse esitato a denunciare all'Inquisizione il Galiani. Forse era soltanto una calunnia tendente a screditare il D. e l'Accademia che, abbandonata anche dal Vico, divenne presto il ridotto di una cultura ormai svalutata. Ma per l'ormai anziano intellettuale l'Accademia costituì l'ultimo palcoscenico dal quale divulgare il suo "platonismo pratticabile". La grande svolta era ormai prossima: l'avvento al trono, nel 1734, di Carlo di Borbone ed il successivo decennio di politica assolutistica e mercantilistica misero in crisi la visione sintetica e moralistica del Doria. Il nuovo Stato non era più quella respublica iurisconsultorum che egli aveva difeso nella Relazione del 1709. Alla praestantia dei "virtuosi" e dotti magistrati s'era sostituita quella dei segretari di Stato ed in particolare di José de Montealegre, un afrancesado fautore della produzione e dei commerci nonché libertino notorio, che rappresentava il rovescio del ministro-legislatore teorizzato dal Doria.
Culturalmente isolato ed incline alla misantropia, egli non poteva che avversare la nuova situazione. E lo fece alla sua maniera scrivendo nel 1739 il Politico alla moda (Manoscritti, V, pp. 26-131).
Formalmente rivolta contro la strapotenza dei "favoriti" - una categoria di politici che il D. vedeva impersonati dal cardinale André-Hercule de Fleury, il precettore e ministro di Luigi XV - l'opera finiva per contenere una critica serrata alla nuova dinastia ed ai sistemi che aveva impiegato per impadronirsi del Regno. Severo il giudizio su Elisabetta Farnese che per motivi egoistici aveva spinto il figlio alla conquista, circondandolo di "ministri di Stato in tutto a sé addetti ed ubbidienti". Sulle qualità di questi governanti il D. non aveva dubbi: essi erano "della specie di tutti gli altri che in questo presente tempo governano, cioè sono stati tutti seguaci della politica naturale, prattica e mercantile, ed anco cabalisti" (ibid., p. 64). Come esempio di avvedutezza indicava Vittorio Amedeo I I che nel suo piccolo Stato combatteva il lusso e promuoveva la dottrina legale (ibid., p. 72).
L'identificazione fra mercantilismo e corruzione dei costumi fu ripresa in un'opera del 1742, La Politica mercantile, Manoscritti, IV, pp. 277-410), scritta per suggerimento di Francesco Ventura, uno degli ultimi e più prestigiosi rappresentanti della respublica iurisconsultorum.
"Tutta la Terra è governata da tiranni principi" (ibid., p. 358) sosteneva, esprimendo con ciò stesso la crisi del suo pensiero, l'incapacità a comprendere i mutamenti che si erano prodotti. Il mondo che egli vagheggiava era etico, governato da sovrani virtuosi e da legislatori sapienti. Invece si viveva un tempo in cui "li magistrati, li capitani, li sacerdoti, e tutti gli ordini che governano hanno diviso la filosofia dalla politica per unire alla politica la sola prattica" (ibid., p. 360). La scissione tra politica e valori aveva anzi prodotto una trasformazione perversa della regalità: "i principi - scriveva - vogliono governare lo stato colla politica de mercadanti, e non con quella de filosofi". Questi ultimi erano stati anzi soppiantati da tcabbalisti e usurieri, i quali proponendo sempre nuove imposizioni sovra i popoli accellerano la ruina del principe" (ibid., p. 303). Le conseguenze erano sotto gli occhi di tutti: le nazioni più ricche opprimevano le più deboli, i principi vessavano i vassalli e se li scambiavano "in quella guisa appunto che nelle fiere i mercadanti si cambiano fra essi le pecore, gli bovi e gli altri animali" (ibid., p. 306). Nel generale disordine tutta la letteratura filosofica, da Platone a Pufendorf, poteva essere tranquillamente bruciata, "perché in questo nostro tempo si corre dietro solamente alla perniciosa filosofia di Locke e di Newton e si pratica solamente la politica mercantile" (ibid., p. 306).
Era quasi un'abdicazione, lo sfogo di un uomo il cui unico vanto era ormai d'essere "disapprovatore delle massime e de' costumi del presente tempo" (ibid., IV, p. 424). E come tale visse gli ultimi anni quando, malato ed in ristrettezze economiche, passava le giornate dettando a due segretari opere nelle quali parlava soprattutto di se stesso. Non che si attendesse la loro pubblicazione. Si limitò a depositare quelle carte nella Biblioteca di S. Angelo a Nido, nella speranza che qualcuno raccogliesse ii suo messaggio.
Si spense il 25 febbr. 1746 in quella Napoli da cui per quasi mezzo secolo non si era mai allontanato.
Non per questo cessarono le sue traversie. Pochi giorni prima di morire aveva fatto prelevare dalla Biblioteca di S. Angelo un manoscritto composto verso il 1741, l'Idea di una perfetta repubblica. Nel testamento disponeva che l'opera fosse stampata a spese del cugino principe di Angri, a saldo di un vecchio debito. Quando dopo qualche anno, nel 1753, il principe si decise ad adempiere al legato, il volume fu sequestrato: i revisori vi avevano trovato affermazioni contro "Dio, la religione e la monarchia". E per mano del boia, il 13 marzo 1753, furono bruciati il manoscritto, le bozze e le oltre mille copie dell'opera. Di essa non restano che le 34 "proposizioni" incriminate, tanto quanto basta però a comprendere i motivi di un provvedimento grave ed a Napoli inusitato: le critiche del D. investivano il celibato del clero, l'indissolubilità del matrimonio, la castita, l'eternità delle pene inflitte ai dannati l'intera visione etico-politica dei gesuiti. Inoltre riaffermava le sue vecchie tesi sulla necessità che le magistrature bilanciassero l'arbitrio dei sovrani e delle corti. Il governo ideale rimaneva per il D. quello di Sparta e della Roma repubblicana, "perché posto il governo in mano agli uomini, è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo contro la tirannia" (ibid., p. 939). Si trattava, insomma, di una summa del pensiero doriano, tutt'altro - come pure notò un contemporaneo - che l'ultima stranezza di un vecchio "totalmente rimbambolito" (Conti, p. 96 n. 6). E se ne accorsero i giuristi napoletani che furono i soli a protestare per il rogo dell'Idea, sostenendo che quel fuoco avrebbe dovuto incenerire ben altro "che i libri di quel savio e cordato vecchio di Doria, di cui s'infama la venerata memoria" (Ajello, p. 124).
L'arte di conoscere se stesso e gli altri inediti brancacciani sono citati dall'edizione curata dall'ist. di filosofia dell'univ. di Lecce, Manoscritti napoletani di P. M. Doria, Galatina 1979-82 (vol. I a cura di G. Belgioioso; II e V di M. Marangio; III di A. Spedicati; IV di P. De Fabrizio). Per la Relazione mi sono invece avvalso del testo curato da V. Conti, Massime del governo spagnolo di Napoli, Napoli 1973, con l'intr. di G. Galasso. Per la datazione dell'opera cfr. la recensione di R. Ajello in Boll. del Centro di studi vichiani, IV (1974), pp. 20-26.
Fonti e Bibl.: Per la biografia cfr. S. Rotta in Politici ed economisti del primo Settecento. Dal Muratori al Cesarotti, V, Milano-Napoli 1978, pp. 837-72, donde ho tratto anche le proposizioni relative all'Idea di una perfetta Repubblica, ibid., pp. 928-47. Un importante contributo alla ricostruzione del pensiero doriano è venuto da P. M. D. fra rinnovamento e tradizione. Atti del Convegno di studi, Lecce, 4-6 nov. 1982, Galatina 1985; particolarmente significativi ai fini della presente ricostruzione i contributi di R. Ajello, Diritto ed economia in P. M. D., pp. 23-126; G. Belgioioso, Note sul D. inedito, pp. 127-211; G. Galasso, P. M. D.: cultura e filosofia del riformismo, pp. 289-309; G. Ricuperati, P. M. D. e il suo tempo: un bilancio storiografico, pp. 365-88; M. Torrini, Le passionidi P. M. D. Il problema delle passioni dell'animo nella "Vita civile", pp. 433-54. Un ampio dibattito Intorno alla recente pubblicazione dei manoscritti doriani è nel Boll. del Centro di studi vichiani, XVII-XVIII (1987-1988), pp. 262-303, con interventi di G. Belgioioso, E. Nuzzo, G. Papuli, M. Torrini. Cfr. anche E. Vidal , Il pensiero civile di P. M. D. negli scritti inediti. Con il testo del manoscritto "Del commercio del Regno di Napoli", Milano 1953; S. Bono, Studi intorno a P. M. D., in Rassegna di filosofia, IV (1955), pp. 24-32; R. Shackleton, Montesquieu et D., in Revue de littérature comparée, LVII (1955), pp. 173-83; M. Capurso, Accentramento e costituzionalismo, Napoli 1959, pp. 153-77; N. Badaloni, Introduzione a G. B. Vico, Milano 1961, pp. 273-81; F. Torcellan Ginolino, Il pensiero politico di P. M. D. ed un interessante profilo storico di Vittorio Amedeo II, in Bollett. stor.-bibl. subalpino, LIX (1961), pp. 213-34; F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, pp. 42-46 e ad Ind.; P. Zambelli, Il rogo postumo di P. M. D., in Ricerche sulla cultura dell'Italia moderna, Bari 1973, pp. 149-98; R. Ajello, Arcana iuris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976, part. alle pp. 391-427; G. Costa, Le antichità germaniche nella cultura italiana da Machiavelli a Vico, Napoli 1977, pp. 308-16 e passim V. Conti, P. M. D. Dalla repubblica dei togati alla repubblica dei notabili, Firenze 1978 (con ediz. critica del Politico alla moda); Id., Le polemiche matematiche di P. M. D., in Boll. del Centro di studi vichiani, XI (1981), pp. 185-98, con tre lettere del D. in App.; V. Ferrone, Scienza natura religione. Mondo newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Napoli 1982, part. alle pp. 525-45; Id., Seneca e Cristo: la "Respublica christiana" di P. M. D., in Riv. stor. ital., XCVI (1984), 1, pp. 568; E. Nuzzo, Verso la "Vita civile". Antropologia e politica nelle lezioni accademiche di G. Caloprese e P. M. D., Napoli 1984; Galileo e Napoli, a cura di F. Lomonaco-M. Torrini, Napoli 1987, ad Indicem. Un esauriente Saggio di bibliografia dariana èquello di M. Marangio, in Manoscritti, cit., V, pp. 477-99. Il Rotta (cit., p. 872) segnala la segnatura delle dodici lettere che restano dell'epistolario (otto a G. Grandi, due indirizzate forse ad A. Valsineri, una a J. M. Schulenburg, una ad H. Sloane). Verso il 1720 F. Solimena aveva ritratto dal vivo il Doria. Da quella tela, ormai scomparsa, A. Baldi trasse l'incisione che compare nelle Opere matematiche e nella Difesa della metafisica degli antichi, Venezia 1732.