Paolo Mattia Doria
Paolo Mattia Doria ha inteso la filosofia come un sapere dal quale attingere i precetti utili a formare il principe virtuoso e a edificare la ‘perfetta repubblica’. Una filosofia che, proprio in quanto strettamente legata all’impegno civile, ha usato in un primo, più fecondo, momento come correttivo delle «perniciose massime» di Niccolò Machiavelli. Nel corso della sua vita, e nel variare delle sue opzioni filosofiche (dall’iniziale cartesianismo al platonismo), Doria non abbandonerà quest’idea e mostrerà, conseguentemente, un’assoluta ostilità a quelle filosofie antiche e moderne e a quelle forme di religiosità che, a suo giudizio, ai mali del mondo opponevano il valore della fuga dal mondo.
Paolo Mattia Doria nasce a Genova il 24 febbraio 1667 da Giacomo, del ramo dei Doria Lamba che «nell’ultimo secolo e mezzo aveva dato alla Repubblica ben quattro dogi» (Rovito 1992, p. 438), e da Maria Cecilia Spinola, donna di gran casata e piena dei pregiudizi del suo stato. È
ricco di beni di fortuna ed abbondante di tutte quelle cose, le quali costituiscono nell’opinione degli uomini la felicità d’uno de’ primi nobili cittadini di un’illustre repubblica, com’è quella di Genova (L’arte di conoscer se stesso, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 4° vol., a cura di P. De Fabrizio, 1981, p. 413).
Si descrive come fanciullo che unisce all’indole ‘fervida’, al temperamento melanconico, all’amore per la virtù e per la gloria una salute cagionevole e un timore delle malattie che lo accompagnerà sino all’età adulta. Attribuisce alla madre («Io ho avuto la disgrazia di essere stato educato da mia madre la quale rimase vedova quando mio padre mi lasciò nell’età di cinque anni») l’educazione ‘vana’ e ‘difettosa’ ricevuta:
Mia madre mi educava col medico sempre a lato […]. Adesso che son divenuto vecchio […], invece di consultare ogni giorno con un medico intorno alla mia salute, consulto con due (p. 413).
È ancora lei a trasmettergli, «dalla prima infanzia», i vizi della prodigalità e dell’ambizione e non «quegli abiti di economia, e di risparmio, li quali accostumano i fanciulli alla virtù dell’economia» (p. 416); lo affida ai gesuiti, presso i quali «formai abiti di mente che m’inclinavano alla divozione», ma in seguito si preoccupa «che i Gesuiti mi pescassero, e mi facessero far gesuita» (pp. 420-21).
Queste e altre vicende biografiche sono affidate a un testo incompiuto e rimasto inedito, L’arte di conoscer se stesso. Doria, però, in questo testo non sembra tanto interessato a scrivere la sua autobiografia quanto a far emergere, dal resoconto dell’educazione sbagliata che gli è stata impartita, quale debba essere una buona educazione, volta a formare un buon cittadino. Solo un educatore «metafisico» oppure, che è lo stesso, platonico, può riuscire a impartire un’educazione improntata alla «morale virtù», ai valori del vivere civile:
Se il Maestro che mi educava fosse stato metafisico avrebbe conosciuto ch’è verissimo […] che il corpo umano è soggetto a infiniti mali, e ciò perché la sanità è una, e li morbi […] sono infiniti […]; ma avrebbe conosciuto altresì che l’energia della natura vivente la quale per Platone è l’anima del mondo è così grande che fa un contrasto all’infiniti morbi (p. 414).
Quanto a Doria, privo com’è di un maestro platonico e affidato a cattivi educatori, percorre il tradizionale, completo cursus del petit-maître, il nobile fatuo e vanesio (Le petit-maître corrigé è il titolo di una commedia di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux del 1734): esce dalle mani della madre come «petit maître disinvolto e alla moda»; in viaggio per l’Italia diventa petit-maître «rilassato nei costumi», vanitoso, dedito ai sensi; a Napoli, infine, diventa petit-maître «cavagliero duellista, amoroso, cicisbeo, e litigante».
A Napoli avverrà, con la sua conversione al platonismo, la sua palingenesi: il petit-maître diventerà ‘filosofo metafisico’. Nella città partenopea arriva per caso, ventitreenne. Da Genova, del resto, il Doria si è allontanato di rado. Una prima volta («nel tempo che io non avevo più che sedici anni»), era stata la madre a condurlo in viaggio per «tutta l’Italia ed a passare un intero Carnevale a Venezia» (L’arte di conoscer se stesso, cit., p. 417). Al ritorno, aveva preso a frequentare il governatore di Milano, Juan Tomás Enriquéz de Cabrera, conte di Melgar, «prendendo grandissimo genio ed amore» per le esercitazioni militari e la vita negli accampamenti. Qui era nato il suo interesse per l’arte militare cui dedicherà, del resto, alcuni suoi scritti. Un secondo viaggio, durato sei anni, aveva intrapreso per sfuggire all’ipocondria a seguito del dolore causato dalla morte della donna amata:
Io […] fui da tale melanconia assalito ed oppresso che caddi in grave malattia d’una sfrenata ipocondria, dalla quale poi non mi sono mai in tutto liberato, ma perché ero giovane […] per sollevarmi mi diedi a viaggiare ora in mare ora in terra (L’arte di conoscer se stesso, cit., p. 419).
Una terza volta – sarà l’ultima – si mette in viaggio per Napoli, dove deve riscuotere dei crediti che aveva «con le Case de’ miei stessi Parenti, e con quelle ancora de’ Baroni Napolitani». Viene subito catturato dal clima della città e da perfetto «maître cavagliero duellista», duella tre volte inorgoglito, «a cagione degli applausi che ricevevo dai Napoletani per lo coraggio, e per la perizia che nell’arte del duello dimostravo d’avere» (p. 421).
Tre viaggi, tre autoritratti di un Doria che muta rimanendo se stesso giacché, come ha insegnato Marco Aurelio, ciascuno non può che andare de seipso ad seipsum e, inoltre, «gli abiti di mente che si formano dalla prima infanzia divengono natura e si fanno indelebili». Ed è così che l’inclinazione per le scienze («Il mio genio ai studi è stato così forte che né per cosa che alla sera, o al giorno mi sia avvenuta, ho mai intralasciato di studiare almeno due ore ogni mattina», p. 420) diventa in Doria un tratto della sua natura, pur non sottraendolo all’inconsapevole errore di scambiare i vizi per virtù. A Napoli rimane per il resto della sua vita: vi muore, settantanovenne, il 25 febbraio del 1746.
Divenuto ‘filosofo metafisico’, ha acquisito con la conoscenza del vero e del falso, del bene e del male la piena consapevolezza dei propri ‘vizi’ e della impossibilità di ‘emendarsi’: il «maggior profitto che [il filosofo] fa nella Morale è quello di conoscere il suo errore, ma di non poterlo mai in tutto emendare» (L’arte di conoscer se stesso, cit., p. 422). Questa consapevolezza dei propri limiti dà forza alla ‘sentenza’ di Seneca, «Educatio et disciplina virum faciunt»: i limiti dell’educazione ricevuta fanno risaltare la forza di abiti ‘virtuosi’ inculcati sin dalla più tenera età così per il privato cittadino come per il legislatore ‘metafisico’, ossia il principe. Questo sarà il tema cui verrà consacrato un piccolo libretto dedicato all’educazione del principe che, nel 1709, Doria pubblicherà in appendice alla sua opera di maggior successo, la Vita civile.
Nel 1690, quando Doria giunge a Napoli, l’Accademia degli Investiganti è stata soppressa già da un ventennio, mentre non è ancora concluso il ‘processo agli ateisti’ che aveva avuto inizio nel 1688 su denuncia, presentata il 21 marzo, da Francesco Paolo Manuzzi, collaboratore del conte di Conversano, al Sant’Uffizio di Napoli, contro Basilio Giannelli, Filippo Belli e quel Giacinto De Cristofaro che Giambattista Vico ricorda presente, con Nicola Galizia e lo stesso Doria, a un banchetto in casa Filomarino e che sarà forse l’autore di un sonetto anonimo in cui si irride alle scoperte matematiche di Doria («Di rispondere a te nessun si sogna / de’ nostri, e strano è assai che Lipsia mandi / risposta a un uom che ’l matto ognun lo noma», Pisa, Biblioteca universitaria, mss. Grandi, 91, c. 507r). Capo d’imputazione per gli accusati è di avere professato idee eretiche.
Nel clima arroventato dalle polemiche e dalle reciproche accuse di quegli anni, Giovan Battista De Benedictis pubblica, nel 1694, con lo pseudonimo di Benedetto Aletino, un gruppo di cinque Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica in cui attacca Arrigo Filostasio, ossia Filippo D’Anastasio (1656-1735) ‒ arcivescovo di Sorrento, amico di Giuseppe Valletta (1636-1714) e autore della traduzione in versi dei Principia philosophiae di René Descartes ‒, Francesco D’Andrea (1625-1698), Tommaso Cornelio (1614-1684), Leonardo Di Capua (1617-1695) e lo stesso Valletta. Ancora De Benedictis, in una lettera del 7 marzo all’arcivescovo di Benevento (cfr. P. Sposato, Le lettere provinciali di Biagio Pascal e la loro diffusione a Napoli durante la rivoluzione intellettuale della seconda metà del secolo XVII. Contributo alla storia del giansenismo e del giurisdizionalismo nel Regno di Napoli, 1960, p. 55), addita in Valletta e in Nicolò Caravita (1647-1717) i due maggiori animatori dell’opposizione all’Inquisizione. Il Caravita avrà un ruolo importante nel primo ventennio del Settecento: Domenico Confuorto lo indica come protettore della «setta nuova de’ letterati» che ‘tirava’ «al suo volere», e in un libello anonimo del febbraio 1696 (Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum) viene accusato di eresia e di ateismo. Infatti, come vedremo più avanti, Caravita, con Federico Pappacoda, entrambi illustri membri della vecchia Accademia degli Investiganti, dapprima riunirà, nell’Accademia Palatina, i nuovi cartesiani e, poi, sciolta quest’ultima, accoglierà molti accademici nella sua casa.
Il primo apparire di Doria sulla scena politico-culturale risale al 4 novembre 1696: lo troviamo in un’adunanza di poeti, voluta da Caravita e Pappacoda, a Palazzo reale attorno al viceré, Luis de la Cerda, duca di Medinaceli e penultimo viceré spagnolo del Regno di Napoli. Si festeggia il miglioramento delle condizioni di salute di Carlo II di Spagna. Nel 1698 – il ‘processo agli ateisti’ si è concluso l’anno precedente – gli stessi Caravita e Pappacoda lo includono tra i diciotto membri effettivi dell’Accademia di Medinaceli o Palatina, istituita dal viceré Medinaceli dopo una gestazione lunga e laboriosa. I promotori, infatti, avevano dovuto vincere le resistenze dell’arcivescovo Giacomo Cantelmo, ostile a ogni modernismo, e le titubanze del duca di Medinaceli. Il Doria sarà il terzo ‘principe’ dell’Accademia dopo Niccolò Carmine Caracciolo e Filippo D’Anastasio, mentre tra i partecipanti alle adunanze e, soprattutto, tra coloro che terranno le lezioni ritroviamo sia D’Anastasio sia Valletta.
Doria vi tiene nove lezioni: tre sono dedicate, rispettivamente, all’arte militare soprattutto in relazione agli strumenti di difesa (fortificazioni ecc.), ai governatori di piazza e ai capitani d’esercito; una alla scherma; quattro all’imperatore Claudio; l’ultima a Caracalla. Le lezioni costituiscono un tutto unitario sulla base di tre considerazioni e finalità: la prima strutturale, le altre due di contenuto. Ogni lezione, in chiusura, introduce l’argomento della successiva, come un ampliamento e un approfondimento. Così, per es., la prima lezione sull’arte militare introduce in chiusura la figura del governatore di piazza della seconda lezione. La motivazione attiene alle funzioni e al ruolo del governatore di piazza che, per sostenere un assedio, ma anche per «ben regolare il governo politico, così civile, come militare», deve «ben conoscere», tra l’altro, le fortificazioni della «piazza di suo governo» (Dell’arte militare, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 6° vol., a cura di A. Spedicati, 1986, pp. 61-62). Lo scopo generale è dimostrare che sia le figure istituzionali (governatore di piazza, comandanti d’eserciti, legislatori, Claudio, Caracalla), sia i tecnici («ingegneri») per svolgere bene i loro ruoli debbono saper ben coniugare teoria e pratica: si fa un’«ingiustizia alla pratica disgiungendola intieramente dalla teorica» (Dell’arte militare, cit., p. 56).
Questo nesso fra teoria e pratica, con un primato assegnato alla teoria, tornerà in tutti gli scritti di Doria: quelli politici, quelli matematici, quelli metafisici. Sino al 1709 egli ne sottolineerà l’ascendenza cartesiana: nella lezione sulla scherma vi è un pieno riconoscimento dei meriti di René Descartes che, per primo, ha
la grandezza dell’umana mente […] così sopra le corporee cose sollevata, che nel suo dovuto trono ha una così gran regina delle nostre operazioni allogato (Della scherma, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 6° vol., a cura di A. Spedicati, 1986, p. 84).
Dal 1724 sarà impegnato a farne emergere l’ascendenza platonica: il primato della teoria costituirà il nocciolo del suo conclamato ‘platonismo’ ante litteram, confermato da tante letture di neoplatonici e di platonici rinascimentali.
L’arte militare della fortificazione – leggiamo nell’incipit della prima lezione – è «il più bel frutto delle matematiche specolazioni» (Dell’arte militare, cit., p. 56). Qui Doria, in questa fase cartesiano, rovescia il giudizio di Descartes. Vale la pena di sottolinearlo in quanto un procedimento analogo, con finalità differenti, metterà in atto, nella Vita civile, a proposito di Machiavelli. Proprio in questo aspetto ‘pratico’ della matematica il filosofo francese aveva posto i limiti della disciplina:
Mi piacevano soprattutto le matematiche, – si legge nel Discorso sul metodo – a causa della loro certezza e dell’evidenza delle loro ragioni, ma non avevo ancora scorto il loro vero uso e, pensando che servissero solo alle arti meccaniche, mi stupivo del fatto che, essendo i loro fondamenti così fermi e solidi, non si fosse edificato sopra di essi nulla di più elevato (R. Descartes, Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, 2009, p. 31).
Il fatto è che Descartes parla della disciplina, Doria della sua ricaduta ‘civile’. Dunque, matematica e filosofia naturale danno le conoscenze indispensabili e propedeutiche all’arte delle fortificazioni:
Non [è] già possibile che un Ingegniere possa perfettamente conoscere un sito per accampar con vantaggio sopra i suoi nemici senza la Geometria, non alzare una machina con economia, e con prestezza senza la Mecanica; e non infine inventare nuove machine di foco senza le settioni Coniche, e senza la Filosofia per sapere la figura, ed il moto in che si dispongono, e la natura dei bitumi che le compongono (Dell’arte militare, cit., p. 57).
Il governatore, argomento della seconda lezione, «deve […] volgere tutti i suoi pensieri alla forma del Governo politico, con il quale si mantiene la piazza di sua Reggenza» (Il governatore di piazza, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 6° vol., a cura di A. Spedicati, 1986, p. 65), in quanto in una
Repubblica, la contrarietà de’ pareri, la diversità dell’inclinazioni, la farà ordinariamente soggetta alle civili discordie, alli partiti, ed alle segrete cospirazioni, quello, che darà grande aggio a’ nemici di sorprenderla a man salva (p. 65).
La virtù del governatore di piazza è – chiarisce Doria – quella di Tiberio (ma nei primi nove dei ventitré anni del suo regno), in una Roma «ancora non assuefatta alla monarchia», ossia la «prudente severità». Questa è la qualità di cui furono privi gli imperatori Claudio e Caracalla (argomento delle ultime cinque lezioni). Doria appoggia la sua analisi su una vasta letteratura che va da Aristotele a Plinio il Vecchio, da Giustino a Lattanzio, ad autori che più in particolare hanno trattato della guerra e di questioni tecniche legate alla guerra: tra gli antichi, Aulo Irzio e Vegezio; tra i moderni, Ugo Grozio, Antoine Deville, un ingegnere militare che era stato al servizio dei Savoia e poi di Luigi XIII, ma anche Montaigne, a proposito del timor panico. La lezione dedicata alla scherma, la quarta, si giustifica in quanto anche quest’arte contiene «le più difficili parti delle filosofiche speculazioni, e delle matematiche verità» (Della scherma, cit., p. 84). Quest’arte poggia tutta sulla conoscenza del rapporto mente-corpo:
Non vi è umana operazione, ove, più che in questa, la quasi incomprensibile velocità della nostra mente in giudicare la prontissima obedienza del corpo alle chiamate della medesima, e la determinazione della volontà tutte radunate s’ammirino (p. 84).
Sulla base di queste considerazioni, aggiunge Doria, Descartes «come nella sua vita s’osserva, di questo esercizio [ha fatto] parola». Effettivamente, Adrien Baillet, nella sua Vie de monsieur Descartes (1691), dà l’indice di uno scritto cartesiano dedicato alla scherma di cui non è rimasta traccia. Ma se avesse potuto leggere l’epistolario che Claude Clerselier aveva dato alle stampe qualche tempo prima, nel decennio 1657-67, Doria ne sarebbe rimasto disilluso: il filosofo francese era interessato alla scherma solo in quanto praticava quest’arte. Per venire appunto alla scherma, Doria vuole dimostrare
che in questo esercizio della scherma, la mente rappresenta […] il primo e principal personaggio, che qui il corpo si deve muovere dalle sole chiamate della medesima, mai da se stesso (Della scherma, cit., p. 90).
Le prime tre lezioni dettero a Doria fama di stratega militare, tanto che nel 1703 quando l’Accademia era ormai chiusa, il viceré, duca di Villena, gli chiederà di partecipare, da osservatore, «ai lavori degli ingegneri francesi, incaricati di prevenire uno sbarco anglo-olandese con una rete di moderne fortificazioni» (Rovito 1992, p. 441).
Le quattro lezioni su Claudio e l’ultima su Caracalla affrontano la questione delicata della successione. L’interesse di queste lezioni è dato dalla problematica che affrontano, d’attualità a Napoli e, soprattutto, a Madrid, dove la mancanza di eredi di Carlo II poneva alle potenze europee il problema dinastico della sua successione e quello, delicato, dell’equilibrio tra sfere d’influenza che ne sarebbe derivato. Alla sua morte, in effetti, per le pretese sul regno spagnolo avanzate sia da Luigi XIV, sia dall’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, avrà inizio la guerra di successione spagnola (1701-13).
La prima lezione del gruppo dedicato a Claudio ha, in effetti, a tema la «incertezza di stato nella quale rimaner sogliono i Regni tutti che non sono appoggiati ad una salda, e sicura costituzione di Governo, e d’intera Repubblica, o di assoluta Monarchia» (Sopra la vita di Claudio, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 6° vol., a cura di A. Spedicati, 1986, p. 93), in un momento in cui lo scatenarsi della lotta tra impero e senato, principe e magistrature, genera «disunione, e […] la confusione portava ad ogni momento Roma sotto il giogo della servitù» (p. 97). Solo, «reso alla sua obbedienza il Senato, restò Claudio al dominio di Roma senza contrasto» (p. 99). E, pur tuttavia, non avendo «una giusta cognizione della vera essenza del principato» (p. 126), l’«infelice» Claudio non ha saputo – ciò che i principi debbono saper fare – essere «moderatore» delle passioni dei suoi sudditi e «mantenitore» della loro quiete. Incapace di opporsi alle «insidiose» e «lusinghiere» suggestioni dei suoi favoriti, Claudio, che pure ha promulgato leggi giuste, ha fatto «provar a Roma gli effetti tutti d’un Imperador Imprudente, e Crudele» (p. 126). Claudio e, come lui, Caracalla, svolgendo, nella «gran scena di questo mondo», l’infausto ruolo di principi corrotti, hanno fatto vedere quali catastrofi, tragedie e morte possano causare i vizi dei principi in un «Regno disordinato» (Sulla vita di Caracalla, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 6° vol., a cura di A. Spedicati, 1986, p. 134).
Quale che sia il giudizio da darsi sull’Accademia Palatina, certo è che essa costituì un importante punto d’aggregazione e di riferimento per la cultura napoletana, il solo possibile dopo la condanna degli ‘ateisti’.
Doria sarà socio dell’Accademia sino al 1701, anno in cui essa verrà chiusa, a seguito della morte di Carlo II e del rientro in Spagna del duca di Medinaceli. I letterati continueranno le loro adunanze in casa Caravita. Vico ricorda che in quel «ridotto di uomini di Lettere» si era legato di «fida e signorile amicizia» con Doria, «il primo con cui poté cominciare a ragionar di metafisica» (Autobiografia, in Id., Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, 1971, p. 20). È noto il giudizio espresso da Vico su un cartesianismo, quello di Doria, nel quale gli sembrava ‘balenassero’ «lumi sfolgoranti di platonica divinità», sicché «ciò che il Doria ammirava di sublime, grande e nuovo in Renato, il Vico avvertiva che era vecchio e volgar tra’ platonici» (p. 20). Un cartesianismo sul quale, nel 1733, anche un cartesiano della portata di Francesco Maria Spinelli (1686-1752) avanzerà non pochi dubbi, accusando Doria di essere uno spinozista e, comunque, di avere una conoscenza superficiale delle Meditationes de prima philosophia, delle quali avrebbe letto solo dieci «paginette».
Oltre al salotto del Caravita, Doria frequenta casa Lucio di Sangro, casa Porzio, la libreria di Valletta, casa Aurelia d’Este, duchessa di Limatola, dove incontra Gian Vincenzo Gravina, che gli dedica uno dei suoi Iambi («O Paulle, nostri magni secli gloria...»). Per un breve periodo, sino a quando le pressioni del cardinale arcivescovo, Francesco Pignatelli, lo costrinsero a sciogliere, nel 1724, quella sua «onestissima conversazione», ospita a casa sua un gruppo di letterati.
Intanto, nel 1709, Doria pubblica La vita civile e l’educazione del principe, che riceve un’ottima accoglienza, un’ampia e positiva recensione nel «Giornale de’ letterati» e, soprattutto, negli «Acta eruditorum» del 1716. In questo scritto, il primo che dà alle stampe, Doria presenta, in un quadro d’insieme, i risultati di un’analisi politica che sinora è andato svolgendo, come abbiamo visto, su alcune forme della società civile: arte militare, governatore di piazza, capitano d’esercito, legislatore. Ora è la ‘vita civile’ nel suo insieme, in tutti gli ordini di cui si compone, a essere oggetto di analisi con il fine di trasformare un’‘arte difficilissima’ in ‘scienza’ (che, si potrebbe osservare, è quel che Descartes si era proposto di fare, nel caso del cannocchiale, nella Dioptrique: ossia passare dalla pratica alla teoria), dalla quale far derivare la pratica politica. Banco di prova è la formazione di «un politico ugualmente istrutto negli universali e ne’ particolari» (La vita civile e l’educazione del principe, 1709, p. 443). Lo aveva già fatto Machiavelli e, per questo, dalle massime da questi stabilite, ma opportunamente emendate e corrette, si trattava di prendere le mosse:
Non mi son trattenuto di rapportare ancora le principali e migliori massime di Macchiavello; avendo curato però di confutar l’empie e false e di metterle al loro vero luogo nella scienza politica che coll’ajuto della buona filosofia mi son proposto di rischiarare (La vita civile e l’educazione del principe, cit., p. 444).
Machiavelli e Tacito, in parte Thomas Hobbes, sono qui il filo rosso di un’analisi rovesciata che modella la politica non «sopra l’idea degli uomini quali sono», ma sui valori religiosi ed eterni di «virtù, giusto, onesto». Il principe filosofo, o metafisico, che Doria delinea è moderato e prudente proprio in ragione della sua conoscenza profonda della natura umana: «Moderazione e […] buona direzione delle passioni» sono le virtù che rendono possibile il buon governo. Solo un uomo che «ben l’uomo conosca» – scrive Doria – può «l’uomo diriggere»; solo chi «conosce la vera natura delle virtuose e delle ree operazioni, e le ragioni, per le quali più a queste che a quelle ci sentiamo inclinati», può «condurre gli uomini a virtuosamente operare», imponendo leggi dirette a frenare le passioni e moderare i costumi (La vita civile e l’educazione del principe, cit., pp. 4, 5). Il legislatore è come il «fontaniere [che] somministra […] acqua a fonti particolari dati alla sua custodia», andando al «fonte universale, donde l’acqua a tutt’i particolari fonti discende»; e le massime cui deve attenersi debbono essere ispirate alla «virtuosa accortezza» e non alla «viziosa malizia» (p. 5). Quanto all’esercizio del potere, il principe è messo al riparo da ogni abuso e, quindi, da ogni corruzione, grazie al controllo cui è sottoposto da parte del senato, costituito dagli ottimati; e quest’ultimo, a sua volta, grazie al controllo esercitato dagli efori, sorta di ‘tribuni della plebe’ eletti dal popolo.
Una repubblica virtuosa era stata la spartana, grazie alla pratica dei ‘freni’ incrociati dei poteri:
Era in Isparta l’autorità Reale costituita in modo, che dell’utile, che suole recare agli stati il monarca (facendo le deliberazioni più pronte e l’esecuzioni più preste), ne godeva la repubblica; perché avea il Re l’autorità, ma quasi in tutto frenata da quella del Senato il quale si componeva dagli ottimati di Sparta. Appresso era l’autorità così degli ottimati che del Re dagli Efori frenata, i quali erano come in Roma i tribuni della plebe. Così Sparta non era soggetta a degenerare in tirannide perch’era l’autorità Reale frenata da quella degli ottimati, e dagli Efori; i quali avendo per loro uficio lo star di mezzo fra il popolo e il re, niuno di essi l’altro con l’autorità soffocava. Da ciò avveniva che questo Senato sempre dalla parte più debole si gettasse per far contrappeso nelle discordie, e mantenere in questa guisa il giusto equilibrio nella repubblica. Né già potevano gli ottimati ridur la repubblica nello stato di pochi, perché a loro si opponeva il Re. Né poteva il popolo degenerar nella licenza, perché lo conteneva il Re, e gli ottimati. In questa guisa configurato questo governo (nel quale l’autorità dell’uno, temperava l’autorità dell’altro senza che l’uno all’altro di questi ordini fusse d’impedimento nelle operazioni, che sono necessarie ad uno stato) diedero pubblici documenti della loro fortezza ed in tale grado di virtù si ridussero con la buona costituzione e con le buone leggi che fecero conoscere al mondo quanto importante cosa sia l’avere da principio un saggio e perfetto legislatore che dia buona costituzione buoni ordini e buone leggi ad uno stato (p. 5).
Un governo, quello spartano, in cui controlli incrociati e divisione dei poteri (e non è escluso che dalla lettura di questo testo Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu abbia tratto la sua teoria della divisone dei poteri) sono stati la sicura garanzia di buon governo:
Così dunque abbiam conosciuto tre ordini alle repubbliche necessari cioè di capitano, di legislatore o sia principe, e di magistrato che fanno l’uficio delle di lui braccia (p. 103).
Anche Roma, che, tuttavia, aveva operato questa stessa scelta costretta dalla necessità, era divenuta grazie a ciò ‘signora’ del mondo.
L’impegno a delineare riforme politiche (e la speranza che vi siano spazi per realizzarle) è in questi anni prioritario. Nel dicembre del 1709, quando interrompe la Relazione dello stato politico, economico e civile del Regno di Napoli nel tempo ch’è stato governato da’ Spagnoli, prima dell’entrata dell’armi tedesche in detto regno, che gli era stata commissionata da Gennaro D’Andrea (1637-1710), reggente del Collaterale, il testo già comprendeva una descrizione del Regno sotto i due secoli di dominio spagnolo e un parere sulla maniera di riformarlo.
È un momento di grande successo e consensi: nel 1708, Costantino Grimaldi lo descrive «dottissimo» nella cultura e nella lingua greca (Grimaldi a chi legge, in N. Amenta, La Carlotta, 1708) costringendo Doria a confessare, «ingenuamente», di essere totalmente ignaro della «nobilissima» lingua greca e che era stato il desiderio di «appalesarmi al mondo quel ch’io non sono» a spingere Grimaldi a presentarlo come «dottissimo» in quella lingua; nel 1710, Vico gli dedica il De antiquissima Italorum sapientia; nel 1713, Paolo Francone gli dedica il suo Ristretto della vita di Renato Descartes, che è una traduzione dell’Abregé de la vie de monsieur Descartes (1692) di Adrien Baillet («A voi parmi che veramente si appoggi in cotesta città la scuola cartesiana, e voi senza fallo siete il sostegno della sua eccellente filosofia, siccome in più riscontro si è veduto chiaramente», Ristretto, cit., Dedica, pp. non numerate); nel 1716, Jean Le Clerc, nella sua «Bibliothèque ancienne et moderne», paragona la Vita civile alle opere di Grozio e di Samuel Pufendorf; nel 1722, Eleonora Barbapiccola nella sua prefazione alla traduzione dei Principia philosophiae ne tesseva le lodi, ricordando che aveva difeso le donne. A questo proposito, si deve precisare che Doria, nel 1716, nei Ragionamenti ne’ quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all’uomo inferiore (dedicati ad Aurelia d’Este) e poi in un inedito (la Soluzione di un problema nel quale si cerca d’indagare la cagione per la quale le donne [...] non hanno mai avuto alcuna parte nel governo politico) aveva sostenuto una certa parità dei sessi nel godimento dei diritti naturali: le donne potevano governare oppure essere fondatrici di grandi imperi, ma non essere legislatrici.
Nel 1718, lo stesso Doria (nei Dialoghi ne’ quali [...] s’insegna l’arte di esaminare una dimostrazione geometrica [...]) ricorda che Gravina gli ha dedicato alcuni versi («Il Celebre, e non mai a bastanza lodato fu Sig. D. Giovan Vincenzo Gravina nelli Iambi a me diretti, i quali si leggono nella fronte delle di lui dottissime Tragedie stampate in Napoli l’anno 1717», pp. non numerate) e che gli amici «sogliono spesso venire a favorirmi nella mia casa».
Dal 1701 al 1735 Napoli conosce turbolenze politiche (congiura del principe di Macchia, 1701) e avvicendamenti dinastici a seguito della conclusione della guerra di successione spagnola con i trattati di Utrecht (1713) e di Rastatt (1714) e l’inizio del regno di Carlo di Borbone: la città passa dai Borbone di Spagna agli Asburgo d’Austria, per tornare poi ai Borbone e, infine, sotto Carlo di Borbone, all’indipendenza. Doria ne ricava una completa sfiducia nei confronti dei governanti degli Stati europei, che tutti, con l’eccezione di Vittorio Amedeo I di Savoia, definisce come principi-mercanti: «In quel tempo io ero già divenuto disapprovatore delle massime e de’ costumi del presente tempo» (L’arte di conoscer se stesso, cit., p. 424). In questa stessa direzione va, nel 1733, la sua partecipazione (ne fu eletto ‘censore’) alla rinata Accademia degli Oziosi, contraltare dell’Accademia delle scienze creata da Celestino Galiani, rifondata con l’autorizzazione del Collaterale.
Dopo appena quattro anni dall’insediamento di Carlo di Borbone, nel 1739 Doria dà alle stampe Il capitano filosofo e redige il manoscritto del Politico alla moda; nel 1741 pubblica le Lettere, e ragionamenti varj; nel 1742 redige il manoscritto del Commercio mercantile. Questi sono i testi in cui prevale l’analisi della disgregazione morale e politica degli Stati europei e di Napoli.
‘Politico alla moda’ è il favorito, precettore e ministro di Luigi XV, cardinale André-Hercule de Fleury (1653-1743), inventore della «dolce tirannia de’ nostri tempi». Fleury ha realizzato ciò che lo stesso Machiavelli non avrebbe osato pensare: consigliando al re di Francia di unire il lusso e l’effeminatezza al «valor militare», ha ottenuto «che i Popoli si effeminassero e si avvilissero» e ha reso i francesi soggetti come schiavi all’autorità del loro re (Il politico alla moda, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, a cura di M. Marangio, 5° vol., 1982, p. 35). Non meno corrotta è Elisabetta Farnese che, per motivi egoistici, ha sostenuto l’ascesa del figlio, Carlo di Borbone, e di «ministri di Stato in tutto a sé addetti ed ubbidienti» (p. 64). Entrambi rappresentano bene i governanti «che in questo presente tempo governano, cioè sono stati tutti seguaci della politica naturale, prattica e mercantile, ed anco cabbalisti» (pp. 64-65). I principi, spinti da un’irrefrenabile sete di dominio, si affidano a «cabbalisti» e «usurieri», «i quali proponendo sempre nuove imposizioni sovra i popoli, accelerano la ruina del Principe» (Il commercio mercantile, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, a cura di P. De Fabrizio, 4° vol., 1981, p. 303); gli «ordini» preposti al governo, «magistrati, capitani e sacerdoti», governano «lo stato colla politica de mercadanti, e non con quella degli filosofi» (p. 303). Insieme hanno reso l’Europa «tutta barbara in effetto», pur rivestita di «apparente e falsa civiltà». Gli effetti nefasti sono sotto gli occhi di tutti:
Noi abbiamo veduto che pochi principi senza più niente considerare il diritto delle genti hanno costretto li popoli ad obbedire a quelli principi che essi hanno voluto che ubbidissero […]; ed alla perfine, in questo nostro tempo, li principi si permutano tra essi, e si cambiano fra essi gli uomini in quella guisa appunto che nelle fiere i mercadanti si cambiano fra essi le pecore, gli bovi e gli altri animali (p. 306).
Un tempo infelice, «questo nostro tempo», che ha «perduto la memoria» dei filosofi che hanno scritto dello jus gentium e della origine ‘divina’ dell’uomo (Platone, Pitagora, Plutarco, Grozio e Pufendorf, i cui libri «si possono abbruggiare, perché non solo non v’è chi l’insegni, ma non v’è chi li legga, e chi l’intenda», p. 306), per correre dietro «solamente alla perniciosa filosofia di Locke e di Newton», praticando la «politica mercantile» (p. 306). Esempi di politica mercantile, anche lo zar Pietro di Russia e il re Carlo XII di Svezia. Il primo, pur «capace di altissime virtù», fallisce nel suo disegno di «mutare la forma del governo barbaro in forma di governo politico» (Il politico alla moda, cit., p. 86) in quanto persuaso che la politica
consista nel commercio […] e nel mantenere esercito numeroso, e che consista nella coltura delle arti, ed aveva ancora per massima la massima che hanno li nostri principi, cioè che la gloria del principe consista nel dominare il popolo a sé soggetto e nel conquistare gli altrui stati, onde poi pongono in tutto in bando la cura di promuover ne i popoli la vera morale e quelle vere virtù le quali sono [...] li veri e li soli fonti della vera politica (p. 86).
Carlo XII, «un mostro di coraggio, d’intraprendenza, di costanza nelle fatiche», un temerario, non eroe, aveva, dal suo canto, rovinato la Svezia. Né l’uno, né l’altro erano stati capaci «d’intendere l’origine e l’essenza della vera politica» (Ragionamenti e poesie varie, 1737, p. 59).
Doria, deluso, sembra volgere le sue speranze di riforma a un cristianesimo riletto in chiave platonica e origeniana. Tanto basta per spingere la curia arcivescovile di Napoli a emettere un ordine di sequestro, poi annullato per intervento del Tribunale di commercio, del primo volume delle Lettere, e ragionamenti varj. È lo stesso Doria a dare l’elenco delle proposizioni che avevano messo in moto il provvedimento: il carattere sovrannaturale della religione platonica; l’identità delle virtù di Socrate e di quelle dei martiri cristiani; la superiorità delle virtù pagane rispetto a quelle cristiane; la definizione di «lecito inganno» data al ricorso del legislatore alla religione a sostegno degli ordini della «repubblica»; l’origine del peccato dalla «malizia» e non dall’ignoranza; la confusione dottrinale creata dai concili; la derivazione della morale cristiana dalla platonica; l’uso, da parte della Chiesa, del timore come mezzo di salvezza dell’uomo; la non eternità della pena dopo la morte.
Nonostante questo incidente di percorso, il ‘disapprovatore’ della politica mercantile del suo tempo affida il suo progetto di riforma a un cristianesimo del quale valorizza le istanze civili delle origini, prima che fossero soffocate da Chiesa, gesuiti, giansenisti, monaci. La società civile virtuosa che i principi non avevano voluto realizzare diventa l’utopia degli anni maturi di Doria nella forma della respublica christiana. In questo nuovo percorso, Doria incontra e rivaluta la tradizione dei padri orientali, Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, Basilio di Cesarea e quella del neoplatonismo (Plotino, Proclo, Porfirio, Giamblico) e del platonismo rinascimentale (Marsilio Ficino, Sebastián Fox Morcillo) con le sue propaggini ermetiche e magiche (Robert Fludd, Athanasius Kircher e così via).
Utopia ed eresia, approdo ultimo delle istanze riformatrici di Doria, non mancheranno di suscitare reazioni, anche dopo la sua morte, nella condanna di un manoscritto pubblicato postumo, l’Idea di una perfetta repubblica. Il manoscritto era stato prelevato dalla Biblioteca di Sant’Angelo a Nido pochi giorni prima della morte di Doria e, inoltre, il testamento disponeva che fosse stampato a spese dell’erede, il cugino principe di Angri, a saldo di un vecchio debito. Quando, dopo qualche anno, il principe volle adempiere il legato, il volume fu sequestrato e, il 13 marzo 1753, per mano del boia, «furono bruciati il manoscritto, le bozze e le oltre mille copie dell’opera» (Rovito 1992, p. 444). Di quest’opera, tuttavia, si conosce il contenuto attraverso le trentaquattro proposizioni «assai contrarie alla nostra S. religione, alli Cristiani costumi ed alla Real Monarchia» che i due revisori, Giovan Tommaso Taglialatela e Benedetto Latilla, avevano incriminato, sottolineando che Doria si proponeva di
insegnare in qual maniera potrebbe formarsi uno stato felice e pieno di virtù, […] secondo la filosofia di Platone, quale solamente crede egli la vera e necessaria a seguirsi (Zambelli 1973, p. 193).
Latilla osserva poi che Doria non solo non ‘purga’ la filosofia platonica da quel che in essa è contrario alla religione cristiana, ma, viceversa, introduce in essa teorie quali la preesistenza delle anime e la non eternità delle pene dopo la morte; attacca la castità dei preti e l’indissolubilità del matrimonio; stigmatizza la pericolosità per la società dell’educazione somministrata nei collegi gesuiti e delle pratiche monastiche; «sopra tutti, però, egli malmena con inique espressioni e falsissime ragioni la monarchia ed il principato, di cui fa odiosissima descrizione» (Zambelli 1973, p. 195).
Doria riaffermava la necessità che le magistrature bilanciassero l’arbitrio del sovrano e della corte («Posto il governo in mano agli uomini, è forza che sia moderato da un magistrato ordinato alla difesa del popolo contro la tirannia», Rotta 1978, p. 939), sul modello di Sparta e di Roma repubblicana. Molti i limiti che Doria poneva al principe, il quale non poteva legiferare senza l’approvazione del senato e del popolo; non poteva avere un erario privato, ma un appannaggio che gli consentisse di mantenere la sua casa; non poteva confiscare i beni dei sudditi; non decideva sulla politica estera; conservava il comando dell’esercito limitatamente al tempo di guerra. Rispetto ai suoi ministri, la cui azione era sottoposta al parere degli efori eletti dal popolo e cui si faceva divieto di ricevere cariche e pensioni dal principe, conservava l’‘irresponsabilità’.
Coltivare la matematica era, dal punto di vista di Doria, indispensabile. La riforma morale e politica doveva, infatti, prendere avvio dalla riforma della geometria. Lo aveva ribadito più volte e, nel 1709, aveva prescritto che dell’educazione del principe virtuoso dovesse far parte lo studio della logica (quella «breve e corta Logica del Padre [Bernard] Lami», ossia l’Idée de la logique esposta negli Entretiens sur les sciences di Bernard Lamy, del 1683) e dell’algebra.
Compone, dunque, un numero considerevole di scritti matematici che, in parte, pubblica e, in parte, lascia inediti. Quelli a stampa coprono, con la cadenza di uno all’anno, l’arco di tempo che va dal 1711 (Considerazioni sopra il moto e la meccanica de’ corpi sensibili e de’ corpi insensibili) al 1724 (Considerazioni intorno alla natura ed essenza delle dimostrazioni generali e particolari, ed intorno alla natura della costruzione geometrica e meccanica). Nel 1722 e nel 1738 fa ristampare raccolte di opere già pubblicate. Solo nel 1723 non pubblica nulla. Alcuni di questi scritti, in traduzione latina, sono sottoposti alla ‘censura’ della Royal Society. I numerosi inediti di contenuto matematico sono quasi sempre commenti o integrazioni dei testi a stampa.
Il suo Nuovo metodo geometrico per trovare fra due linee rette date infinite medie proporzionali, dato alle stampe nel 1714, e i successivi Dialoghi ne’ quali, rispondendosi ad un’articolo de’ signori autori degl’Atti di Lipsia, s’insegna l’arte di esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica la conoscenza del vero, e del falso; ed in conseguenza di ciò si esamina l’algebra, ed i nuovi metodi de’ moderni, pubblicati nel 1718, suscitano molte, e dure, critiche e qualche irriverente derisione.
Celestino Galiani, in una lettera del 26 ottobre 1722 indirizzata a Guido Grandi, così si esprime a proposito della Raccolta stampata nel 1722: «Il Doria ha ristampate tutte in un corpo le sue coglionerie» (Pisa, Biblioteca universitaria, mss. Grandi, 91, c. 447r); Grandi giudica le dimostrazioni di Doria «sogni della sua fantasia»; Antonio Monforte finge «d’arrendersi» perché non vuol perdere gli inviti a desinare e, incautamente, per «acquietarlo» glielo mette per iscritto in lettere personali. Una di queste lettere Doria pubblica, in appendice al Nuovo metodo geometrico, vantandosene: «Il mio metodo ha piaciuto al Celebre fu Sig. Monforte, il quale lo ha attestato in una sua lettera, la quale si legge impressa col mio nuovo Metodo» (Dialoghi ne’ quali [...] s’insegna l’arte di esaminare una dimostrazione geometrica [...], 1718, p. 6). Ma Doria viene attaccato anche negli «Acta eruditorum» e nel «Giornale de’ letterati d’Italia». Non si arrende all’evidenza e vede nelle critiche degli «Acta eruditorum» lo zampino degli «algebristi», ossia cartesiani, suoi amici, mentre oppone a quelle che definisce le «calunnie» del «Giornale de’ letterati d’Italia» a proposito di una lunga Scrittura contro di lui stilata da Giacinto De Cristofaro, che «il Signor Giacinto ciò saputo mi scrisse un biglietto, nel quale mi attestava di non aver mai fatta sì fatta Scrittura pubblicata», auspicando una ritrattazione nel numero successivo della rivista (Dialoghi ne’ quali [...] s’insegna l’arte di esaminare una dimostrazione geometrica [...], cit., p. 14).
I cartesiani, che malamente accolgono le sue scoperte matematiche, lo ‘disgustano’ ben presto. Si rifugia nella geometria sintetica euclidea e critica la trasformazione, di cui massimo responsabile ritiene Descartes, della geometria in calcolo algebrico: l’algebra è l’«arte ingegnosissima» di denominare con le lettere le quantità, che la geometria denomina con linee, superficie e corpi. Questo permette agli ‘analitici’ di fare con le lettere tutte le operazioni che l’aritmetica insegna a fare con i numeri. Un’arte, non una scienza, l’algebra e i suoi algoritmi, mentre differenziali, integrali, calcolo infinitesimale, lungi dal portare «ancora più oltre, che l’algebra, la potenza della geometria», prolungano l’asservimento dell’anima ai sensi e dunque all’errore «che la immensa diversità delle cose sensibili a lei cagiona» (Dialoghi ne’ quali [...] s’insegna l’arte di esaminare una dimostrazione geometrica [...], cit., p. 19). Soltanto il «raziocinio geometrico» astratto, al contrario, può condurre la mente ad astrarre dalle cose sensibili e a trovare in se stessa «le idee del vero»: quella di Dio, innanzitutto, e, poi, del giusto e dell’onesto. «Guastato» e «corrotto» a causa dell’algebra letterale o speciosa, il «raziocinio geometrico» astratto era divenuto inabile a ricercare la verità, «infermo» e scettico. Descartes era il primo responsabile della corruzione della «purità della dimostrazione geometrica» e di quel che ne era conseguito, ovverosia la corruzione della metafisica e della fisica.
Non maggiore fortuna toccò in sorte agli scritti di filosofia. Come abbiamo visto, da cartesiano, nel 1709, Doria aveva stilato nell’Educazione del principe il programma di studio del principe: l’Idée de la logique esposta negli Entretiens sur les sciences di Bernard Lamy, l’algebra e «altre somiglianti cose, le quali sentono di quella presente corruzione delle lettere, che io medesimo ho poi in appresso detestata» (Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e dei moderni, 1724, p. 213).
Nel 1724, a causa delle «molte e gravi opposizioni particolarmente in questa città [Napoli]», pubblica un’opera anticartesiana: i Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e dei moderni. Ora, Descartes, «agli uomini di buona fede e di cuor sincero può servire per una introduzione alla filosofia platonica», scrive Doria, ma un «renatista temerario […] può inciampar nell’errore nel quale inciampò l’empio e temerario Spinoza» (Risposte […] ad un libro stampato […] con il titolo Riflessioni di Francesco-Maria Spinelli, 1733, p. 119). Era, in ogni caso quel che gli era accaduto, quando, in alcuni ‘dialoghi’ (oggi perduti), «senza avvedermene, mi ero con Spinoza incontrato, per conseguenza dello studio che avea fatto delle Meditazioni» (p. 105). Come si vede, ancora nel 1733 Doria si lamenta di avere incautamente affidato questi dialoghi al ‘renatista’ Caloprese, che li aveva portati con sé a Scalea, passandoli al suo allievo Spinelli, il quale se ne serve vent’anni dopo per accusarlo di spinozismo. Spinelli nella sua autobiografia (Vita, e studi di Francesco Maria Spinelli […] scritta da lui medesimo, 1753), darà un’altra versione: Doria covava «una certa rabbietta contro que’ che anno impugnata la vostra duplicazion del cubo».
Sia come sia, nel 1728 Doria pubblica, in due volumi, la Filosofia con la quale si schiarisce quella di Platone. L’opera è suddivisa in logica, metafisica e morale e contiene l’esposizione di un sistema di metafisica dell’unità immateriale, che è una confusionaria reinterpretazione del platonismo cristiano ficiniano. Doria la presenta, ancora nel 1732, come una sponda offerta a John Locke e a tutti i «moderni autori» che «stanchi […] di andar di qua e di là brancolando poco men che tutti alla setta di Pirrone si abbandonano» (Difesa della metafisica degli antichi filosofi contro il Signor Giovanni Locke ed alcuni altri moderni autori, 1732, p. 45). A questo aveva dedicato ogni sforzo, ribadirà nel 1745: a ‘convincere’
di manifesto errore Bendetto Spinosa nella sua Ethica, Renato-Des-Cartes nella quarta, quinta e sesta Meditazione, il signor Bayle nel suo empio libro della Cometa ed il signor Locke nel suo libro dei Saggi di filosofia sull’intelletto umano (Narrazione di un libro inedito fatta affine di preservare e difendere le numerose sue opere da quell’oblio nel quale tentano di seppellirlo i suoi contrari, 1745, pp. 53, 21).
A Napoli, dove nel 1753, come detto, si conclude la sua vicenda intellettuale con un atto inusuale, la condanna al rogo di una sua opera pubblicata postuma, Doria era morto nel 1746. Lasciava 34 manoscritti (35, se si include l’Idea di una perfetta repubblica), che aveva depositato, ben ordinati in 12 volumi in folio (cc. 2633), nella Biblioteca di Sant’Angelo a Nido. Sommati alle 34 opere che dette alle stampe (esclusi i componimenti d’occasione e le lezioni tenute nelle accademie di cui fu socio) dal 1709 al 1745, si ha un totale di 68 scritti. Tutti insieme danno la misura dell’abbondante produzione di questo poligrafo, tale forse anche per il fatto che a redigere i suoi testi sotto dettatura erano stati due segretari.
Nel suo testamento disponeva che il suo erede, il principe d’Angri, oltre che occuparsi della stampa dell’Idea, facesse celebrare mille messe per la sua anima e desse alle stampe «qualunque manoscritto depositato nella Biblioteca di S. Angelo a Nido» (Testamento, in Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, 6° vol., a cura di A. Spedicati, 1986, p. 211). Disponeva anche che ottomila ducati fossero impiegati per istituire due cattedre presso il collegio San Tommaso d’Aquino di Napoli o presso quello dei padri delle Scuole pie; e una rendita di quattrocento ducati all’anno per due lettori che in queste due cattedre
dovranno leggere […] le mie Opere Matematiche, e particolarmente la duplicazione del cubo, la trisezione dell’angolo, il metodo dell’Indivisibile di Bonaventura Cavalerio da me schiarito (p. 211).
Se poi non avesse trovato «luogo di poter leggere dette opere», l’erede aveva l’obbligo di «farli leggere in casa privata e da lettori privati con l’istesso soldo».
La vita civile e l’educazione del principe, Francfort s.d. [ma Napoli 1709].
Ragionamenti indirizzati alla Signora D. Aurelia D’Este […] ne’ quali si dimostra la donna, in quasi tutte le virtù più grandi, non essere all’uomo inferiore, Francfort [ma Napoli] 1716.
Dialoghi ne’ quali, rispondendosi ad un’articolo de’ signori autori degl’Atti di Lipsia, s’insegna l’arte di esaminare una dimostrazione geometrica, e di dedurre dalla geometria sintetica la conoscenza del vero, e del falso; ed in conseguenza di ciò si esamina l’algebra, ed i nuovi metodi de’ moderni, Amsterdam 1718.
Discorsi critici filosofici intorno alla filosofia degli antichi e dei moderni, Venezia [ma Napoli] 1724.
Filosofia con la quale si schiarisce quella di Platone, Amsterdam [ma Ginevra] 1728.
Difesa della metafisica degli antichi filosofi contro il Signor Giovanni Locke ed alcuni altri moderni autori, Venezia [ma Napoli] 1732.
Risposte […] ad un libro stampato […] con il titolo Riflessioni di Francesco-Maria Spinelli, Napoli 1733.
Ragionamenti e poesie varie, Venezia 1737.
Il capitano filosofo, Napoli 1739.
Lettere, e ragionamenti varj, Perugia [ma Napoli] 1741.
Massime del governo spagnolo a Napoli, a cura di V. Conti, introduzione di G. Galasso, Napoli 1973.
Manoscritti napoletani di Paolo Mattia Doria, a cura di G. Belgioioso, P. De Fabrizio, M. Marangio et al., 6 voll., Galatina 1979-1982.
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