Veronese, Paolo
Un pennello da scenografo
Il pittore Paolo Veronese celebra la ricchezza dell’aristocrazia veneta e lo splendore della Venezia del Cinquecento attraverso opere di grandi proporzioni dove una luce chiara esalta i colori e le figure. La sua geniale e rivoluzionaria ricerca nel campo del colore e della prospettiva apre le porte alle conquiste del Barocco, preannunciando perfino alcuni dei risultati ottenuti, tre secoli dopo, dai pittori impressionisti
I quadri e gli affreschi di Paolo Veronese sembrano ricreare sempre una meravigliosa atmosfera di festa, contagiando in primo luogo chi li osserva. Questo effetto di vitalità è legato ad alcune ben precise scelte pittoriche: i colori dei suoi dipinti sono limpidi e smaglianti, i soggetti sono donne e uomini di splendide fattezze, i loro abiti sono realizzati con stoffe lussuose e arricchiti da preziosi gioielli, le architetture sempre magnifiche e monumentali. Attraverso l’accostamento di colori brillanti e sostituendo l’oscurità delle ombre con effetti cromatici, il pittore riesce a creare una luminosità intensa e limpida, una solarità in grado di rallegrare anche lo spirito degli individui più malinconici.
Nato a Verona nel 1528, Paolo Caliari deve alla sua città natale il soprannome Veronese con cui è noto a Venezia, la città in cui arriva nel 1553 e dove rimane fino alla morte nel 1588, divenendo uno degli artisti più ricercati.
Di formazione manierista (manierismo), abituato a esaltare il disegno nella costruzione delle figure, a Venezia Veronese scopre le potenzialità espressive del colore e subisce il fascino di Tiziano, a cui si ispira per ritratti e soggetti mitologici. Veronese diventa presto il cronista privilegiato della Repubblica veneziana, come dimostrano le decorazioni a Palazzo Ducale e nella Libreria Vecchia di S. Marco, e celebra la potenza politica ed economica attraverso composizioni scenografiche e dagli scorci audaci o teatrali, come nella Battaglia di Lepanto. Quando il clima festoso diventa austero a causa delle pestilenze e del pericolo turco, Veronese riesce ad adattarsi alla severità imposta dal Concilio di Trento e dipinge opere religiose di alta tensione drammatica.
La pittura di Veronese si esprime al meglio su grandi superfici – quasi tutte le sue opere hanno dimensioni fuori del comune – e con composizioni scenografiche. Ne sono un esempio le decorazioni di Villa Barbaro a Maser, dove il pittore confonde l’architettura reale e quella dipinta in un gioco di illusioni. L’architettura classica del celebre architetto Palladio viene valorizzata dagli elementi dipinti da Veronese: balaustre, cornici, porte e nicchie da cui si affacciano immagini allegoriche, animali domestici e ritratti di famiglia che mantengono intatta la loro spontaneità, come rivela l’affresco che rappresenta una bimba che si affaccia sulla porta. Proprio le grandi decorazioni delle ville palladiane furono dense di suggerimenti per le successive elaborazioni del Barocco.
C’è un soggetto che si ripete nella sua pittura: la cena. Il tema, tratto da diversi episodi delle Sacre Scritture, non è ambientato, come nella tradizione religiosa, in camere spoglie e in penombra ma in ambienti lussuosi e animati. In una messa in scena teatrale, i personaggi biblici sono attorniati da figure eleganti vestite alla moda dell’epoca e Veronese inserisce fino a un centinaio di figure in pose diverse, dove non mancano mai bambini che giocano e che rendono più gioiosa l’atmosfera descritta.
In sostituzione di una tela di Tiziano distrutta in un incendio, Veronese dipinge anche l’Ultima cena per il Convento dei Ss. Giovanni e Paolo. Ancora una volta inserisce l’episodio all’interno di una dimora sontuosa, al centro di un grandioso porticato e attorniato da una folla. Insieme a Cristo e ai discepoli sono presenti servitori, guardie armate alla tedesca, bambini e animali, perfino un buffone con un pappagallo, tutti descritti con abiti moderni. Questa interpretazione mondana e festosa fece giudicare l’opera poco conveniente da un processo intentato al pittore dal tribunale dell’Inquisizione, sempre attento a far rispettare la fedeltà al testo sacro.
Durante il processo Veronese difende la propria libertà creativa e si dimostra ben consapevole del ruolo di artista, tanto che quando la sentenza gli impone di cambiare l’opera egli ne modifica solo il titolo: l’Ultima cena diventa così la Cena in casa di Levi.