ALESSANDRO VI, papa
Rodrigo de Boria y Borja, o, come si disse comunemente, Rodrigo Borgia, era nato fra il 1430 e il 1432, probabilmente il 1° genn. 1431, a Xàtiva presso Valencia nel regno d'Aragona, da Jofré de Borja y Doms, di nobile famiglia catalana, e da Isabel de Borja, di altro ramo della stessa famiglia, sorella di quell'Alfonso, che fu papa Callisto III.
Della sua prima giovinezza sappiamo soltanto che egli era chierico della Chiesa di Valencia ed ebbe per opera dello zio vescovo benefici ecclesiastici in questa e altre diocesi spagnole. Nè è noto con precisione quando venisse in Italia: certo nel 1453 era studente a Bologna, dov'ebbe, il 13. ag. 1456, la laurea in diritto canonico.
Frattanto lo zio era salito al soglio papale (8 apr. 1455): dal nepotismo di lui ebbe origine la fortuna di Rodrigo, come degli altri di casa Borgia. Egli fu nominato, il 10 maggio 1455, notaio della Sede apostolica e, il 20 febbr. 1456, creato cardinale diacono in un concistoro segreto per unanime consenso dei cardinali presenti a Roma, fra i quali erano uomini egregi, come il Bessarione e il Capranica. Ebbe fin da quel concistoro la diaconia di S. Nicola in Carcere, quantunque solo più tardi (17 novembre) ricevesse il cappello.
E fin d'allora, secondo il mal costume dell'età, cominciò il cumulo dei benefici ecclesiastici, che si accrebbe anche dopo la morte di Callisto III, smisuratamente. Oltre a benefici di minor grado, come l'arcidiaconato della Chiesa di Bologna, il monastero di Fossanova, la ricca abbazia di Subiaco (1471), dove fece ricostruire la fortezza a sue spese, il Borgia ebbe l'amministrazione dei vescovadi di Gerona (1457-58),di Valencia (1458-92), di Cartagena (1482-92) e la commenda di quelli di Maiorca (1489-92) e di Agria (1491-92); fu cardinale vescovo di Albano (30 ag. 147 1) e forse divenne soltanto allora sacerdote; fu traslato a Porto il 24 luglio 1476 e tenne questo vescovado e la dignità di decano del S. Collegio fino all'elevazione al pontificato.
Da questi benefici trasse grande somma di denaro; ma più ne trasse dall'alto e lucroso ufficio di vicecancelliere della Chiesa, a cui lo elevò Callisto III con bolla datata 1 maggio 1457 e pubblicata il 5 settembre di quell'anno. lacopo Gherardi da Volterra lo giudicò il più ricco cardinale, dopo il francese Estouteville (Diario romano, ediz. a cura di E. Carusi, in Rerum Italicarum Scriptores, n. 2, XXIII, 3, p. 49) Ebbe notevole credito presso lo zio pontefice, che lo inviò come legato nella Marca d'Ancona (31 dic. 1456); tenne l'ufficio circa un anno, spiegando lodevole energia. Dallo zio ebbe, l'11 dic. 1457, la nomina a "dux et generalis commissarius" delle truppe pontificie in Italia. Maggiore della sua fu tuttavia la potenza del fratello Pedro Luis, e maggiori i destini che il papa sognava per questo. E tuttavia, quando gli altri Borgia, e lo stesso Pedro Luis, erano fuggiti innanzi alle temute vendette del popolo contro la casa odiatissima, Rodrigo rimase coraggiosamente accanto al letto di morte del pontefice.
Nel conclave del 1458, fu il primo a dare l'esempio dell'accesso, che determinò l'elezione di Enea Silvio Piccolomini, Pio II. Ma il nuovo pontefice, pur concedendogli benefici e facendone qualche volta le lodi, non n'ebbe stima: ne rimproverò la leggerezza in fatto di costumi, il lusso, l'amore al denaro. È vero, d'altra parte, ch'egli fece allestite a sue spese una galea per la sognata impresa di Pio contro i Turchi e fti tra quelli che accompagnarono il vecchio papa ad Ancona, dove questi morì.
Essendosi "fatigato a la real" per l'elezione di Paolo II(1464), parve che dovesse aver "gran credito" presso di questo (cfr. Pastor, II, p. 733); ma durante il pontificato di lui rimase nell'ombra.
Accedette alla elezione di Sisto IV, che lo creò, il 22 dic. 1471, legato a latere nella Spagna per la crociata; partì il 15 maggio 1472, e fu l'unico suo ritorno nella terra natale. Se non riuscì ad ottenere che i regni spagnoli partecipassero alla guerra santa, poté favorire la regolarizzazione delle nozze di Ferdinando d'Aragona e d'Isabella di Castiglia, preparando l'unione futura dei regni e la potenza della Spagna; e riunì a Segovia un concilio, in cui furono prese misure contro l'ignoranza dei chierici. Ritornato a Roma (25 ott. 1473), ne usci nuovamente come legato per incoronare Giovanna regina di Napoli (1477). Ma nelle acerbe lotte, che si combatterono durante il pontificato di Sisto, non sappiamo che avesse posizione di rilievo.
Nel conclave che seguì alla morte di Sisto IV lavorò per la elezione propria, usando largamente la corruzione; ebbe il favore della lega italica (Milano, Firenze e Napoli), degli Orsini, di Girolamo Riario, del cardinale Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, del cardinale di Aragona, figliuolo di re Ferrante, e parve vicino a raggiungere la tiara; ma gli nocquero il carattere, ch'era ritenuto superbo e sleale, e più l'essere egli straniero, uno degli aborriti Catalani. Quando il cardinale di S. Pietro in Vincoli, Giu liano della Rovere, si diede a maneggiare con mezzi non leciti in favore del Cibo, il Borgia, perduta la speranza del pontificato, stette con lui; il Cibo fu eletto papa, Innocenzo VIII (29 ag. 1484).
Ma, dopo d'allora, contro il della Rovere, che fu, salvo brevi intervalli, padrone dell'animo del debole papa, si strinse con Ascanio; i due furono allora, "ostro e tramontana", di fronte a Marco Barbo, il più degno uomo che fosse nel Collegio, e a Giuliano, che, pur non immune da pecche, rappresentava in esso, col Barbo, la parte che voleva rialzare il prestigio del papato. E aveva sempre l'occhio alla tiara: l'oratore fiorentino, quando ne voleva il favore per la creazione cardinalizia del fanciullo Giovanni de' Medici, gli faceva sperare "l'imperio dei cristiani" (lettera di G. Lanfredini 5 febbr. 1488-89, nell'Arch. di Stato di Firenze, Carteggio Mediceo avanti il Principato, LVIII, 96-97); nel 1490 vi era nel seguito del Barbo chi temeva il suo avvento al papato, quantunque egli non fosse capo di una fazione, ma aderisse a quella dello Sforza. Poiché il della Rovere, già fiero nemico degli Aragonesi, si era stretto con loro e ne aveva appoggio contro i maneggi dello Sforza, le aspirazioni personali di Rodrigo si accordavano con le vedute di Ascanio, mentre la rivalità fra lo Sforza e il della Rovere, capi delle due fazioni cardinalizie, s'intrecciava con l'inimicizia che le opposte aspirazioni su Genova e l'ambizione del Moro avevano seminata fra gli Sforza e gli Aragonesi, fra Milano e Napoli.
Quando il 6 ag. 1492 si apriva il conclave per la morte di Innocenzo VIII, il cardinale vicecancelliere Rodrigo Borgia aveva passato da poco i sessant'anni. Il Borgia era bello nella persona, distinto nei modi, quantunque, non ancora trentenne, fosse apparso al mantovano Schivenoglia "de uno aspeto de fare ogne malo"(Raccolta di cron. e docc. stor. lombardi, II, Milano 1857, p. 137). Era d'ingegno vivo e versatile, buon conoscitore del diritto canonico, esperto dell'amministrazione della Curia e di negozi politici, abile nella trattazione degli affari. Non aveva, però, qualunque cosa abbiano detto gli apologisti suoi vecchi e nuovi, nè doti singolari, nè fama di grandi imprese, nè opere d'ingegno che lo raccomandassero alla posterità: qualche scritto dato come suo è di attribuzione assai dubbia.
Egli era invece un debole, un passionale, dominato da quella che i contemporanei dissero "carnalità", cioè amore alla famiglia e in particolare ai figliuoli, amante del lusso e del fasto, pur essendo modeste le sue abitudini personali, piuttosto gran signore del Rinascimento che uomo di Chiesa, attratto da piaceri troppo spesso non leciti. Nel 1460 Pio II l'aveva dovuto ammonire con una grave lettera per avere egli con l'Estouteville partecipato a una festa profana e, secondo la pubblica voce, scandalosa negli orti di Giovanni Bichi in Siena: il cardinale s'era scusato e il pontefice aveva accolto parzialmente la scusa.
Fra il 1462 e il 1471 gli nacquero, non sappiamo se dalla stessa donna o da più, Pedro Luis, che da Ferdinando il Cattolico ebbe nel 1485 il ducato di Gandia e il titolo di Grande di Spagna, Girolama ed Isabella o Elisabetta. Da Vannozza Catanei (1442-1518), sposata prima a Domenico d'Arignano, poi a Giorgio della Croce milanese, infine a Carlo Canale mantovano, il Borgia ebbe, fra il 1474 o '75 e il 1481 o '82, i quattro figliuoli più noti, Giovanni, il secondo duca di Gandia, Cesare, Lucrezia, Jofré. Negli ultimi anni prima di giungere al pontificato, aveva intrecciato una relazione con Giulia Farnese, la bellissima e giovanissima sposa di Orsino Orsini: di chi fosse figliuola una Laura, nata da Giulia fra il 1491 e il '92, forse nessuno sapeva.
L'intimità con Giulia Farnese continuò anche dopo l'elezione del Borgia al pontificato; e fu così palese, che ricorreva a lei chi volesse favore dal papa. E, tramontato anche il prestigio di Giulia, il Borgia ebbe ancora, fra il 1492 e il '99, un Giovanni, l'infans Romanus, del quale è avvolta nel mistero la madre, e un Rodrigo, nato sulla fine del pontificato, se pure non postumo. Se parecchi episodi scandalosi, attribuiti a lui, possono essere stati frutto di fantasia o invenzione di malevoli, i tentativi per difendere in tutto o in parte il Borgia dall'accusa di condotta immorale, non reggono innanzi alla critica, poiché, a tacere delle asserzioni numerosissime di contemporanei anche non sospetti, vi sono bolle e brevi sicuramente autentici, dovuti a predecessori e a successori di A. e ad A. stesso, che tolgono ogni dubbio in proposito.
Tuttavia l'elezione, dai più non attesa, fu unanime. Non già che essa fosse riconoscimento di qualità eccezionali del vice-cancelliere, o, come altri pensò, nascesse da un compromesso fra le due fazioni cardinalizie: il Borgia era così legato allo Sforza che non si poteva pensare a lui come ad un uomo superiore all'acerba lotta che si andava combattendo in conclave e in Italia.
Le cose andarono in ben altro modo. Dopo due scrutini, nei quali ciascuna delle due parti saggiava il terreno, quando si andò profliando, nel terzo, la possibilità della elezione di un fautore di Giuliano della Rovere, o forse del napoletano Oliviero Carafa, aderente di Ascanio, ma non così acceso che non si potessero raccogliere sopra di lui voti delle due fazioni e togliere quindi significato alla elezione, Ascanio mise innanzi quello che era il suo vero candidato, che poteva disporre di tanti mezzi ed era così privo di scrupoli da rendere sicura l'elezione. Con promesse simoniache, forse con denaro, furono tenuti fermi gli osdillanti, tratti alcuni degli avversari, guadagnati sopra tutto quei tardinali della baronia romana, il Colonna, l'Orsini, il Savelli, senza il concorso dei quali, o almeno di qualcuno di loro, non si poteva avere elezione. Quando questa fu sicura, piegarono anche gli altri, i migliori dei quali, forse, per evitare uno scisma. La mattina dell'11 ag. 1492, dopo un ultimo scrutinio tenuto "ex composito", si potè annunziare al popolo il gaudio grande che Rodrigo Borgia era papa Alessandro VI.
L'elezione fu accolta, a Roma e fuori, com'era costume, con apparente esultanza. Ma agli osservatori degli eventi politici essa parve un trionfo non tanto di Ascanio Sforza quanto del Moro; e ai pochi pensosi ancora delle sorti della Chiesa parve tristo annunzio di danno futuro.
Quantunque, già dal principio del pontificato di A., si manifestassero, in diverse nomine ad uffici ecclesiastici, segni di eccessivo favore agli Spagnoli e in particolare a figliuoli e congiunti, i primi atti suoi diedero buone speranze di amministrazione più rigida e oculata, di più ferma tutela dell'ordine, di più severa giustizia, di amore alla pace, di zelo per la riforma della Chiesa e per la guerra santa.
Ma presto A. fu trascinato, in parte contro sua voglia, in brighe politiche, nelle quali si mostrò timido ed incerto; "el papa - scriveva nel 1494 Pandolfo Collenuccio, oratore del duca di Ferrara - non sole esser de ferro" (v. in Arch. d. R. Soc. romana di storia patria, XXXIII [1910], p. 399). Il malumore di lui per la riluttanza di Ferrante di Aragona e di Piero de' Medici a un' ambasceria collettiva della lega italica, la quale sarebbe stata di maggior onore al pontefice e avrebbe rafforzato la posizione del Moro, fu accresciuto dalla vendita dei castelli di Cerveteri e dell'Anguillara, fatta da Franceschetto Cibo, che li aveva avuti dal padre, Innocenzo VIII, a Virginio Orsini, soldato di Ferrante; nella quale vendita A. vide, in parte a torto, un maneggio del re per "tagliargli il naso". Per questo egli si legò più che mai con Ascanio: la tredicenne Lucrezia fu data allora come sposa a uno Sforza, Giovanni signore di Pesaro (12 giugno 1493). E poco innanzi A. era entrato nella lega di San Marco (25 apr. 1493), con Milano e Venezia, che aveva per fine di rassicurare insieme il papa ed il Moro.
Ma questa lega avrebbe, anche, indirettamente giovato a troncare gli intrighi, che il Moro, pauroso di perdere il potere, aveva iniziati già con la Francia. Poiché se può essere - ma non è certo - che, nelle contese col della Rovere, con l'opposizione cardinalizia, con re Ferrante, A. alcuna volta abbia pensato a sollecitare l'aiuto di Carlo VIII, in verità egli non desiderava un trionfo dei Francesi, che avrebbe rappresentato un pericolo per l'indipendenza dello stato temporale e della stessa autorità spirituale del papato.
Forse per timore delle ambizioni sforzesche e francesi, ma certo anche per trarne vantaggi per la famiglia sua, A., nel luglio e agosto del 1493, si riconciliò col re di Napoli, col della Rovere e gli Orsini, assicurando il re e i Fiorentini contro qualsiasi potenza, citramontana o ultramontana; e a Perron de Baschi, che domandava l'investitura del regno per Carlo VIII, rispose in modo evasivo: condizione e pegno della pace tra A. e Ferrante fu il matrimonio di Sancia d'Aragona, figlia illegittima del duca di Calabria, con Jofré Borgia, con in dote il principato di Squillace e la contea di Cariati (16 ag. 1493).
Ma, nel settembre, A. si riaccostò ad Ascanio, per intolleranza dei modi imperiosi di Giuliano della Rovere e assai più per rendere possibile con l'aiuto dello Sforza la creazione di cardinali, di due specialmente, di Cesare Borgia, nominato già da lui (31 ag. 1492) vescovo di Valencia, e di Alessandro Farnese, fratello di Giulia: la creazione avvenne il 20 settembre e comprese, con qualche prelato egregio, quei due e il quindicenne Ippolito d'Este e Bernardino Lunati, un oscuro servitore d'Ascanio. E tuttavia A. tentò ancora di pacificare Ferrante ed il Moro e di guadagnare a sé Piero de' Medici; e pensava di opporre l'unione degli Italiani alle cupidigie francesi. Ma il re non sì fidava di lui; e gli stati italiani erano distratti da interessi contrastanti e non credevano alla minaccia francese o non la curavano.
Quando la minaccia si accentuò e sul trono di Napoli sedeva Alfonso Il, più dèbole e meno sospetto al papa dell'energico e ambizioso Ferrante, A. si ravvicinò all'Aragonese; scongiurò Carlo VIII "per viscera Domini Nostri Iesu Christi" di trattenersi dall'aggredire una potenza cristiana, mentre incombeva il pericolo turco; se inviò, quell'anno 1494, la Rosa d'oro al re di Francia, fu per impegnarlo alla difesa della fede. Ma egli contrastava l'invasione francese non solo, nè principalmente, per l'amore da lui protestato all'Italia, o per vigile cura degli interessi del pontificato, bensì perché temeva per sé: Giuliano della Rovere, che, fuggito in Francia (aprile 1494), era accanto al re, parlava di un concilio, che avrebbe deposto il pontefice. E, anche, A. pensava, come al solito, agli interessi di famiglia: l'accordo con Alfonso IIfu possibile solo quando il re cedette alle esigenze del papa in favore di Giovanni di Gandia e di Jofré. Alfonso fu allora incoronato da un legato papale (8 maggio 1494); in un abboccamento a Vicovaro (14 luglio) fra il pontefice e il re furono presi accordi per la difesa dello stato papale, del Regno e d'Italia.
A. spiegò in quei mesi contro l'invasione francese un' attività maggiore delle altre potenze italiane: tentò ancora di stornare Carlo VIII dall'impresa; penso ad unire Venezia e Firenze, la Spagna e l'imperatore; non rifuggì nemmeno dal chiedere il concorso, almeno diplomatico, dei Turchi, anche se le lettere divulgate allora, che avrebbero dimostrato una più stretta unione del papa con gl'infedeli, siano almeno sospette. Ma la Spagna e Massimiliano avevano conchiuso nel loro interesse trattati con Carlo VIII; i Fiorentini esitavano a guastarsi con la Francia, avendo qui interessi di commercio; Venezia non voleva uscire dalla neutralità, soprattutto per timore dei Turchi. Del resto anche A. appariva troppo spesso titubante e interessato: esitava a dare denaro e uomini; esigeva da Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, i 800 ducati come prezzo di un cappello cardinalizio al figliolo suo Antongaleazzo, quantunque la concessione del cappello sembrasse il solo mezzo per assicurare la fedeltà del padre al pontefice e alla futura lega italiana.
Di fronte al fallimento dei tentativi di arrestare l'avanzata di Carlo VIII, all'accordo di Piero de' Medici prima e poi dei Fiorentini con lui, alla ribellione dei baroni romani, al favore con cui il popolo stesso di Roma guardava al re, come se egli venisse "redempturus Israel", A., dopo altri vani tentativi di volgere il re contro i Turchi, dovette cedere: il 31 dic. 1494 Carlo VIII entrava in Roma acclamato. Dopo trattative difficili, A. si accordò con lui (15 genn. 1495) a condizioni assai dure: passo al re attraverso lo stato papale, in mano sua Civitavecchia, legato nel campo regio in apparenza, in realtà ostaggio per quattro mesi, Cesare Borgia. Ma, pur rendendo a Carlo grandi onori, A. non gli concesse l'investitura del Regno. Quando gli stati italiani, eccetto Firenze, sentirono la stoltezza di avere lasciato il re di Francia attraversare, senza trarre la spada, tutta l'Italia, e gli stati europei apparvero impensieriti della rapida fortuna di Carlo VIII, A. entrò nella lega santa del 31 marzo 1495, con la Spagna, l'imperatore, Venezia, il Moro stesso. E fu la prima lega per l'equilibrio d'Europa.
Nel ritirarsi di Carlo VIII da Napoli, attraverso Roma e lo Stato papale, che nessuno pensava a difendere, A. riparò ad Orvieto e a Perugia, negando ancora l'investitura; tornò a Roma, quando il re era già nel settentrione, e fu accolto in trionfo (27 luglio). Ma presso a Fornovo l'esercito della lega non era riuscito a chiudere a Carlo VIII la via del ritorno in Francia (6 luglio); la lega si sciolse presto; il re poteva pensare a ritogliere agli Aragonesi il Regno di Napoli, che avevano ricuperato anche con gli aiuti papali. A. esortava ancora i Veneziani a non desistere dall'opporsi ai Francesi; sollecitava Massimiliano a scendere in Italia per combattere i Fiorentini, tenacemente legati alla Francia. E intanto approfittava del crollo dei Francesi in Italia per fiaccare gli Orsini, loro alleati e sempre nìinacciosi al potere pontificale. Il suo duca di Gandia, fatto senza alcun merito capitano generale della Chiesa, dopo buoni successi iniziali, fu sconfitto a Soriano (25 genn. 1497); C tuttavia ricevette il ducato di Benevento, e Terracina e Pontecorvo, terre papali (7 aprile). A. adesso era stretto alla Spagna e agli Aragonesi e con l'aiuto di quella ricuperò Ostia (9 marzo); al cardinale Cesare Borgia fu dato l'ufficio di legato papale, perché incoronasse a Napoli Federico d'Aragona (8 giugno).
Appunto allora la vicenda savonaroliana dava un nuovo indirizzo alla politica di Alessandro VI.
Nell'eroico suo sforzo di riportare Firenze e l'Italia e la Chiesa a purezza di costumi e fervore di vita religiosa, Gerolamo Savonarola, ch'era divenuto priore di San Marco in Firenze, non esitava ad attaccare, con la veemenza propria del suo carattere, la Curia romana, che gli pareva fonte d'ogni male, e, senza nominarlo, lo stesso pontefice. A., d'altra parte, oltre che dal risentimento personale, era spinto contro di lui da un motivo politico perché, nella predicazione del frate, che esaltava la missione del nuovo Ciro, re Carlo VIII, da cui sarebbero state flagellate e rinnovate Firenze, l'Italia, la Chiesa stessa di Dio, vedeva l'ostacolo principale ai suoi sforzi di staccare i Fiorentini dalla Francia. Egli proibì al Savonarola di predicare e ordinò che il convento di S. Marco fosse riunito alla Congregazione domenicana lombarda (8 sett. 1495).
Il Savonarola dapprima obbedì al divieto papale; poi, secondo un ordine dato dalla Signoria di Firenze, risalì, il 17 febbr. 1496, sul pergamo. Forse egli credette che il cardinale Carafa, protettore dell'Ordine domenicano, consentendo la predicazione, fosse in tacito accordo col papa; certo fin d'allora affermava non doversi obbedire a un comando dei superiori, che si vedesse manifestamente contrario ai comandamenti di Dio. E inveiva più che mai contro le "vaccae pingues" di Roma, contro i vizi di "Babilonia", contro la Chiesa "ribalda". A. tollerò per allora; ma dopo avere, come si disse - e non è certo - tentato invano di guadagnare il Savonarola con l'offerta del cappello cardinalizio, ordinò, sotto pena di scomunica, la riunione dei conventi cli Toscana e di Roma in una nuova Congregazione (15 nov. 1496). Il Savonarola e i suoi frati non obbedirono a un ordine che, a loro parere, avrebbe avvelenato le anime: A. dichiarò il Savonarola scomunicato (13 maggio 1497). Il frate aveva per vero rinnovato in quei giorni una solenne protesta di obbedienza alla Chiesa; ma, pubblicato il 15 giugno il breve papale, scrisse una Epistola, nella quale proclamava l'invalidità della scomunica, perché fondata su motivi falsi, e ripeteva che non si doveva obbedire a ordini contrari alla carità cristiana e alla legge divina. E, pur riaffermando ancora una volta la sottomissione al papa, celebrò le funzioni religiose nel Natale del 1497; e l'11 febbr. 1498 riprese con sempre maggiore foga la predicazione. Il papa chiese allora a Firenze la consegna e la carcerazione del frate, minacciando l'interdetto (26 febbr. 1498). La Signoria fiorentina, che ora gli era avversa, cercò tuttavia di difenderlo; ma, di fronte a nuove minacce papali, gli proibì di predicare (17 marzo).
Fra' Girolamo sollecitò allora dalle potenze cristiane la convocazione di un concilio, in cui si sarebbe dovuto deporre il pontefice simoniaco, eretico ed infedele. Avversato dalle opposte fazioni, abbandonato da chi non lo voleva seguire nella disobbedienza al pontefice e dal popolo stesso, che da lui aveva invano atteso il miracolo, il Savonarola fu arrestato. Al processo, condotto con arti inique, presero parte nell'ultima fase due commissari papali; condannato a morte, il frate fu degradato, impiccato ed amo (23 maggio 1498).
Per un breve periodo A. sembrò voler procedere a quel risanamento della Curia e della Chiesa, che il Savonarola aveva invocato.
Quando fu ucciso, nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1497, il prediletto suo Giovanni di Gandia - e non se ne conobbe mai con certezza l'uccisore, se pure non fu lo stesso fratello, Cesare - A. vide in quel fatto un castigo e un ammonimento divino. Disse di voler riformare la Curia, a cominciare da sé stesso: forse era allora sincero. Una commissione di sei cardinali, scelti per la maggior parte fra i migliori, lavorò attivamente, preparò un piano di riforme, che preludeva al tridentino, stese una bolla. La bolla non fu pubblicata; le riforme non furono attuate che in piccolissima parte; i buoni propositi di A. erano già svaniti.
Adesso A. era in balia di un uomo, che egli amava e temeva (v. Sanuto, Diarii, III, p. 846), il figliuolo suo Cesare. Della nuova politica fu preannuncio la dichiarazione di nullità del matrimonio di Lucrezia con Giovanni Sforza (20 dic. 1497), pronunziata da una commissione di alti prelati in seguito a una confessione umiliante strappata allo sposo: un anello della catena, che legava i Borgia agli Sforza, era spezzato. Non sembrava pero ancora che né il papa né Cesare avessero trovato con sicurezza la loro via: le dissuasioni del papa a Carlo VIII e al suo successore (7 apr. 1498) Luigi XII dal ritentare imprese in Italia, i nuovi sforzi per una lega di potenze italiane, le trattative per un matrimonio di Cesare con Carlotta, figlia di Federico re di Napoli, le seconde nozze di Lucrezia con Alfonso duca di Bisceglie, figlio naturale di Alfonso II (21 luglio 1498), parevano indicare un accostarsi dei Borgia agli Aragonesi e una resistenza alle cupidigie della Francia. Ma presto fu chiaro dove A. volesse giungere, o anzi dove Cesare lo volesse trascinare.
Deposta per consenso del Sacro Collegio la porpora (17 ag. 1498), Cesare andò in Francia con pompa regale (ottobre 1498); e aveva con sé il cappello per l'Amboise, onnipotente a corte, e per il re la dispensa papale (13 settembre) perché potesse sposare Anna di Bretagna e rinsaldare cosi l'unità francese, quando unat commissione avesse dichiarato, come dichiarò non molto dopo (18 dicembre), la nullità del matrimonio di Luigi con Giovanna di Valois. Fu accolto regalmente; fu tramutato per concessione di Luigi XII da cardinale Valentino in duca Valentino; ebbe per opera del re la mano di Carlotta d'Albret, sorella del re di Navarra e congiunta del re di Francia. Ormai Cesare era "francese"; e "tutto francese" era il papa, perché il re voleva bene a Cesare, "obieto e subieto" di lui (Sanuto, II, p. 826).
Seguì la rottura con gli Sforza e con la Spagna, i cui oratori rinfacciavano duramente al papa la simonia e il nepotismo.
Nella guerra di Francesi e Veneziani contro il Moro, seguita alla lega di Blois del 9 febbr. 1499, A. ebbe contegno tanto ambiguo che ambedue le parti si vantavano di averlo con sé; ma Cesare era accanto a Luigi XII nell'ingresso trionfale di questo in Milano (6 ottobre). E si accingeva ora a conquistare la Romagna e le Marche. Il pretesto era quello di schiacciare i signorotti riottosi, se non ribelli, contro la Chiesa. Può darsi che A. avesse anche in mira di costruire un forte stato come baluardo della Chiesa contro le minacce straniere; ma era, questo, uno stato dei Borgia, non della Chiesa, e, alla morte di A., avrebbe reso schiavo il nuovo pontefice, o l'avrebbe costretto a impugnare le armi per disfarlo. E Cesare era luogotenente di Luigi XII e ne seguiva gli ordini; e contribuiva non a liberare l'Italia dalla servitù forestiera, come pensò il Machiavelli, ma ad accrescere la potenza del re di Francia in Italia.
Caddero Imola e Forlì (dicembre 1499, gennaio 1500); Cesare, interrotta per un poco l'impresa di Romagna per il risorgere della potenza del Moro, che gli toglieva gli aiuti di Francia, celebrò in Roma un pomposo trionfo (26 marzo 1500); ed ebbe dal papa le insegne di gonfaloniere della Chiesa e la Rosa d'oro e, ciò che più importava, il possesso di Castel S Angelo e delle altre fortezze papali. Quando il Moro giacque (10 aprile), il papa ne festeggiò a Roma la definitiva caduta.
Ancora un legame stringeva i Borgia agli Aragonesi, ed era un pericolo per Cesare, perché Lucrezia, la sposa di Alfonso di Bisceglie, era anche troppo cara al pontefice, che arrivava fino a lasciare, in sua assenza, a lei, poco più che giovinetta, l'amministrazione del palazzo papale e la reggenza degli affari temporali della Chiesa. Forse il ferimento (15 luglio), certo l'uccisione di Alfonso (18 agosto) furono opera di Cesare Borgia.
Fatto denaro con la creazione cardinalizia del 28 sett. 1500, con l'entrate del giubileo, forse con le somme destinate alla crociata, Cesare riprese la guerra; costrinse a fuggire i signori di Pesaro e di Rimini, prese Faenza, il cui giovine signore Astorre Manfredi e il fratello suo furono poi uccisi in Castel S. Angelo; pose a taglia i Fiorentini; tolse terre all'Appiano di Piombino e al Bentivoglio di Bologna. Dal papa ebbe nel maggio del 1501 il titolo di duca di Romagna.
A. aderì, con una bolla del 25 giugno 1501, al trattato di Granada dell'11 nov. 1500, che segnava la fine della dinastia aragonese di Napoli e la spartizione del Regno tra la Francia e la Spagna. Anche qui possiamo pensare che A. credesse davvero a un ricorso di re Federico ai Turchi, che si acconciasse a un fatto che non poteva impedire, che ritenesse di allontanarsi meno dalla tradizione politica del papato, consentendo lo stabilirsi nel Regno, anzi che d'un solo potente, di due, fra loro rivali e perciò meno pericolosi. Ma era doloroso che il papa aderisse alla iniqua spogliazione di un re, che da suo figlio aveva ricevuto la corona. Cesare partecipava alla conquista del Regno con le milizie francesi, strumento, come sempre, delle ambizioni di Francia.
A. obbligò allora i Colonna a cedergli i castelli; poi, siccome essi e i Savelli s'erano stretti con re Federico, li scomunicò, ne confiscò i beni, diede il ducato di Sermoneta a Rodrigo di Lucrezia e quello di Sutri all'infans Romanus. Per favorire i nuovi disegni di Cesare su Bologna e Firenze, Lucrezia fu data, sposa per la terza volta, a ventun anni, ad Alfonso, figlio di Ercole d'Este duca di Ferrara (30 dic. 1501); Luigi XII era intervenuto per vincere la riluttanza del duca. Di Piombino, tolta agli Appiano (settembre 1501) e fortificata, si disse, da Leonardo da Vinci, Cesare mirava a farsi un punto d'appoggio per la conquista della Toscana. Intanto occupava Urbino e Camerino (giugno e luglio 1502); da Bologna lo tratteneva Luigi XII. E al re, venuto in Italia, ricorrevano quanti erano stati spogliati, o temevano di essere spogliati dal Valentino. Ma questi, corso a Milano, riusciva a ricuperarne l'amicizia, promettendogli aiuto contro la Spagna; ancora una volta il re di Francia appariva arbitro delle cose d'Italia.
Fortuna per Cesare, che poté, con l'aiuto del re, salvarsi dal pericolo dell'unione dei suoi stessi condottieri con i nemici suoi nella congiura della Magione (ottobre 1502) e della ribellione delle sue più recenti conquiste; il "bellissimo inganno" di Senigallia (31 dicembre) lo sbarazzò dei più pericolosi congiurati; altri furono tolti di mezzo più tardi. A Roma A. fece arrestare il cardinale Orsini con altri della famiglia, o aderenti a questa: il cardinale morì in carcere con sospetto di veleno; tutte le terre degli Orsini furono prese da Cesare, eccetto Bracciano, salvata dalla protezione del re.
Cesare occupò ancora Città di Castello e Perugia; nuovo denaro veniva da una nuova creazione cardinalizia (31 maggio 1503); morte di ricchi cardinali e prelati, carcerazione di altri, anche colpevoli, erano attribuite, a torto o a ragione, alla sete di denaro dei Borgia. Si sussurrava da tempo che il Valentino, col favore del papa, mirasse ben in alto, nulla meno che alla corona d'Italia.
Ma a Luigi XII non conveniva che Cesare si facesse troppo potente in Italia: sulla via di Firenze, come di Bologna, il Valentino trovava l'ostacolo della Francia. D'altra parte, A. era stretto dal timore di ridursi "zago", chierichetto, del re di Francia (cfr. Giustinian, Dispacci, I, p. 242); vedeva con sospetto un possibile accordo fra gli stranieri, senza partecipazione degli Italiani; sentiva, anche; il pericolo che fosse asservita la Chiesa. Fin dal 20 marzo 1502, per mezzo del suo segretario Adriano da Corneto, aveva sollecitato i Veneziani a collegarsi con lui; e ripeté poi molte volte l'invito (Giustinian, Dispacci, I e II passim). Era probabilmente sincero, quando diceva di volere la unione di "questa povera Italia" per "liberarla dalla servitù" (ibid., I, pp 477 e 466); ma pensava anche, sopra tutto nelle ore del pericolo, ad assicurare le fortune del suo Cesare, che voleva "collocato nelle brazze " della Signoria di Venezia (ibid., p. 394 e altrove più volte). E Venezia non era per nulla disposta a fare da custode ai domini di Cesare, di cui anzi "el furor iuvenil" (ibid., I, p. 396) le faceva paura.
Deluso nelle speranze sui Veneziani, A. si volgeva ora alla Spagna, già vit- toriosa nel Regno: la creazione cardinalizia del 31 maggio 1503 non era solo un affare simoniaco, ma una manifestazione di favore agli Spagnoli, a cui erano dati cinque cappelli su nove; poteva parere assicurata la successione nel pontificato a uno spagnolo o a un candidato di Spagna.
La morte, probabilmente di apoplessia durante un'infezione di malaria, colse fra questi disegni A. il 18 ag. 1503.
È immeritata la lode data ad A. di precursore della riforma cattolica: il proposito di riforma, come vedemmo, ebbe durata breve e non sorti alcun esito; non foss'altro, le creazioni cardinalizie e le nomine di vescovi, fatte troppo spesso per simonia e nelle persone di uomini non degni, non consentono di vedere in lui alcuno sforzo serio di migliorare la Chiesa. È tuttavia da riconoscere che l'opera di lui nel campo religioso, sebbene scarsa perché soffocata dalle brighe politiche e dal nepotismo, non fu trascurabile.
L'ortodossia di A. non fu messa in dubbio seriamente neppure dagli avversari più fieri; poté anche essere sincera la sua pietà, sebbene malamente congiunta con trascorsi morali gravissimi. Della fede cattolica e dei diritti della Sede papale fu custode geloso: combatté gli eretici, contro dei quali rinnovò il 4 apr. 1493 e di nuovo negli anni seguenti la bolla In coena Domini; rimise in vigore per la Germania le disposizioni di Innocenzo VIII sulla censura ecclesiastica dei libri (1 giugno 1501); incaricò Adriano da Corneto, suo nunzio in Inghilterra, di riformare le Chiese e i monasteri di questo paese (5 giugno 1493) e favorì disegni di riforma in Francia e in Spagna; nei Paesi Bassi difese contro le autorità laiche i privilegi ecclesiastici. Tollerante con gli Ebrei, alle cui pingui casse poteva attingere, fu, come spagnolo, severo contro i "marrani", costretti a pubbliche penitenze e a taglie gravose. Per provvedere a una sollecita spedizione dei brevi papali, istituì il collegio degli "Scriptores brevium apostohcorum" (1 apr. 1493). Favorì gli Ordini religiosi, come gli agostiniani, a cui diede in perpetuo l'ufficio di sacrista del Sacro Palazzo, e i minimi di s. Francesco di Paola, che approvò nel 1493; ebbe relazioni spirituali con la beata Colomba da Rieti, nonostante la franchezza con cui ella, nuova Caterina, flagellava i vizi della corte papale. Promosse la conversione degli Orientali e le missioni, anche nelle terre novamente scoperte, dove fu inviato (25 giugno 1493) con larghi poteri il francescano Bernal Boyl, che aveva per compagno il Las Casas, più tardi coraggioso difensore degli Indiani.
La conversione degli indigeni delle nuove terre era anche, nel pensiero di A., la giustificazione delle celebri bolle del 3 e 4 maggio 1493, con le quali il papa tracciava una linea di demarcazione tra i domini coloniali spagnoli e portoghesi, dal polo artico all'antartico, a cento miglia dalle isole Azzorre e da quelle del Capo Verde, attribuendo alla Spagna le terre "versus occidentem et meridiem", purché non fossero già dominio di altra potenza cattolica, e concedendole i privilegi stessi di cui godevano i Portoghesi nelle loro terre d'oltre mare (De Roo, III, pp. 475 ss.). Non era questo veramente un arbitrato fra Spagna e Portogallo, perché A., dirigendo le bolle ai sovrani di Castiglia, diceva di averle accordate "motu proprio, de nostra mera liberalitate" e senza dubbio le aveva concesse per la preghiera unilaterale di quei sovrani. Ma il fatto che questi documenti papali servissero di base alle trattative future fra le due potenze è testimonianza di quanto alto fosse ancora, con A., il prestigio del pontificato romano.
E ne fu altra prova il concorso larghissimo al giubileo, indetto da A. per l'anno secolare 1500; si riversò a Roma grande folla di pellegrini - era fra loro il Copernico - non curanti della peste e dei pericoli delle vie, che i decreti del papa non erano riusciti a mantenere sicure: si poté allora dire che "ingens orbis in urbe fuit" (v. Sigismondo dei Conti, Le storie de' suoi tempi, II, Roma 1883, p. 218). Furono molte le offerte; ma servirono a Cesare per le imprese di Romagna.
A. non era un letterato: scriveva e parlava ora nel dialetto suo valenziano, ora in un italiano misto di idiotismi catalani e castigliani; era anche oratore mediocre. Tuttavia protesse gli studi; stanziò denaro per la ricostruzione della Sapienza di Roma; diede a dotti canonisti alti uffici ecclesiastici, a Felino Sandei il vescovado di Penne (1495), la carica di referendario, il vescovado di Lucca (1499), a Giovanni Antonio Sangiorgio la porpora (1493). Favorì gli umanisti, come Pomponio Leto, Michele Ferno, che fu il suo panegirista, Adriano Castellesi da Corneto, che fu suo tesoriere (1500) e cardinale (1503), Lodovico Podocataro da Cipro, segretario suo e anch'egli cardinale (1500), Scipione Carteromaco, Aldo Manuzio, il Lascaris, i due Brandolini; minore fortuna ebbe il Poliziano, per il quale Piero de' Medici chiese inutilmente il cappello cardinalizio. Ma negli uffici di Curia il papa preferì gli Spagnoli, a gran dispetto degli Italiani.
Amò l'arte, quantunque fosse ben lontano dal largo e illuminato mecenatismo di Sisto IV e di Giulio II. Ancora cardinale, s'era fatto costruire in Roma, tra Ponte S. Angelo e Campo de' Fiori un magnifico palazzo, che è ora Sforza-Cesarini, e altro palazzo in Pienza; e ad Andrea Bregno aveva commesso l'altar maggiore di S. Maria del Popolo. Di lui papa sono da ricordare il soffitto di S. Maria Maggiore, decorato riccamente con oro, che si disse importato dall'America; la via Alessandrina da Castel S. Angelo al Vaticano, che fu poi nota col nome di Borgo Nuovo ed è ora scomparsa; i lavori di Antonio da Sangallo in Castel S. Angelo e, pure in Castello, gli affreschi del Pinturicchio, purtroppo perduti; la loggia delle benedizioni in S. Pietro.
Ma sopra tutto il nome del papa Borgia è legato alle stanze, scelte per sua dimora in Vaticano, che il Pinturicchio decorò, fra il 1492 e il '95, con ricchi soffitti ed affreschi rappresentanti fatti scritturali ed episodi della vita di Cristo, della Vergine e dei Santi, una delle più splendide opere del Rinascimento. Campeggia in ogni parte il toro, stemma dei Borgia; in un affresco è rappresentato il pontefice in ginocchio davanti a Gesù risorto: è favola invece che egli vi apparisse in atto di preghiera davanti alla Madonna, che aveva i lineamenti di Giulia Farnese, ed è tutt'altro che certo che in una S. Caterina d'Alessandria sia ritratta Lucrezia.
Il cadavere del papa A., dopo essere stato esposto breve tempo in S. Pietro, fu in gran fretta e senza onore sepolto nella chiesa di S. Maria delle Febbri, presso la basilica; dal ì6ìo riposa in S. Maria di Monserrato, dove soltanto nel 1889 ha avuto decoro di tomba.
Ma non ha riposato, né riposa, la fama di lui. Protestanti, illuministi, razionalisti hanno tratto dalla condotta immorale di A. argomento per la lotta contro il pontificato. Libellisti, romanzieri hanno intessuto sul suo conto le storie più fantastiche. E, d'altro lato, cattolici non bene accorti, come un Ollivier, un Leonetti, un De Roo, hanno mostrato di ritenere che la difesa ad oltranza del Borgia fosse difesa dell'autorità altissima ch'egli rappresentava. Pagine assai equilibrate ha scritto, dopo il Rinaldi, il Ranke ed il Reumont, Ludovico von Pastor; la parte del III volume della sua Storia dei Papi, dedicata ad A., rimane, anche se non si possa consentire con lui in ogni punto, il più completo e documentato e sereno studio che si abbia sinora sul papa Borgia.
All'opera di G. Pepe, che ha giudicato severamente, ma non spassionatamente, la politica dei Borgia, s'è contrapposto un rapido quadro di questa tracciato dal Soranzo, che, a sua volta, sembra avere in alcuni punti passato la misura della difesa. Il Soranzo ha anche tentato, con poca fortuna, di demolire la credibilità di uno dei più fieri accusatori di A., il cerimoniere papale Burckard, di negare, o almeno di mettere in dubbio la simonia nell'elezione, di dare una spiegazione onesta alle relazioni del Borgia con la Farnese.
Assai meno serio del lavoro del Soranzo è un volume apologetico, in lingua spagnuola, di Oreste Ferrara, tradotto anche in italiano. E nella Spagna vi è tutto un movimento per la riabilitazione, anzi per l'esaltazione del Borgia, del quale movimento è testimonianza, fra altri, un lavoro del canonico Elias Olmos y Camalda, che nel 1954 era giunto alla settima edizione.
In verità, A. appare, sott'ogni rispetto, minore della sua fama. I vizi di lui non erano forse più gravi di quelli di molti suoi contemporanei; parvero ripugnanti sopra tutto perché egli era vescovo, cardinale, pontefice. Né l'attività religiosa, né il mecenatismo, pur largo, possono reggere il confronto con quello di altri pontefici. L'opera politica fu oscillante, finché non lo dominò la selvaggia energia del Valentino. E, come le sue incertezze e l'egoismo personale e familiare indebolirono nei primi anni la sua azione di difesa dell'Italia dagli stranieri, così l'immoderato amore ai figliuoli, e in particolare a Cesare, tolse poi fede alle sue proteste di sentimenti italiani; lo rese anzi complice di Cesare nell'asservimento dell'Italia alla Francia. La creazione di uno stato, che aveva la base nella Romagna, fu benefica alle popolazioni, liberate dal giogo dei tirannelli, e poteva costituire un nucleo, intorno al quale si raccogliessero le forze ancora libere in Italia; ma lo stato era congiunto con la fortuna dei Borgia. Morto A., lo stato borgiano crollò; e Giulio II dovette rifare intero il cammino, battendo tutt'altra via e con risultati ben più durevoli.
Fonti e Bibl.: Oltre ai documenti inediti contenuti in gran numero nell'Arch. Segreto Vaticano e sparsi in molti Archivi d'Italia e di fuori, principalissime fonti sono J. Burckard, Liber notarum, in Rer. Italic. Scripr., 2 ediz., XXXII, I, a cura di E. Celani, che è tuttavia da usare con cautela (anche, per i documenti, J. Burckard, Diarium, a cura di L. Thuasne, Parigi 1883-85, 3 voll.); A.Giustinian, Dispacci, a cura di P. Villari, Firenze 1876; M. Sanuto, Diarii (v. Indici); P. De Roo, Material for a History of Pope Alexander VI, Bruges 1924, 5 voll., opera diligente, ma del tutto sprovvista di critica; A. VI e il Savonarola (brevi e lettere), ed. dell'Accad. di Oropa, Torino 1950.
La maggior parte delle opere più significative, edite fino al 1924, è registrata in L. v. Pastor, Storia dei Papi, III, Roma 1925, dove le pp. 277-519 sono dedicate ad A. (v. anche I e II, ibid. 1925). Fra quelle pubblicate poi, v. G. B. Picotti, La giovinezza di Leone X, Milano 1928; M. Bellonci, Lucrezia Borgia, Milano 1939; G. Pepe, La politica dei Borgia, Napoli 1946 (cfr. la recensione di G. B. Picotti in Il Ponte, II [1946], pp. 1141-1144); G. Soranzo, Studi intorno a papa A.VI (Borgia), Milano 1950 G. B. Picotti, Nuovi studi e documenti intorno a papa A. VI, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, V (1951), pp. 169-262 (cfr. anche la breve polemica fra il Soranzo e il Picotti, ibid., VI [1952],pp. 96-110); O. Ferrara, El papa Borgia, 3 ed., Madrid s.d. [ma 19471, e ediz. ital., Il Papa Borgia, a cura di A. Cutolo, [Milano] 1953; E. Olmos y Canalda, Reivindicación de Alejandro VI (el papa Borja), 7 ediz., Valencia 1954; G. B. Picotti, Ancora sul Borgia, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, VIII (1954), pp. 313-365; M. Batilori, Alejandro VI y la Casa Real de Aragón, Madrid 1958; Realencyklop. für protest. Théol. und Kirche, I, pp. 347-351; Dict. de Théol. Cath., I, coll. 724-727; Dict. d'Hist. e: de Géogr. Ecclés., lI, coll. 218-229; Encicl. Ital., II, coll. 342-344; Encicl. Catt., I, coll. 795-802.