MARTINO V, papa
MARTINO V, papa. – Oddone Colonna nacque a Genazzano, presso Roma, tra il 25 genn. 1369 e il 25 genn. 1370, come si deduce dal documento relativo alla concessione del priorato di S. Maria di Bevagna da parte di Bonifacio IX il 25 genn. 1391 e nel quale Oddone è indicato come «magister», «notarius pape» e «in vicesimo secundo etatis sue constitutus». Figlio di Agapito e di Caterina Conti, appartenne a una delle più influenti famiglie romane, il ramo cadetto dei Colonna di Genazzano che aveva il centro dei possedimenti in Genazzano, Cave, Capranica, San Vito e Pisoniano.
La carica di «notarius pape» è già presente in un documento del 9 nov. 1389; quella di «magister» rinvia alla laurea in arti, cui avrebbero fatto seguito studi di diritto canonico che egli con molta probabilità approfondì presso lo Studio di Perugia, università dove, oltre a Siena, confluiva la maggior parte della gioventù romana per questi studi. Fin dagli anni giovanili ebbe numerosi benefici ecclesiastici: il 14 febbr. 1387 divenne canonico del capitolo del duomo di Liegi; dal 23 ott. 1391 è citato come priore di S. Maria di Bevagna; fu dispensato dall’obbligo della residenza perché frequentava l’università. Nel ricordato documento del 25 genn. 1391 si precisa che questo priorato non impediva il beneficio ecclesiastico del personato della parrocchiale di St-Germain a Tirlemont (che aveva ancora nel 1401) e l’altare di S. Agata nella chiesa di Burscheyle, diocesi di Liegi. La formazione giuridica lo portò a essere nominato auditore di Rota al tempo di Bonifacio IX.
Oddone manteneva stretti legami con la sua famiglia: in occasione del matrimonio della sorella Paola (18 genn. 1396) rinunciò, con il fratello maggiore Giordano, a metà di Capranica che venne concessa in dote e nel 1401 dette in pegno i propri gioielli e oggetti preziosi (per un valore di 866 fiorini) in cambio della somma che consentisse al fratello Giordano di acquisire diritti sul castello di Cave. Come tutta la famiglia appartenne alla Confraternita della Società del Ss. Salvatore, anche se non si conosce la data di ingresso. Nel 1401 fu nominato amministratore della Chiesa di Palestrina, sede dell’altro e più antico ramo dei Colonna.
Il 12 giugno 1405 fu nominato da Innocenzo VII cardinale diacono di S. Giorgio in Velabro. Partecipò all’elezione di Gregorio XII e nel 1407 si rifugiò in Castel Sant’Angelo con il papa, che gli affidò poi l’incarico di sanare la lite tra «Iohannes Rutenus», rettore di S. Maria «de Lamburga», e i parrocchiani di Magdeburgo e le divergenze tra i vicari degli Ordini dei predicatori e dei minori in tema di decime. Dal 1408 al 1417 fu cardinale protettore dell’Ordine dei servi di Maria.
Il 29 giugno 1408 fece parte del gruppo di cardinali «urbanisti» che si incontrò con un gruppo di cardinali «clementini» per stendere una dichiarazione comune in cui tutti si impegnavano per la convocazione di un nuovo concilio; nel novembre 1408 si unì all’ambasceria inviata da Firenze il 14 di quel mese a Pisa per poi proseguire e dare conto al re Ladislao d’Angiò Durazzo. Il 25 marzo 1409 partecipò alla processione che aprì il concilio di Pisa; qui Oddone abbandonò Gregorio XII per eleggere il 26 giugno 1409 Alessandro V; questi il 21 maggio 1410 concesse ai fratelli di Oddone, Giordano e Lorenzo, il vicariato su Castro e Ripi, che sarebbe stato riconfermato dal successore. Alla morte di Alessandro V partecipò a Bologna, il 17 maggio 1410, all’elezione di Giovanni XXIII, che si appoggiò su di lui e sulla sua famiglia per il prestigio che essi godevano a Roma: il fratello Giordano fu infatti incaricato di scortare a Roma il 15 giugno il cardinale Pietro de Frias, legato pontificio di Giovanni XXIII. Per l’adesione all’obbedienza pisana Oddone fu nel 1411 scomunicato da Gregorio XII; numerosi benefici e incarichi furono invece a lui concessi da Giovanni XXIII, come l’esenzione dalle imposte del sale e del focatico per Pisoniano e Ciciliano, privilegio riguardante i fratelli, ma direttamente concesso a Oddone. Nel febbraio 1411 fu nominato vicario generale in Perugia, Todi, Orvieto e Umbria; nel maggio 1411 anche Terni fece atto di sottomissione al cardinale Colonna.
Dopo la partenza di Giovanni XXIII da Roma, Oddone divenne con tutta probabilità legato dell’Urbe e del Patrimonio. Al seguito di Giovanni XXIII si recò poi al concilio di Costanza e seguì nella fuga il papa a Sciaffusa il 21 marzo 1415, ma ben presto fece ritorno a Costanza, dove divenne testimone del processo che portò alla deposizione del pontefice.
Dopo la proclamazione della sede vacante, il 30 maggio 1417, Oddone fu eletto papa l’11 nov. 1417, all’ora decima, come egli scrisse in una lettera del 22 novembre al fratello Lorenzo, al termine del conclave iniziato l’8 novembre.
Il 9 ott. 1417 erano stati definiti i criteri e i tempi per la convocazione dei concili, ma soprattutto il 28 ottobre era stato raggiunto un accordo sull’elezione pontificia che, in base alla proposta della «nazione» francese, spettava ai 23 cardinali presenti e a 30 prelati e dottori: l’accordo fu sancito con il decreto del 30 ottobre secondo cui il neoeletto papa, prima di sciogliere il concilio, avrebbe dovuto procedere alla riforma della Chiesa e della Curia romana.
Grandi furono i festeggiamenti; per l’incoronazione, il 21 novembre, fu redatto un apposito cerimoniale (Ordo quando quis eligitur in papam qui non est episcopus consecratus) adatto alla condizione di Oddone di cardinale diacono; per le procedure e i festeggiamenti la Curia dovette prendere in prestito 1000 fiorini. La piena adesione ai decreti del concilio che lo aveva eletto è testimoniata dalla bolla del 22 febbr. 1418 con la quale M. V ribadiva congiuntamente la condanna per John Wyclif, Jan Hus e Girolamo da Praga.
Nel primo anno di pontificato egli concesse la carica di «secretarius apostolicus» senza l’obbligo di residenza in Curia a molti letterati e cancellieri, tra i quali Giovanni Corvini, Gasperino Barzizza e Paolo Fortini. Ben presto iniziarono le discussioni su dove M. V dovesse fissare la sede papale; l’imperatore Sigismondo proponeva Basilea, Magonza e Strasburgo; i Francesi caldeggiavano Avignone; numerosi e qualificati interventi auspicavano il ritorno a Roma: tra loro era quello di Alberto degli Albizzi («ritorniate alla città santa» scriveva il 4 marzo 1418: Epistola di Alberto degli Albizzi a M. V volgarizzata da don Giovanni Dasamminiato, a cura di C. Stolfi, Bologna 1863, p. 18).
Problemi di diversa natura, ma intrecciati tra loro, si ponevano con urgenza a M. V, in particolare la ricostituzione dello Stato pontificio, i rapporti con le potenze straniere, la riforma ecclesiale, la ridefinizione dei tributi ecclesiastici, la riorganizzazione degli uffici di Curia. Dai decreti emanati emerge la consapevolezza di M. V nell’affrontare i problemi. Uno dei primi documenti fu la bolla indirizzata al re Alfonso V d’Aragona il giorno stesso dell’elezione, nella quale M. V oltre a promettere protezione ripercorreva le fasi del concilio. Nei rapporti con la città di Roma egli si affrettò a riconfermare come vicario negli affari temporali e spirituali il card. Giacomo Isolani che svolgeva tale funzione dal 1414 e si era trovato coinvolto nella lotta tra Andrea Fortebracci (Braccio da Montone) e Muzio Attendolo Sforza per il dominio su Roma; interessante risulta la bolla del 2 dic. 1417 con cui si chiedeva una tregua tra i Romani e i baroni. M. V si appoggiava anche sul fratello Giordano che, entrato nell’esercito dello Sforza, si era scontrato il 10 ag. 1417 con Braccio per entrare in Roma il 27 agosto. E se attraverso le proprietà dei Colonna e dei loro alleati M. V poteva controllare Roma e regioni limitrofe, non così poteva dirsi dell’Umbria, dove Braccio cercava di costituire un dominio autonomo, o dei vicariati romagnoli o della stessa Bologna.
Dopo l’elezione ebbero luogo numerose ambascerie per rendere omaggio al nuovo pontefice, il quale, dal canto suo, spedì missive ai regnanti e ai Comuni dello Stato della Chiesa: per esempio il 27 nov. 1417 M. V annunciava la propria elezione ai Cornetani e ai Viterbesi; assegnava al fratello Giordano il compito di chiedere alla regina di Napoli Giovanna II d’Angiò di inviare un’ambasceria a Costanza; nel 1418 destinava presso la corte aragonese il cardinale Alamanno Adimari, dopo che il cardinale Guillaume Fillastre aveva rinunciato a questa missione e tra febbraio e marzo 1418 era stato inviato in Francia con il cardinale Giordano Orsini, per conseguire la pace tra Francia e Inghilterra. A Costanza M. V ricevette, ma con scarsi risultati, la delegazione bolognese; e ancora nel 1418 spedì in Grecia il card. Giovanni Banchini (Giovanni Dominici), che però morì, durante il viaggio, in Boemia il 10 giugno 1419. Da Costantinopoli, forse nel gennaio-febbraio 1418, era giunto Gregorio Camblak, vescovo di Kiev, per sollevare il problema dell’unione tra le Chiese.
Nell’ottica di una ricostituzione dello Stato pontificio, tradizionalmente articolato in dominio diretto e terre «mediate subiecte», risulta importante il decreto di gennaio 1418 in cui si proponeva che le terre e le città della Chiesa fossero sottoposte a un cardinale o a un ecclesiastico: in una situazione assai differenziata l’elemento unificante sembrava essere la resistenza al riconoscimento del dominio temporale della S. Sede, che M. V cercò di superare rinforzando i domini locali e favorendo le oligarchie dominanti nelle loro mire espansionistiche di natura territoriale ed economica.
Per quanto riguarda i rapporti con le singole nazioni, solo dopo il decreto De reformatione Ecclesie, sancito il 21 marzo 1418 a conclusione della quarantatreesima sessione del concilio, M. V concluse singoli negoziati che, tra i vari articoli, comprendevano sia la riserva dei benefici ecclesiastici, sia le commende, le indulgenze e le dispense: in particolare il 15 apr. 1418 fu sancito il concordato con la Germania, a cui fecero seguito, a breve, il concordato con Spagna (13 maggio), Francia (10 giugno) e Inghilterra (21 luglio).
Il 19 apr. 1418 fu scelta Pavia come luogo del successivo concilio e il 22 fu chiuso il concilio: M. V partì da Costanza il 16 maggio per arrivare l’11 luglio a Ginevra, dove rimase fino al 4 settembre e ricevette gli ambasciatori bolognesi Romeo Foscarari e Benedetto Della Ratta.
Già in questa tappa, a quanto risulta da un mandato camerale del 22 ag. 1418, M. V fece restaurare alcuni libri, tra cui probabilmente anche il breviario conservato nell’attuale Vat. lat. 14701 della Biblioteca apost. Vaticana.
Con la costituzione In apostolicae dignitatis del 1° sett. 1418 riordinò gli uffici di Curia e soprattutto del tribunale di Rota, imponendo agli auditori l’obbligo del giuramento; altre precisazioni per il funzionamento furono emanate con la costituzione Statuimus del 7 apr. 1421 e con la Romani pontificis del 1424.
Il 3 sett. 1418 fu deciso il trasferimento della Curia a Mantova e M. V si mise in viaggio per l’Italia. Giunse il 5 ottobre a Pavia dove rimase fino al 12 ottobre. L’avvenimento fu festeggiato anche con diverse orazioni: in particolare Giuseppe Brivio, studente di teologia e filosofia nell’Università di Pavia, parafrasando il dettato biblico «tu es columna et super hanc columnam reedificabo ecclesiam meam» (Matteo 16, 18; in Codice diplomatico dell’Università di Pavia, II, 1, a cura di R. Maiocchi, Pisa 1913, pp. 169-176) con aperti riferimenti alla famiglia e quindi allo stemma dello stesso M. V, discusse sulla funzione del papa come vicario di Cristo e sull’impegno da lui assunto di convocare entro cinque anni il concilio.
Il 18 ottobre M. V giunse a Milano dando luogo a festeggiamenti che culminarono nella consacrazione dell’altare maggiore del duomo. Come di consueto, i letterati più famosi della città tennero orazioni, a partire da Uberto Decembrio e dallo stesso G. Barzizza. Il 24 ottobre arrivò a Mantova, dove si trattenne fino al 6 febbr. 1419: per la circostanza il vescovo di Padova Pietro Donà sul versante ecclesiale e Guarino, se è giusta l’attribuzione tratta dai codici, sul versante letterario, scrissero orazioni.
Avendo come principale obiettivo la ricostituzione dello Stato pontificio, M. V procedette a riconoscere situazioni già esistenti, tentando però di ribadire l’autorità pontificia e al tempo stesso di regolare la riscossione dei censi: proprio da Mantova nel novembre confermò i privilegi a Terracina, conferì per un triennio il vicariato di Imola a Ludovico Alidosi e quello di Forlì a Giorgio Ordelaffi; in gennaio 1419 ridusse a tre anni il vicariato a Malatesta Malatesta, che invece Gregorio XII aveva concesso senza limiti temporali, e nominò duca di Spoleto Guidantonio da Montefeltro, con il quale mantenne poi stretti rapporti, dandogli in moglie nel 1424 la nipote Caterina Colonna. Spinto forse da volontà di ricomposizione anche delle parti religiose e sociali, emanò il 31 genn. 1419 la bolla Sicut Iudaeis nella quale concesse agli ebrei la facoltà di esercitare qualsiasi attività, di riposarsi nelle le feste ebraiche e lavorare in quelle cristiane purché non in pubblico. Ricevette soprattutto l’ambasceria bolognese e invitò il vescovo di Bologna Niccolò Albergati a fare da paciere con i Bolognesi.
Durante la tappa mantovana si dedicò anche a recuperare alcuni libri che potevano essergli utili e precisamente, come risulta dal breve del 21 dic. 1418, diede quietanza dell’avvenuta consegna a François de Conzié – vescovo di Narbonne e camerario papale già al servizio di Giovanni XXIII – di un messale, due pontificali e un cerimoniale che già nel 1415 Giovanni XXIII aveva fatto pervenire dalla biblioteca papale ad Avignone, a cui si aggiungono, anche questi provenienti da Avignone, un Catholicon e lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais in quattro volumi (il terzo e il quarto sono stati identificati con i mss. Vat. lat. 1965 e 1966 della Biblioteca apost. Vaticana).
M. V si trasferì poi a Firenze; durante la sosta a Ferrara, il 10 febbr. 1419, ricevette la delegazione bolognese, incontro che era stato preparato da lunghe trattative mediate dall’Albergati già durante il soggiorno a Mantova. Sancì poi un accordo con la regina Giovanna II d’Angiò, alla quale promise di riconoscerne i diritti. Il 24 genn. 1419 il fratello Giordano, con il cardinale legato Pietro Morosini, aveva assistito all’investitura papale del Regno napoletano; al tempo stesso M. V ottenne la restituzione di Benevento a dominio della Chiesa e il riconoscimento per i suoi fratelli di alcuni feudi nel Regno di Napoli, come i Ducati di Amalfi e di Venosa, con la promessa di concedere a Giordano il Principato di Salerno; il 6 marzo 1419, su ordine di Giovanna II, Muzio Attendolo sgomberò Roma, aprendo la strada al ritorno del papa in città, mentre da parte sua il fratello Giordano, tornato a Roma, procedeva a pacificare Savelli e Orsini.
Nel 1419 M. V sancì un primo accordo con il Comune di Bologna, cui veniva concessa l’elezione di tutti i pubblici ufficiali nonché l’esercizio delle finanze, mentre la nomina del podestà rimaneva al papa (che doveva scegliere fra tre candidati designati dal Comune) nel caso che si trovasse in Bologna o entro un raggio di 100 leghe o, in caso contrario, al vescovo di Bologna; il Comune, al quale M. V fino a quel momento non concesse il vicariato, tornando sotto il governo della S. Sede accettava di versare 5000 fiorini per il 1418, 8000 per il 1419 e 10.000 per il futuro, contribuendo a sostenere le spese per l’esercito che il papa stava organizzando contro Braccio da Montone. Questi infatti aveva assediato Spoleto nell’aprile 1419, sia pure con scarsi risultati anche per l’intervento di Carlo Malatesta: ma la posizione della Signoria fiorentina e lo stravolgimento delle alleanze con il Regno di Napoli portarono M. V a un accordo con lo stesso Braccio da Montone, poi sancito il 26 febbr. 1420 con la restituzione del Ducato di Spoleto, delle città di Orvieto, Narni e Orte da parte di Braccio e con la concessione a questo in vicariato di Perugia, Todi e Jesi. Nel frattempo, M. V con una bolla segreta designava nel novembre 1419 Luigi III d’Angiò successore di Giovanna II nel Regno di Napoli; nel settembre 1420 la regina Giovanna sottoscrisse l’accordo che stabiliva l’adozione, e quindi la successione, di Alfonso d’Aragona.
M. V nell’aprile 1419 ricevette la visita di Teodoro Crisoberga, che il 10 apr. 1418 egli aveva creato vescovo di Oleno, e di Nicola Eudomonoiohannes; il 27 marzo 1420 M. V nominò il cardinale Pietro Fonseca legato per un eventuale concilio da tenersi a Costantinopoli, come insistentemente richiedeva l’imperatore bizantino Manuele II; Fonseca sarebbe stato poi subito inviato in Spagna nel tentativo di risolvere la questione con Benedetto XIII.
Inoltre con la bolla del 12 luglio 1420 M. V accordava indulgenze a chi avesse contribuito a vario titolo per la crociata contro il Turco, che sarebbe stata comandata dall’imperatore Sigismondo; il 21 agosto chiedeva all’arcivescovo di Colonia di procurare 6000 fiorini e agli arcivescovi di Magonza e Treviri 4000 fiorini per sovvenzionare il progetto.
A Firenze soprattutto ricevette l’omaggio e l’obbedienza di Baldassarre Cossa, cioè il deposto Giovanni XXIII, al quale il 23 giugno 1419 concesse il cappello di cardinale vescovo di Tuscolo, episodio ampiamente ricordato da L. Bruni nei Rerum suo tempore… (a cura di C. Di Pierro, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XIX, 3, pp. 423-458). Con tale atto di sottomissione si celebrava la fine dello scisma.
Gli stessi giuristi richiedevano la reintegrazione di Cossa, dopo la morte del quale M. V minacciò di scomunicare Giovanni Bicci per recuperare una mitria di Giovanni XXIII data in garanzia per un prestito; ugualmente, con l’intento di recuperare materiali importanti, Branda da Castiglione, in qualità di reggente della Cancelleria, imponeva a Giovanni de’ Medici di restituire registri e documenti di Giovanni XXIII.
Durante il soggiorno fiorentino M. V non trascurò i problemi di quella diocesi: il 2 maggio 1419 innalzò ad arcivescovado il vescovado di Firenze, di cui era titolare dal 1411 Amerigo Corsini, né tralasciò la questione della disciplina degli Ordini se nel settembre 1419, come testimonia la relazione autografa di A. Traversari, inviò una visita apostolica a Camaldoli dove erano sorti feroci contrasti (G. Spinelli, Monachesimo e società tra XIV e XV sec. nell’ambiente di A. Traversari, in Ambrogio Traversari nel VI centenario della nascita. Atti del Convegno internazionale, Camaldoli-Firenze… 1986, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1988, pp. 49-68). Avendo istituito inoltre, proprio nel 1419, la nuova congregazione dell’Osservanza di S. Giustina di Padova, M. V vi inserì tra i quattro monasteri anche la badia fiorentina, di cui dal 1419 era abate il portoghese Gomes Eanes che nel 1423 sarebbe stato eletto presidente della Congregazione stessa; invano nel 1420 i domenicani del convento di Fiesole chiesero a M. V di concedere loro il monastero di S. Marco in Firenze, dove la congregazione silvestrina sembrava in grave crisi.
Dopo alcune incertezze iniziali, M. V adottò una politica di sostegno a favore dei movimenti riformatori interni agli ordini religiosi. Così per esempio, dopo aver revocato nel 1418 tutti i privilegi concessi dai papi precedenti a favore delle brigidine, con la bolla del 7 apr. 1419, in cui inserì la cosiddetta Regula sancti Salvatoris, riconobbe l’Ordine fondato da Brigida di Svezia. Analogamente, dopo aver annullato i privilegi concessi da Giovanni XXIII (che il 26 marzo 1414 aveva riconosciuto con la Super gregem l’Ordine dei servi di Maria), M. V nel novembre 1418, su richiesta del generale dello stesso Ordine, Stefano di Borgo San Sepolcro, concesse il diritto di mendicare, per poi riconoscere il Terzo Ordine dei servi solo con la bolla Sedis apostolicae del 16 marzo 1424. Il rilancio di quest’Ordine lo avrebbe poi portato a inviare Stefano di Borgo San Sepolcro in missione in Polonia. Con una bolla del 6 genn. 1420 stabiliva poi che i provinciali dei frati agostiniani non potessero essere rieletti, mentre con una bolla del 24 sett. 1420 esentava i certosini dal pagamento delle decime. Il 30 giugno 1421 sancì l’unione dei canonici regolari di S. Agostino. Ma anche nei confronti delle diocesi favorì l’azione riformatrice di alcuni vescovi, come per esempio Otto von Ziegenhain, vescovo di Treviri, cui indirizzò numerosi documenti dal 22 ag. 1419; proprio a Treviri si tenne il capitolo provinciale degli abati benedettini dove furono assunte importanti decisioni sulla riforma dell’Ordine. Nel 1421 designò legato in Germania il cardinale Branda da Castiglione per attuare la riforma dei vescovadi tedeschi.
Nel quadro di un consolidamento della struttura finanziaria già da questi primi anni M. V sembra rivolgere particolare attenzione alla scelta dei collettori ecclesiastici, come nel caso di Simone De Lellis da Teramo, nominato il 6 sett. 1420 collettore per l’Inghilterra. Per quanto riguarda invece la politica beneficiaria, relativamente all’Università, M. V con bolla del 7 giugno 1419 consentì ai chierici (compresi i suddiaconi) di frequentare qualsiasi insegnamento, nonostante le disposizioni contrarie di Onorio III.
A Firenze M. V ricevette l’ambasceria dei Bolognesi e soprattutto nel luglio 1420 ridusse Bologna all’obbedienza papale, con un accordo che limitava fortemente le prerogative del Comune il quale, pur conservando la struttura finanziaria, era controllato dal tesoriere apostolico: il 4 agosto affidò questa carica non a un curiale ma al banchiere fiorentino Piero di Bartolomeo Borromeo; il 20 agosto nominava «legatus Bononie» il cardinale Alonso Carrillo che il 26 agosto entrava in città.
In prospettiva del ritorno della Curia a Roma, M. V già da Firenze procedette ad alcune significative disposizioni volte a un graduale controllo delle magistrature cittadine.
Per la risistemazione dell’ordine pubblico e della giustizia nominò il 27 apr. 1419 Ranuccio Farnese senatore di Roma e il 24 settembre riconfermò Giovanni Astalli «thesaurarius de Urbe»; il 23 febbr. 1420 nominò camerario di Ripa e Ripetta il romano Lorenzo de Picotiis; subito dopo il ritorno a Roma il vicecamerario della Camera apostolica avrebbe inviato a Giovanni Astalli la tavola degli stipendi mensili; sempre in prospettiva di tale ritorno M. V istituì una commissione di sorveglianza per il restauro delle basiliche e delle chiese di Roma, devolvendo consistenti somme di denaro.
Il 9 sett. 1420 M. V lasciava Firenze dirigendosi verso Roma, dove arrivò il 28, per poi fare, il 30 dello stesso mese, l’ingresso trionfale da S. Maria del Popolo fino a giungere a S. Pietro.
A quanto è testimoniato dal diario concistoriale conservato nel codice Vat. lat. 12123 della Biblioteca apost. Vaticana M. V spostò spesso la sua residenza, da S. Pietro a S. Maria Maggiore nei primi anni; dal 1424 sembrò prediligere la basilica dei Ss. Apostoli, pur non trascurando S. Giovanni in Laterano. Costante rimaneva comunque lo spostamento estivo, con la Curia, in località di pertinenza della famiglia Colonna (Tivoli, Vicovaro, Marino, Gallicano, Genazzano). Dopo il ritorno a Roma rivolse particolare attenzione alla restaurazione del potere pontificio nei vari Comuni pontifici, anche se le misure e i provvedimenti furono diversi da caso a caso.
A parte Ancona e Macerata, M. V, nella Marca, nel Patrimonio e nella Tuscia, assoggettò il contado alle città maggiori e favorì famiglie o fazioni dominanti; cercò inoltre, seguendo le indicazioni di un decreto del concilio di Costanza, di assegnare il vicariato per un triennio, anche se fece qualche eccezione, come per i da Polenta a Ravenna (un decennio); in alcuni casi seguirono rivolte da parte degli eredi, come alla morte di Carlo Malatesta a Rimini nel 1429. Ma il problema fondamentale restava Braccio da Montone: nonostante gli avesse nel 1423 rinnovato il vicariato, M. V continuava la sua lotta articolata attraverso le vie diplomatiche e la designazione del nipote Ludovico Colonna a capo dell’esercito pontificio; dopo la rivolta dell’Aquila, dichiaratasi fedele a Luigi d’Angiò, e dopo la frattura tra la regina Giovanna e Alfonso d’Aragona, l’esercito pontificio, con quello napoletano comandato da Giacomo Caldora e Francesco Sforza, sconfisse il 2 giugno 1424 Braccio da Montone, che morì tre giorni dopo. Per ricompensare la partecipazione degli Aquilani alla battaglia contro Braccio, M. V il 9 ag. 1424 emanò una bolla con la quale istituì la diocesi dell’Aquila.
Dopo la battaglia dell’Aquila, Perugia – che già nel 1392 aveva fatto piena sottomissione alla S. Sede, ma che era stata assoggettata prima a Ladislao e poi a Braccio – rientrò nell’ubbidienza pontificia e nello stesso 1424 fu sancito un accordo tra M. V e il Comune, in base al quale il legato era scelto dal pontefice, ma doveva essere ugualmente gradito al governo della città; in tale accordo furono inoltre stabilite misure per la tassazione fiscale che era devoluta alle due Camere, quella dei «conservatores monetae» e quella dei «massari», con a capo un tesoriere apostolico; nel marzo 1425 fu sancito il sussidio minimo di 12.000 fiorini all’anno; nel 1428 fu istituita inoltre la carica di capitano; quando poi Domenico Capranica successe come legato a Pietro Donato l’assoggettamento della città alla S. Sede divenne più palese. Al consolidarsi del potere papale si accompagnò la risistemazione della struttura finanziaria che, dopo le limitazioni poste dal concilio di Costanza alle cosiddette entrate spirituali, si concentrò su quelle temporali, sovrapponendo la finanza pontificia a quella degli ordinamenti locali nelle terre «immediate subiecte», sia pure con modalità diversificate: delle cinque tesorerie funzionanti (Marca d’Ancona, Ascoli, Perugia, Patrimonio e Campagna e Marittima) sono rimasti solo i libri delle entrate e delle uscite dal 1420-21 per il Patrimonio, dal 1422 per la Marca e dal 1427 per Campagna e Marittima; il tesoriere entrò invece in funzione a Perugia e all’Aquila solo dal 1424, quando le due città passarono sotto il dominio diretto della S. Sede.
Con il ritorno a Roma M. V, pur avendo unificato le tre Curie, cercò di ridimensionare la partecipazione francese all’amministrazione papale, appoggiandosi per lo più sul personale dell’obbedienza pisana, anche se il ciambellano François de Conzié e il vicecancelliere Jean de Broniac avevano iniziato sotto l’obbedienza avignonese e solo in un secondo momento si erano avvicinati a quella pisana; dopo i primi anni in cui ben diciotto segretari erano al servizio della Curia, in quanto provenivano da obbedienze diverse, M. V ridimensionò il numero dei segretari tanto che negli anni 1429-31 ne ebbe solo quattro. Invece, per i referendari, previsti dal concilio di Costanza in un numero massimo di sei, non riuscì a seguire tali direttive, tanto che se ne contano ben 75 per l’intero pontificato. Nel segno della continuità M. V utilizzò le regole della Cancelleria pontificia sulla base di quelle del Papato pisano e mantenne, almeno teoricamente, la distinzione, scaturita dalla riforma della Cancelleria di Giovanni XXIII, tra «cancellaria gratiae» (composta da vicecancelliere e dodici abbreviatori del «parcus maior») e la «cancellaria iusticiae» (formata da vicecancelliere, notai e altri esperti). La carica di «magister domus», istituita da Alessandro V, fu però sostituita con quella di «praefectus Sacri Palatii»; al «datator», che compare nella regola 36 della Cancelleria apostolica al tempo di Giovanni XXIII, fu sostituito il «datarius», configurando già dal 1418 e poi con maggiore evidenza nelle regole 112 (15 sett. 1420) e 121 (15 ott. 1421) l’ufficio della Dataria come un ufficio autonomo della Cancelleria. M. V definì anche i criteri per divenire avvocati concistoriali, per cui era necessario aver insegnato almeno tre anni in uno Studio generale. Nel 1425, nell’ambito della riforma della Penitenzieria, ridefinì anche le funzioni del cardinale penitenziere. La riforma della Curia, che si articolava dalla proibizione dell’accumulo delle cariche e delle deleghe alla ricerca di un adeguato sostentamento per il personale, si inseriva del resto nelle direttive del concilio di Costanza, in base alle quali la riforma della Chiesa significava anche riforma della Curia.
L’internazionalità di quest’ultima emerge chiaramente dal Liber officialis, anche se esso non comprende per intero tutti i membri della stessa Curia (un esemplare del Liber, l’attuale codice Vat. lat. 8502 della Biblioteca apost. Vaticana, fu eseguito dal copista Petrus Uberti su ordine del camerario François de Conzié). Tale internazionalità costituiva un elemento qualificante delle scelte politico-ecclesiali di M. V, anche se i livelli più alti erano occupati da personale italiano: la vera patria, come avrebbe teorizzato Poggio Bracciolini in una lettera del 7 marzo 1428 a Francesco Barbaro (P. Bracciolini, Lettere, II, a cura di H. Harth, Firenze 1984, p. 84), è la Curia romana. In tal senso M. V favorì l’arrivo in Curia degli uomini più dotti del suo tempo: e se Cencio de’ Rustici e Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano non avevano mai abbandonato la Curia, non altrettanto avevano per esempio fatto lo stesso Poggio e Antonio Loschi, che ritornavano in Curia proprio con la mediazione del papa Colonna. Nel conferimento della cittadinanza romana ad Antonio Loschi (26 marzo 1422) – un breve stilato da Cencio de’ Rustici – veniva ribadita l’attenzione del papa nei confronti dell’«alma Urbs» rispetto alle altre città, per incrementarne lo sviluppo e il benessere. Nello stesso 1422 veniva anche sottolineata l’autonomia politica dei curiali: infatti nel 1422 il vicecamerlengo, cardinale Louis Aléman, rivendicando la «libertas curialium et romanam curiam sequentium», ribadiva al senatore di Roma Bartolomeo Gonzaga l’immunità e l’esenzione dalle magistrature cittadine. Particolare cura dimostrò M. V nella conservazione e nel recupero dell’archivio della Camera apostolica: sono rimasti infatti un documento relativo al trasporto dei registri camerali da Bologna a Firenze, le spese per lavori della «sala del registro» e le spese per l’allestimento di casse che dovevano contenere documenti della Tesoreria. Il 6 luglio 1428 M. V ordinava che i registri di lettere e bolle della Cancelleria apostolica fossero trasportati da S. Maria sopra Minerva ai Ss. Apostoli, dove del resto aveva fissato la sua residenza per molti mesi dell’anno.
M. V non mancò di interessarsi ai rapporti con la Chiesa d’Oriente; è significativo che la famosa lettera del «prete Gianni», in cui si difende l’ortodossia della Chiesa orientale, fosse per così dire aggiornata all’anno 1426, durante il pontificato cioè di M. V (P. Guglielminetti, Lettera del prete Gianni a papa M. V…, in Studi in onore di L. Firpo, a cura di S.R. Ghibaudi, I, Milano 1990, pp. 87-108).
Il 15 giugno 1422 M. V inviò il francescano Antonio da Massa Marittima come nunzio a Costantinopoli per trattare con l’imperatore Manuele II l’unione religiosa: con difficoltà Antonio riuscì a ottenere udienza il 20 ottobre dall’imperatore Giovanni VIII che era impegnato per la successione paterna e che solo il 14 novembre fornì una risposta in cui, pur rifiutando l’unione, si accennava alla possibilità di convocare un concilio nel quale discutere la questione del Filioque, del purgatorio e dell’eucarestia, temi che furono poi discussi al concilio di Ferrara e Firenze. La relazione di Antonio da Massa Marittima fu letta e commentata l’8 nov. 1423 al concilio di Siena (in C. Baronio, Annales ecclesiastici, XXVII, Parisiis 1887, pp. 525-528).
Al ritorno da questo viaggio Antonio da Massa Marittima avrebbe portato un codice greco con le Vitae philosophorum di Diogene Laerzio e un altro con l’Adversus Graecorum errores de processione Spiritus Sancti di Manuele Caleca, che sarebbero stati tradotti da A. Traversari proprio su ordine del papa. Traversari avrebbe tradotto in un solo mese il trattato di Caleca portandolo a termine il 29 apr. 1423 e dedicandolo allo stesso M. V, traduzione che ebbe immediata e ampia fortuna in ambiente curiale. Del resto a Traversari e nello stesso tempo al priore del monastero di Camaldoli si rivolse M. V con due brevi (databili tra 1423 e 1426) in cui esortava il monaco a tradurre solo testi sacri e il priore a esonerare Traversari da compiti che lo distogliessero dal lavoro di traduzione.
Con bolla del 25 genn. 1426 M. V cercò di regolare uno dei punti più scabrosi che distanziavano le due Chiese, cioè quello del sacramento dell’eucarestia. Cercando di mantenere i rapporti con l’imperatore bizantino, nel 1426 M. V inviò a Costantinopoli il domenicano Andrea Crisoberga, che poi avrebbe nominato «magister Sacri Palatii» e al quale avrebbe concesso il 16 febbr. 1430 un indulto con cui gli assicurava l’eredità del fratello Teodoro.
Proprio nel 1430 fu inviata a Roma dall’imperatore d’Oriente un’ambasceria composta dal funzionario Marco Iagaris e dal monaco Macario Makres per discutere di fronte al papa i principali problemi teologici che separavano le due Chiese, e precisamente l’eucarestia e la processione dello Spirito Santo.
Mantenendosi alle disposizioni del concilio di Costanza, M. V convocò il concilio a Pavia, che si aprì il 23 apr. 1423 con una messa solenne celebrata da Andrea Poznam e un sermone pronunciato da Giovanni Stojkovic da Ragusa a commento del versetto di Giovanni 10, 16 («Fiet unum ovile et unus pastor»; A. Krchňák, De vita et operibus Ioannis de Ragusio, Romae 1960, pp. 50-95).
Già lo stesso Giovanni da Ragusa il 7 dic. 1422 aveva recitato in S. Maria Maggiore a Roma un sermone (ibid.) nel quale, sollecitando proprio il concilio di Pavia, ricordava i punti nodali della politica pontificia, cioè il problema degli ussiti e quello dell’unione con i Greci. Pochi prelati parteciparono al concilio di Pavia e lo stesso papa rimase a Roma, nonostante che nel marzo dello stesso anno avesse fatto elaborare un progetto di riforma da alcuni cardinali tra i quali Giordano Orsini. Nel giugno 1423, scoppiata la peste, M. V decise di trasferire il concilio; dopo lunghe trattative e dopo numerose ambascerie inviate a Roma dalla Signoria di Siena fu scelta questa città. Nella prima sessione il 31 ott. 1423 furono riconfermati tutti i decreti del concilio di Costanza. Nonostante le promesse, M. V non andò a Siena. Il 19 febbr. 1424 fu scelta Basilea come sede del successivo concilio; il 26 febbraio con una bolla «secreta» si proclamò chiuso il concilio, con la conseguente spaccatura tra quanti vi avevano partecipato.
Nello stesso periodo in cui aveva aperto il concilio a Pavia, M. V dovette affrontare il problema della convocazione del giubileo che, essendo trascorsi 33 anni dal 1390, doveva tenersi proprio in quel 1423: pochi sono i documenti superstiti e il giubileo del 1423 costituisce un discusso problema storiografico, nel senso che l’esistenza dello stesso proviene non da una documentazione pontificia, ma da limitati accenni tratti da cronache contemporanee. Probabilmente, con la presenza di Benedetto XIII in Spagna e l’appoggio a questo fornito da Alfonso d’Aragona, M. V preferì con prudenza non convocare in forme solenni tale giubileo; decisa fu invece la sua azione nei confronti del cosiddetto giubileo inglese del 1420 (che celebrava l’anniversario della morte di Thomas Becket) nei confronti del quale, durante il soggiorno fiorentino, si era mostrato non del tutto contrario, sia pure attraverso un cosiddetto «oraculum vive vocis», ma che nel 1423 condannò invece molto severamente. Tra il 1423 e il 1424 va comunque collocato tale giubileo.
Nel 1423 con la bolla In coena Domini M. V condannava l’eresia dei fraticelli e nel 1424, in relazione a numerose denunce della presenza di tali fraticelli «de opinione», egli esercitò una dura azione repressiva, concedendo ampi poteri a Pietro Colonna, rettore della Marca anconetana, per perseguirli ma anche per concedere indulti a quanti avessero fatto dichiarazione di pentimento.
Di pari passo M. V si appoggiò sulla predicazione di Giacomo della Marca, aderente all’Osservanza francescana, con la concessione di procedere su tutto il territorio. Segno analogo di fermenti e polemiche era anche la predicazione di Bernardino da Siena che proclamava la devozione al nome di Gesù: dopo le accuse sollevate contro Bernardino dal domenicano Luigi Tosi da Pisa che da Bologna ne additava l’eresia, e forte soprattutto dell’appoggio degli agostiniani che con Andrea Biglia ne criticavano le posizioni dottrinali, M. V nella Pasqua 1427 convocò a Roma Bernardino per sottoporlo a un serrato processo: nonostante le previsioni, il frate ne uscì ampiamente vincitore e rafforzato nelle linee della sua predicazione.
Il 1425 rappresenta un anno importante per la storia di Roma: M. V approvò gli statuti cittadini del 1363, nonché le prime leggi suntuarie per Roma, che poi sarebbero state confermate da Eugenio IV nel 1442. Ma soprattutto con la bolla Etsi de cunctarum del 1425 M. V individuava la causa del degrado della città di Roma collegandolo alle conseguenze delle attività lavorative dei macellai, pescivendoli e conciatori di pelle. In relazione a tale stato di degrado ripristinava l’antica magistratura dei Maestri di strada. Non è un caso che proprio in questi anni Niccolò Signorili, caporione del rione Monti e appartenente alla Confraternita del Ss. Salvatore, dedicasse al papa il De iuribus et excellentiis Urbis Romae (in Codice topografico della città di Roma, a cura di R. Valentini - G. Zucchetti, IV, in Fonti per la storia d’Italia [Medio Evo], XCI, Roma 1953, pp. 151-208) che, come si legge nel proemio, gli era stato direttamente commissionato dal papa e nel quale venivano presi in esame non solo l’elenco delle basiliche, come suggerirebbe l’edizione parziale del Codice topografico, ma anche la storia e le origini della città. Nel quadro della sicurezza dei commerci rientravano anche le comunicazioni fluviali e marittime, e non è un caso che fossero concessi numerosi salvacondotti per i proprietari delle galee, come per esempio Gaspare Vignola, che in realtà sancivano patti molto più complessi; in particolare furono tutelati i trasporti di grano, che servivano per il rifornimento annonario. La dogana di Ripa fu così posta alle dirette dipendenze della Camera apostolica e i proventi furono utilizzati per gli scopi più diversi. Per quanto riguarda la promozione degli studia, uno dei primi provvedimenti di M. V fu di nominare il 2 nov. 1420 il reggente dello Studium Curiae nella persona del domenicano Giovanni Casanova, prelato di fiducia che egli stesso avrebbe designato nel 1423 confessore di Alfonso d’Aragona e poi nel 1426 cardinale. Nessun documento consente di valutare l’azione di M. V nei confronti dello Studium Urbis, che aveva molto sofferto durante l’assenza del papa: di particolare interesse, anche se il progetto non fu realizzato, è la fondazione di un collegio universitario presso la chiesa di S. Apollinare in Roma, destinato agli scolari poveri ed elaborato dal cardinale Branda da Castiglione, come si ricava da un breve del 3 sett. 1427. Con bolla del 23 maggio 1430 M. V fondò, su istanza del vescovo di Recanati Alberto Guidalotti, la Casa di S. Girolamo (detta anche Sapienza nuova) presso l’Università di Perugia, nei confronti della quale si era sempre mostrato attento sia riconoscendo le immunità dello Studio (in concomitanza, tra l’altro, con la restituzione della sovranità pontificia su Perugia nel luglio 1424), sia aumentando nel 1426 e nel 1428 la dotazione dello stesso. Per quanto riguarda lo Studio bolognese, dopo che durante il concilio di Costanza Giovanni XXIII era stato accusato di aver ridotto l’antica istituzione quasi «ad nihilum», M. V su istanza dei più famosi dottori del tempo confermò i privilegi di Bonifacio IX, favorendo il Collegio gregoriano, fondato da Gregorio XI. Sono inoltre documentati i suoi interventi per altre città, come l’assegnazione di entrate per l’Università di Torino (28 genn. 1420) o la fondazione nel 1421 della facoltà di teologia a Montpellier; con la bolla Sapiencie immarcescibilis (9 dic. 1425) istituiva lo Studium generale a Lovanio con esclusione però della facoltà di teologia, per ottenere la quale invano una delegazione si recò a Roma a metà ottobre 1426. Del resto non erano mancati già dagli anni di Costanza interventi a vario titolo per l’Università di Salamanca in particolare, ma anche per Lipsia, Nantes, Oxford, Valladolid, Vienna.
Come ricorda anche il Liber pontificalis, di cui quella di M. V costituisce appunto l’ultima biografia (Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, II, Paris 1892, pp. 447-523), il pontefice Colonna si distinse per l’azione restauratrice nei confronti della città di Roma.
Tra i primi provvedimenti di restauro ovviamente fu privilegiata la basilica di S. Pietro, di cui in particolare M. V promosse il rifacimento del portico; tra ottobre 1420 e maggio 1422 sono attestate spese per alcuni ambienti dei Palazzi vaticani come l’aula del Concistoro, la camera del pontefice e la cappella maggiore. Nel 1421, proprio perché sede del carcere pontificio, fu restaurata la torre di Tor di Nona. Al 1423 risale inoltre il restauro del Pantheon, in particolare il rinnovo dei piombi del soffitto, caduti nel 1405 per una tempesta; sempre nel 1423 fu costruita una stanza all’interno di Castel Sant’Angelo, la cui ristrutturazione era iniziata nel 1398. Nel 1423 M. V autorizzò la ristrutturazione dell’ospizio di S. Stefano degli Ungheresi che sarebbe stata a carico del re Sigismondo di Ungheria. Al 1423-24 risalgono i lavori per la basilica e il palazzo di S. Maria Maggiore; nel 1425 M. V affidò al card. Gabriele Condulmer (futuro Eugenio IV) l’incarico di restaurare la basilica di S. Paolo, per la quale già dal 1423, con la concessione di particolari indulgenze, aveva sollecitato i fedeli a devolvere una parte dei propri lasciti testamentari. Nel 1425, in occasione del restauro di S. Giovanni in Laterano, autorizzò l’utilizzo di marmi e pietre di edifici ecclesiastici che si trovassero fuori dell’abitato e in pieno stato di abbandono. Nel 1424-27 fu restaurato il ponte di S. Maria, dopo che restauri minori erano stati apportati al ponte Nomentano e al ponte Salario (1423) nonché al ponte Milvio (1424), per facilitare le vie di comunicazione; a scopo difensivo furono fortificate le porte Appia e Pinciana (1424). Fu inoltre spianata la piazza dell’Ara Coeli. Nel 1427 fu fortificato con la costruzione di una torre il palazzo senatorio del Campidoglio, che già nel marzo 1420, prima del ritorno della Curia, la Camera Urbis aveva provveduto a restaurare, del resto, in quanto simbolo del potere municipale, nel 1404 i Romani avevano chiesto a Innocenzo VII di provvedere proprio al restauro del Campidoglio, che avrebbe dovuto tra l’altro recuperare la sua funzione di centro politico e amministrativo. A scopo difensivo fu inoltre da M. V sollecitato il rafforzamento della torre di Ostia e furono realizzati numerosi lavori di drenaggio. In tale ottica di riorganizzazione edilizia particolare rilievo assume nel 1425 la decisione di M. V di avocare a sé la nomina dei «magistri aedificiorum, viarum et stratarum ac decursuum aquarum». Anche fuori di Roma M. V promosse numerosi restauri, primo di tutti il palazzo papale di Avignone, ma anche molte chiese d’Italia come S. Maria a Orvieto, S. Domenico a Venezia e le chiese di Velletri. Tra le nuove costruzioni vanno segnalati il palazzo di famiglia fatto erigere a Roma accanto alla chiesa dei Ss. Apostoli, per opera soprattutto del fratello Giordano, e il castello a Genazzano.
Del resto, nell’Oratiuncula ad summum pontificem Martinum V, L. Bruni, inviato a Roma in ambasceria nel giugno 1426 con Francesco Tornabuoni, si soffermava soprattutto sulle «res», cioè sugli effettivi progressi compiuti da M. V per il rafforzamento dello Stato pontificio, progressi che il Bruni individuava da un lato nel ristabilimento di ordine e pace nelle turbolente campagne romane (consentendo così il tranquillo svolgersi della mercatura fiorentina) e dall’altro nella sistemazione urbanistica ed edilizia della città di Roma, avendo ordinato il restauro di numerose basiliche (in particolare S. Giovanni in Laterano) e dei ponti che attraversavano il Tevere (C. Bianca, Le orazioni di L. Bruni, in Leonardo Bruni cancelliere della Repubblica di Firenze. Atti del Convegno di studi… 1987, a cura di P. Viti, Firenze 1990, pp. 232-234).
Nel 1427 M. V commissionò a Gentile da Fabriano gli affreschi in S. Giovanni in Laterano che furono distrutti in concomitanza con gli interventi di F. Borromini, ma di cui fornisce testimonianza B. Facio nel suo De viris illustribus (a cura di L. Mehus, rist. in La storiografia umanistica. Atti del Convegno internazionale di studi… 1987, Messina 1992, pp. 101, 130) quando ricorda che Gentile dipinse l’«historia» di s. Giovanni Battista, apprezzandone in particolare la figura di Geremia, dipinta come una scultura in marmo. Ancora dal Facio si apprende che Gentile aveva dipinto una «tabula» raffigurante M. V e dieci cardinali. Nel 1428 il papa commissionò a Masolino da Panicale e Masaccio un polittico per S. Maria Maggiore, di cui rimangono un pannello di Masaccio raffigurante s. Girolamo e s. Giovanni Battista conservato a Londra (National Gallery) e due pannelli di Masolino da Panicale, rispettivamente a Napoli (Galleria nazionale di Capodimonte) e nella Johnson Collection del Museum of art di Filadelfia.
Nelle Vitae quorundam pontificum (anonime, ma certamente da assegnare a Poggio Bracciolini: Carlo di Capodimonte, P. Bracciolini autore delle anonime Vitae quorundam pontificum, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XIV [1960], pp. 27-47) M. V fu accusato di nepotismo: è vero che nel 1422 e nel 1424 egli esentò dieci feudi dei Colonna dal pagamento della dogana minuta, ma in definitiva non i parenti stretti della famiglia risultano favoriti (anche perché i fratelli Giordano e Lorenzo morirono molto presto, rispettivamente nel 1424 e nel 1419, e i nipoti erano in tenera età), ma i compatrioti provenienti dai feudi appartenenti ai Colonna di Genazzano. Il 1° febbr. 1427 con la bolla Etsi prudens regolava la successione dei nipoti Antonio, Prospero e Odoardo nei domini della famiglia che fino a quel momento erano indivisi; probabilmente riguardava il patrimonio personale del papa la somma di 1185 fiorini che risulta a suo credito nel bilancio del 12 luglio 1427 stilato dal Banco de’ Medici.
Negli ultimi anni del pontificato M. V seguì ampiamente le linee direttive già espresse nei vari settori di intervento. Il 26 maggio 1426 promosse la prima creazione cardinalizia, nominando i francesi Jean de la Rochetaillée, Louis Aléman, l’inglese Enrico di Beaufort, il praghese Giovanni de Bucca, il vescovo di Siena Antonio Casini, Nicolò Albergati, di cui si era servito per la mediazione con Bologna, il veneziano Raimondo Morosini, lo spagnolo Giovanni Cervantes, Ardicino Della Porta, Ugo da Lusignano, Domenico Ram, Domenico Capranica, Giuliano Cesarini, il nipote Prospero Colonna, quest’ultimo sia pure in pectore, la nomina fu infatti pubblicata solo l’8 nov. 1430, data della seconda creazione cardinalizia che sarebbe stata limitata a due nomi, cioè il domenicano Giovanni Casanova e Guillaume Dinan de Monfort, evidentemente per non superare il numero dei cardinali stabilito dal concilio di Costanza.
Nella politica verso gli ordini religiosi M. V cercò sempre di favorire tendenze di autoriforma all’interno di ciascun Ordine. Nel 1428 sancì la separazione della badia fiorentina dagli altri monasteri della Congregazione di S. Giustina; in tale occasione si distaccò dalla Congregazione anche l’abate di S. Giorgio Maggiore di Venezia, Giovanni Michiel, alla cui morte nel 1430 sarebbe stato designato come abate Gabriele Condulmer. In ogni caso M. V tentò di ridurre gli abusi degli Ordini mendicanti nell’insegnamento scolastico, che essi per tradizione esercitavano: nel 1429 vietò che il titolo di «magister» fosse conferito ai francescani mediante una bolla, senza aver prima seguito l’intero iter scolastico. Nel 1429 Luca da Offida, nel quadro di un forte recupero agostiniano, presiedeva al trasporto delle reliquie di s. Monica da Ostia a Roma. L’8 marzo 1429 concedeva agli speziali che ne facevano richiesta la collegiata di S. Lorenzo in Miranda, in stato di degrado, perché fosse fondato un ospedale per i membri della stessa corporazione, a cui avrebbero fatto seguito il 18 giugno 1430 gli statuti della Società dell’ospedale di S. Lorenzo in Miranda.
Rimaneva però aperto il problema dell’obbedienza avignonese: con la morte di Benedetto XIII e in relazione al nuovo papa Clemente VIII, anch’egli appoggiato da Alfonso d’Aragona, M. V intensificò gli sforzi per raggiungere una completa unità della Chiesa: fin dal 1425 aveva designato per sanare lo scisma il cardinale Pietro de Foix, che però solo nel 1427, dopo un preventivo accordo con re Alfonso, poté partire per la Spagna. Il 26 luglio 1429, dopo lunghe trattative, Clemente VIII rinunciò al pontificato e di pari passo il conclave dei cardinali dell’obbedienza avignonese svoltosi a Peñiscola riconobbe il pontefice romano.
Nel 1427 M. V nominò Giovanni Vitelleschi negoziatore di parte pontificia a Firenze per la revisione degli statuti del 1415. Nel 1428 fronteggiò la rivolta del Comune di Bologna, quando i Canetoli e gli Zambeccari furono eletti riformatori dello Stato della libertà; in tale circostanza il generale dei frati agostiniani eremitani, Agostino Favaroni (Agostino da Roma), intercedette, anche da parte del Comune di Firenze, perché la legazione bolognese fosse ricevuta dal papa: solo nel 1429 si arrivò a un accordo con il quale i Riformatori furono confermati ed ebbero il permesso di eleggere i propri successori.
In linea con la citata bolla Sicut Iudaeis M. V emanò il 13 febbr. 1429 una bolla con la quale vietava di arrecare disturbo agli ebrei, mentre nel 1430 riconfermò i capitoli del 1402 di Bonifacio IX con i quali si dispensavano gli ebrei dal portare il segno distintivo.
Il 1° febbr. 1431 M. V indisse il concilio generale di Basilea, nominando legato il cardinale Giuliano Cesarini. Il 20 febbraio M.V morì a Roma per apoplessia. Come racconta Paolo Dello Mastro, si verificò un’eclissi («scurio lo sole»: Il diario e memorie delle cose accadute in Roma, a cura di F. Isoldi, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXIV, 2, Appendice, p. 85).
Fu sepolto in S. Giovanni in Laterano. La lastra tombale in bronzo, raffigurante il pontefice in bassorilievo sul letto di morte secondo la tradizione medievale, è ancora oggi esistente: il luogo originario, da cui fu rimossa con solenne cerimonia il 7 febbr. 1853, era il pavimento davanti all’altare maggiore e in particolare davanti ai busti reliquiari di s. Pietro e di s. Paolo. Su tale lastra è scolpito ai piedi del pontefice un epitaffio che ricorda la data di morte e la durata del pontificato, con tutta probabilità composto da Antonio Loschi, che scrisse anche un epigramma in morte di M. V (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 5994, c. 74v). Tale epigrafe costituisce la prima testimonianza della restituzione della capitale epigrafica e ben si accorda con la supposta origine fiorentina: la lastra tombale in bronzo, infatti, come si ricava dai registri doganali, arrivò a Roma solo il 7 apr. 1445, probabilmente da Firenze, e nulla vieta di pensare che l’autore vada identificato in un artista molto vicino alla scuola di Donatello (forse Simone da Firenze), se non addirittura nello stesso Donatello, almeno per la parte del ritratto; altrettanto probabilmente il promotore di tale operazione fu il nipote cardinale Prospero Colonna, ben noto per il suo patrocinato artistico e culturale.
Fonti e Bibl.: Si rinvia a C. Bianca, M. V, in Enc. dei papi, II, Roma 2000, pp. 631-634. Si aggiunga: Registri vaticani delle suppliche da Clemente V a M. V, Città del Vaticano 2002 (CD-ROM); S. Ronchey, Malatesta-Paleologi: un’alleanza dinastica per rifondare Bisanzio nel XV secolo, in Byzantinische Zeitschrift, XCIII (2000), pp. 521-526; B. Studt, Legationen als Instrumente päpstlicher Reform- und Kreuzzugspropaganda im 15. Jahrhundert, in Formen und Funktionen öffentlicher Kommunication im Mittelalter, a cura di G. Althoff, Stuttgart 2001, pp. 421-453; J. Drabina, Kontakty listowne papie¶a Marcina V z królem W¢adyslawem Jagie¢¢a (Corrispondenza di M. V con il re Ladislao Jagellone), in Studia historyczne, XLV (2002), pp. 3-16; P. Guerrini, Rappresentazioni dello scisma nella cronistica europea del XV secolo, in Schola Salernitana. Annali, V-VI (2002), pp. 63-80; S. L’Occaso, Osservazioni sulla pittura a Roma sotto M. V, in Arch. della Soc. romana di storia patria, CXXV (2002), pp. 379-403; J. Poetsche, Martin V. als Restaurator Urbis, in Rom und das Reich von der Reformation, a cura di N. Staubach, Frankfurt a.M. 2004, pp. 9-19; B. Studt, Papst Martin V. (1417-1431) und die Kirchenreform in Deutschland, Köln 2004; T. Pöpper, Zur ursprunglichen Ausstellung und zum «idealen» Betrachter des Grabdenkmals Papst Martin V. in S. Giovanni in Laterano, Rom, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, LXX (2007), pp. 55-68.