Parini, Giuseppe
Nel Discorso sopra la poesia (1761) il P. (Bosisio 1729 - Milano 1799), delineando il suo concetto dell'arte come volta a muovere gli affetti dilettosamente grazie alla rappresentazione degli oggetti, già inseriva tra gli altri esempi " i sublimi capricci e grotteschi di Dante ". Molti anni dopo, nel breve disegno storico della letteratura italiana che traccia nella seconda parte dei Principi fondamentali e generali delle belle lettere (II IV; cfr. l'ediz. a c. di G. Mazzoni, Firenze 1925, 812-813), stesi avanti il 1777, premesso che fino a D. la poesia volgare era limitata in Italia alle rime di amore, cronache e letteratura per il volgo, nota che D. " fu il primo che, trasferendo l'entusiasmo della libertà politica anco negli affari delle lettere, osò scuotere il giogo della barbara latinità de' suoi tempi, per levar di terra il peranco timido volgare della sua città, e condurlo di balzo a trattare in versi l'argomento più forte ed il più sublime che a scrittore e a poeta cristiano potesse convenirsi giammai ".
Nel quadro illuministico di un'Italia divorata dalle fazioni, " in una comune barbarie di costumi e di lettere e d'arti, di una cultura dominata da opinioni e pratiche superstiziose e dalla teologia scolastica, ridotta a vane controversie di parole ", il poema di D. appare, come in altri scrittori del Settecento, quale mirabile novità. La quale tuttavia è spiegata dal P. come sorgente da un nesso essenziale tra vita e attività letteraria, sì che ne venne uno specchio realistico della società del tempo, dalla quale erano tratte le cose che potessero meglio interessare i contemporanei " sia scuotendo le fantasie... rendute suscettibili di tetre e terribili impressioni dall'ignoranza e dalle sceleraggini, sia solleticando le loro passioni e i loro odii ". Quest'ultima frase, che tuttavia appare in uno solo dei due manoscritti autografi, e non nella copia contenente modifiche e correzioni del P., se da una parte indica la direzione realistico-sensistica in cui il P. si apriva a valutare la poesia dantesca, dall'altra ne segna i limiti in un duplice aspetto: morale, in quanto la Commedia, pur nell'evidenza ed energia della rappresentazione, veniva a essere uno sfogo delle passioni politiche di D. (" S'insultavano e si adulavano le contrarie fazioni, dannando e salvando, secondo che fosse meglio paruto al poeta i principali partigiani dell'una e dell'altra "); temporale, per cui il successo del poema, ritenuto ai suoi tempi popolare sulla fede dell'aneddoto del Sacchetti, è ricondotto alla " importanza dell'argomento ", alla " dottrina " e all'" interesse delle passioni dominanti ", tre ragioni che tendevano a restringerne il significato e il valore al suo momento storico. Venendo a parlare del Petrarca, lo dice superiore a D. nel linguaggio poetico, di " gusto anche più squisito e delicato ", d'impasto più omogeneo, poiché anche al P., come ad altri settecentisti, non piace la varietà di apporti verbali da altre lingue, sebbene scusi D. per la necessità espressiva delle " alte fantasie della sua mente ".
In complesso, forse proprio l'idea di una poesia che dilettasse l'anima eccitando fortemente gli affetti e l'immaginazione l'induceva ad ammirare D. oltre i limiti ancora ristretti di un gusto legato al concetto di eleganza e " leggiadria ". Ciò spiega come nel ricordo dei suoi discepoli sia rimasto quale un ammiratore di D., di cui avrebbe recitato spesso il sonetto Tanto gentile. Del resto è significativa in un pensiero trovato fra le sue carte (Discorso sopra la poesia, in op. cit., p. 61) l'osservazione che i poeti " sieno meglio riusciti a dipingere i tormenti dell'inferno che i piaceri del cielo e degli Elisi ", e a D. probabilmente pensa quando aggiunge che i poeti cristiani in particolare, mentre non potevano profanare con immagini troppo materiali la condizione dei beati, trovavano nelle superstizioni popolari " i semi delle immagini con cui dipinger l'inferno ".
Bibl. - G. Mazzoni, in " Bull. " IV (1896-97) 52; M. Barbi, ibid. IX (1901-02) 17 (poi col tit. La fama di D. nel Settecento, in Problemi I 471), dove, contro l'ipotesi di una preferenza accordata dal P. al Petrarca sostenuta da G. Zacchetti (La fama di D. nel sec. XVIII, Roma 1900, 125) e da F. Sarappa (La critica di D. nel sec. XVIII, Nola 1901, 160), cita la testimonianza del Reina e di altri; A. Pompeati, Il P. e D., in Ricordi e studi in memoria di F. Flamini, Napoli 1931.