parlamento
Denominazione usata in Inghilterra (Parliament), a partire dal sec. 15°, per indicare insieme le Camere dei lord e dei comuni e, in Francia (Parlement), fino al 1790, per designare alcune corti di giustizia, fra cui quella di Parigi, che aveva il diritto di registrare gli editti regi. Dal 19° sec. il termine indica l’assemblea politica dello Stato moderno, e precisamente l’organo collegiale di carattere rappresentativo-politico mediante il quale il popolo, attraverso i suoi rappresentanti eletti, partecipa all’esercizio del potere per la formazione delle leggi e il controllo politico del governo.
Il termine parlamentum risale agli ultimi secoli dell’Alto Medioevo, e designò inizialmente la riunione di persone che trattavano pubblici affari. Antiche, e comunque anteriori al sorgere del comune, sono le assemblee di cittadini: la stessa parola commune aveva avuto in quei secoli il significato di assemblea, identificandosi poi con parlamentum, colloquium, concio, arengum. È probabile che di queste assemblee cittadine facessero parte liberi concessionari di terre o proprietari di case, appartenenti alla bassa feudalità, addetti alla difesa delle mura e delle torri della città, commercianti e artigiani, divisi in milites, cioè cavalieri, e pedites, cioè pedoni, secondo che avessero l’obbligo di militare a cavallo o a piedi in proporzione delle loro sostanze. Con l’affermarsi delle autonomie comunali, il p. crebbe sempre più d’importanza: nel periodo comunale gli furono demandate le decisioni più importanti, sulle questioni costituzionali, sulla pace e sulla guerra, sui mutamenti territoriali, sulla imposizione dei tributi ecc. Questa importanza decrebbe rapidamente nel corso del sec. 13°, quando, parallelamente all’aumento della popolazione urbana, con l’emergere dei ceti medi e l’affrancarsi delle popolazioni servili fin allora escluse dal p., si venne costituendo nei comuni il Consiglio maggiore (Consilium maius), meno numeroso del p. e perciò più adatto alla discussione degli affari pubblici e più facile a essere convocato. In esso confluirono le classi nuove dei commercianti, degli artieri, dei piccoli proprietari, mentre con il prevalere del comune popolare ne furono escluse le antiche famiglie feudali. Esso divenne ben presto l’arbitro della vita cittadina, esautorando progressivamente il p., che fu convocato sempre più di rado. Nel sec. 14° ci fu una ripresa di attività del p., ma solo in quanto esso sembrò l’organo più adatto per legittimare il trapasso al regime signorile che si faceva strada: la sua funzione era del tutto formale. Diversa è la vicenda del p. nelle monarchie: queste conobbero p. generali, con competenza su tutto il territorio dello Stato, e p. provinciali o particolari con competenze più ristrette. Ne è controversa l’origine, riportandola taluni alle antiche assemblee popolari germaniche, continuate poi dai franchi, altri alle riunioni periodiche degli ottimati che i principi feudali tenevano presso di sé per averne consiglio, o al diffondersi dello spirito corporativo che spingeva a organizzarsi per la difesa degli interessi comuni, o al bisogno che i signori avevano di convocare presso di sé i propri sudditi per avere il loro assenso quando si trovavano costretti a chiedere tributi straordinari, e così via. In Italia, le forme storiche più antiche sono: il P. del regno di Sicilia, risalente all’età normanna (sec. 12°); il P. del Friuli e quello dello Stato della Chiesa, risalenti al sec. 13°; i P. generali dello Stato sabaudo (dove già esistevano i P. provinciali), istituiti nel sec. 14°; il P. sardo, che succedette nel 1355 alle assemblee dei «giudicati». Fuori d’Italia, risalgono all’Alto Medioevo le prime Cortes della Penisola Iberica, assemblee generali di nobili ed ecclesiastici, nelle quali dal sec. 13° trovarono posto anche i rappresentanti della città; in Inghilterra, è del 1264 la prima assemblea generale del regno alla quale parteciparono le città, dopo la Magna charta del 1215; in Francia, dove il P. di Parigi fu in realtà solo un’alta corte giudiziaria, dotata di speciali prerogative, la prima vera assemblea generale del regno furono gli Stati generali, riuniti la prima volta per ordine di Filippo il Bello nel 1302; vi sedevano i rappresentanti dei tre ordini o stati, clero, nobiltà e borghesia, in cui era suddivisa la società francese nell’ancien régime. Nel sec. 14°, nei Paesi germanici, furono ammesse le città nelle assemblee regionali; e appunto da quel momento, in cui i rappresentanti delle città parteciparono alle assemblee accanto ai nobili, ai feudatari e al clero che originariamente erano i soli ammessi (in quella del regno di Sicilia ciò accadde nel 1232), possiamo parlare di p. in senso più vicino al moderno. L’assemblea, divisa così in tre classi, nobile, ecclesiastica e cittadina, che ne costituivano altrettanti rami (o stati o bracci o stamenti), veniva convocata e presieduta dal principe o da un suo delegato: non vi era una periodicità fissa, né tanto meno uniforme, delle convocazioni. Le classi potevano deliberare in seduta plenaria ovvero separatamente; e fu a lungo controverso il metodo di deliberazione, se cioè il voto concorde di due classi potesse vincolare anche l’altra classe, e se, nella stessa classe, la deliberazione presa a maggioranza potesse vincolare tutti i componenti di essa: questioni che finirono per risolversi a vantaggio del principio maggioritario. Per questioni particolari i p. ebbero spesso commissioni ristrette, che a volte sedettero in permanenza come organi di assistenza e di consulenza del governo. Diverse secondo i luoghi e i tempi furono le competenze dei p.: particolarmente importante fu quella in materia finanziaria, per l’impegno che l’assemblea doveva assumere in nome dei sudditi, di fronte agli oneri richiesti dal principe per sussidi straordinari di denaro o di armati. Competenze non meno importanti furono, per molti p., quella giudiziaria e quella concernente la presentazione di lamentele dei sudditi al sovrano. In materia legislativa, si manifestano le maggiori diversità: alcuni p. (come i p. siciliani del periodo normanno-svevo e quelli dello Stato della Chiesa) avevano la sola funzione di prendere atto delle norme che vi erano rese pubbliche; ad altri invece (come quello friulano) erano affidate l’elaborazione e l’approvazione delle leggi; e quello siciliano del periodo aragonese proponeva addirittura al sovrano i capitoli affinché ne ottenessero la sanzione e divenissero leggi. Altra importante funzione fu quella di ricevere il giuramento del nuovo principe e di prestare a lui in nome dei sudditi il giuramento di obbedienza e di ossequio, nonché, quando le circostanze lo permisero, il loro intervento nella politica dei governi. L’avvento dello Stato assoluto segnò in Europa la crisi dei p., che si avviarono a una rapida decadenza. In Francia, gli Stati generali furono convocati per l’ultima volta nel 1614 prima che fossero riuniti da Luigi XVI, nel 1789; in Spagna la volontà politica delle Cortes fu definitivamente debellata da Carlo V unitamente alla rivolta dei comuneros nel 1522; a un analogo processo involutivo si assiste negli Stati italiani, come in quello dei principi sabaudi, che dal sec. 16° non convocarono più gli Stati del Piemonte e della Savoia, o nel vicereame spagnolo di Napoli, dove il P. si riunì per l’ultima volta nel 1642, sostituito dai seggi. Solo in Inghilterra il P., che sotto i Tudor aveva perduto ogni autorità, tornò a rivendicare i suoi diritti con gli Stuart: presentò a Carlo I la Petition of rights (1628) e fu protagonista della prima rivoluzione; nel 1688 invitò Guglielmo d’Orange a prendere la corona come sovrano costituzionale e l’anno successivo, con la Bill of rights giurata da Guglielmo d’Orange, iniziò la fase moderna del P. inglese.
Malgrado analogie di carattere generale e in talune funzioni specifiche, i p. moderni, che solo in parte sono una continuazione dei p. medievali (come in Gran Bretagna), costituiscono sostanzialmente qualcosa di diverso dalle assemblee che sotto vari nomi (Cortes, diete, Stati generali) trattarono questioni politiche e finanziarie durante il periodo delle monarchie feudali e assolute. Quelle assemblee erano riunioni di rappresentanti dei vari ordini e ceti per tutelare di fronte al sovrano interessi e privilegi propri di ciascuno. A esse apparteneva solo raramente la funzione fondamentale e specifica dei p. moderni, che è quella di proporre leggi (funzione legislativa), e tanto meno quella del controllo degli atti di governo (controllo politico). Tutti gli atti delle antiche assemblee (approvazione di tributi, registrazione di editti, convalida di successione ecc.) vanno considerati nel quadro di un sistema statale, nel quale la fonte del potere (la sovranità) è di istituzione divina e appartiene al re. I conflitti fra p. e monarchia, nelle varie forme in cui si presentano in quel periodo, riguardano l’ambito dell’esercizio, e non il fondamento, del potere sovrano. Diversamente accade con la rivoluzione delle colonie inglesi dell’America Settentrionale (1776) e con la Rivoluzione francese del 1789, durante le quali si creano assemblee di tipo nuovo che ricevono il loro potere dalla «nazione » o «popolo» (Dichiarazione dei diritti della Virginia, del 1776; Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 26 ag. 1789). La tendenza che si manifesta successivamente in quasi tutti i Paesi, specialmente d’Europa, è quindi quella di creare assemblee parlamentari, alla cui base sta il principio che la fonte del potere è la volontà generale del popolo, il quale mediante i rappresentanti in p. partecipa all’esercizio del potere statale, in taluni casi condiviso con la monarchia di origine tradizionale (monarchia costituzionale). È in un sistema di quest’ultimo tipo che in Inghilterra si inizia nel 1688 il regime statale parlamentare (➔ Parlamento inglese), che avrà il suo sviluppo con la costituzione, alla fine del Settecento, di un gabinetto o governo di ministri responsabili e nel secolo successivo con le riforme che portarono a un primo allargamento della base elettorale (1832). In Francia dopo il 1789 si sono succedute forme diverse di regime parlamentare: dal sistema del governo diretto dell’assemblea, attraverso la pratica dei «comitati» e delle «commissioni», che esercitavano funzioni di governo, fino al 1794, al sistema bicamerale (Camera dei Cinquecento e degli Anziani) con un governo di cinque membri, il Direttorio. Dopo il periodo dell’impero di Napoleone I, che praticamente tolse ogni funzione autonoma al P., da parte dei sostenitori della «restaurazione» si cercò di dare vita a un sistema in cui la funzione parlamentare trovasse il suo limite nella prerogativa regia, manifestantesi attraverso le «ordinanze». Con la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans, instaurata nel 1830, non si riconobbe alcun potere di «ordinanza» al sovrano, ed ebbe inizio un sistema parlamentare più avanzato. Perduta ancora una volta ogni pratica funzione sotto Napoleone III, il P. francese tornò, non solo nella pratica, ma anche nella sanzione ufficiale (Costituzione del 1875) al sistema della responsabilità solidale dei ministri e della condotta politica del governo di fronte a esso. In generale, nel corso del 19° sec. i p. acquisirono molte delle loro attuali prerogative. Essi divennero il cuore della volontà politica della nazione, estendendo la propria influenza sui meccanismi del governo con la trasformazione delle monarchie costituzionali in monarchie parlamentari: in sistemi politici, cioè, in cui il governo, non più incarnato dal sovrano ma da uno specifico «gabinetto ministeriale» guidato da un premier, è responsabile del proprio operato di fronte al p. e dipende dalla sua fiducia. In virtù di queste trasformazioni il 19° sec. è stato il secolo d’oro del parlamentarismo. Fu l’avvento generalizzato della democrazia rappresentativa, del suffragio universale e dei partiti di massa a conferire ai p. contemporanei, tra la fine del 19° e il 20° sec., un loro più definito profilo. Questo processo ha trasformato i p., in cui prima sedevano notabili eletti a suffragio ristretto, in assemblee dominate da esponenti di grandi partiti organizzati capaci di rappresentare la volontà popolare, in particolare nei Paesi in cui il sistema proporzionale consentiva una effettiva corrispondenza tra corpo elettorale e rappresentanza politica. Tuttavia, nel corso dello stesso 20° sec., ha preso le mosse un graduale processo di marginalizzazione dei p., per effetto della pressione diretta esercitata dalle grandi forze economiche e imprenditoriali; una pressione in grado di orientare molte decisioni, o di trasferire le sedi decisionali effettive all’esterno dei parlamenti. Al di là di questi sviluppi, almeno formalmente i p. continuano oggi a essere l’espressione più alta della volontà del popolo sovrano nelle sue diverse articolazioni. I p. contemporanei hanno struttura e funzioni molto diverse da Paese a Paese, in relazione a variabili quali il sistema elettorale (maggioritario o proporzionale) e il sistema dei partiti (monopartitico, bipartitico o multipartitico). Essi possono essere composti da una o da due assemblee. Nel primo caso si parla di p. monocamerali, nel secondo di p. bicamerali. Questi ultimi rispondono all’esigenza di una salda separazione dei poteri e al bisogno di controbilanciare le tendenze politiche della prima camera con una seconda camera più ristretta, oppure eletta secondo diversi criteri, oppure ancora – come avviene di regola negli Stati federali – formata su base territoriale. L’organizzazione delle assemblee parlamentari è oggi assai sofisticata. Le principali articolazioni dei p. contemporanei sono date dalle commissioni parlamentari (per lo più specializzate in determinate materie – bilancio, politica estera ecc. – che vengono preliminarmente trattate prima di giungere alla discussione in aula) e dai gruppi parlamentari (sostanzialmente espressione dei partiti, schierati con la maggioranza o all’opposizione), la cui condotta è fissata da complessi regolamenti.
In Italia, assemblee parlamentari di tipo moderno si ebbero a cominciare dal 1796. Dopo l’Assemblea costituente delle città di Bologna, Modena, Ferrara e Reggio, primo nucleo della Cispadana (ott. 1796), l’Assemblea cisalpina, nata dall’unione con la Cispadana (17 luglio 1797), adottò il sistema bicamerale (Consiglio degli iuniori, di 160 membri, e Consiglio dei seniori, di 80 membri), e fu in attività fino all’apr. del 1799. Nel 1812 in Sicilia la convocazione straordinaria del P. generale dell’isola portò alla promulgazione di una Costituzione modellata sull’esempio inglese, e diede vita a un’assemblea parlamentare moderna, il P., con due camere (Camera dei pari e Camera dei comuni), che iniziò la sua attività l’8 luglio 1813 e, sciolto una prima volta nell’ottobre di quell’anno, fu definitivamente abolito nel 1815. P. di tipo moderno si costituirono a Napoli (1° ott. 1820-19 marzo 1821) in seguito ai moti del 1820 e a quelli del 1848, quando si ebbero p. in quasi tutte le regioni italiane: in Sicilia (25 marzo 1848), a Napoli (1° maggio 1848), in Piemonte (8 maggio 1848), a Roma (5 giugno 1848), in Toscana (26 giugno 1848), a Venezia (luglio 1848); essi cessarono dopo la reazione del 1849, tranne che in Piemonte, dove il P. si mantenne fino alla costituzione del regno d’Italia (17 marzo 1861). Ma già il 18 feb. 1861 ebbe luogo la prima seduta del P. del nuovo Stato unitario. Nel Senato del regno ai 91 componenti del Senato sabaudo si aggiungevano 128 nuovi membri, provenienti dalle altre zone del Paese. Dopo aver avuto sede a Torino (1861-65) e poi a Firenze (1865-71), dal 1871 il P. – articolato in un Senato di nomina regia e in una Camera dei deputati elettiva – si spostò nella nuova capitale del regno, Roma. Gli avvenimenti fondamentali che contrassegnano la vita del P. in Italia dopo la costituzione dell’unità nazionale sono la riforma parlamentare del 1882, che consentì un primo allargamento della base degli elettori, e la successiva riforma del 1912, che elevò da 2 milioni a 8 milioni il numero degli elettori, preludendo praticamente al suffragio universale maschile. Dell’attività del P. in questo periodo sono da ricordare fra l’altro le grandi inchieste parlamentari su determinati aspetti delle condizioni del Paese (inchiesta sul brigantaggio, 1863; inchiesta agraria, 1885; inchiesta sul Mezzogiorno, 1910). Gli eletti rimanevano tuttavia espressione del notabilato locale e delle tradizionali classi dirigenti. Le elezioni del 1919 videro invece il passaggio al sistema elettorale proporzionale, che consentì l’affermazione dei partiti di massa, dal Partito socialista italiano al Partito popolare italiano. L’avvento del fascismo può quindi essere letto anche come reazione a tale avanzata della democrazia rappresentativa e dei suoi nuovi protagonisti, oltre che come reazione alle lotte sociali del Biennio rosso. Non a caso, tra i primi provvedimenti del nuovo regime fu la legge elettorale Acerbo (1924), che abolì il sistema proporzionale e istituì il collegio unico nazionale con 15 circoscrizioni a sistema maggioritario, segnando il rapido declino del regime parlamentare sotto il governo fascista. La crisi conseguente all’assassinio del deputato socialista G. Matteotti si concluse con il discorso di B. Mussolini del genn. 1925, un’aperta mortificazione del P., che di fatto iniziò a sparire. La riforma del 1928 ridusse l’assemblea della Camera a 400 deputati, le cui candidature erano designate dalle confederazioni sindacali e approvate dal Gran consiglio del fascismo. Nel genn. 1939 la Camera dei deputati fu sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni. Il P. democratico fu ricostruito dopo la caduta del fascismo: dopo che nel giugno 1946 fu proclamata la Repubblica, l’Assemblea costituente elaborò e promulgò il 22 dic. 1947 la nuova Costituzione, che ha mantenuto la forma bicamerale e rafforzato l’autonomia del P. nel proprio funzionamento e nell’esplicazione dell’attività legislativa specifica (che però può delegare al governo per oggetti definiti e per tempo limitato). Durante il periodo repubblicano, il P., eletto con sistema proporzionale (sia pure con modalità diverse nelle due Camere) e con una forte rappresentanza dei partiti di massa, ha avuto una notevole centralità nel sistema politico italiano. Le trasformazioni tipiche delle società industriali avanzate hanno tuttavia ridimensionato anche in Italia il ruolo del Parlamento. Le riforme elettorali degli anni 1990-2000 hanno inoltre mutato il sistema elettorale, facendo prevalere la componente uninominale e maggioritaria e istituendo soglie di sbarramento sempre più consistenti, le quali hanno limitato l’accesso dei partiti nel P. stesso, superando quella perfetta corrispondenza tra corpo elettorale e P. che aveva caratterizzato i decenni precedenti.
Si veda anche Il parlamento dal modello inglese alla realtà odierna