Partiti politici e sistemi di partito
di Stefano Bartolini
Partiti politici e sistemi di partito
Di partiti si parlava già nel contesto del Senato romano, delle città-Stato medievali, dei parlamenti Tudor e Stuart, nonché nella Francia rivoluzionaria. Nei regimi autoritari si utilizza il termine partito per indicare sia l'organizzazione politica che sostiene tale regime, sia le forze clandestine in antitesi, talvolta sul piano meramente ideologico, a quelle dominanti. Nei sistemi politici postcoloniali si è dato vita dall'alto a istituzioni di mobilitazione e orientamento del sostegno chiamandole partiti. Tuttavia, il 'partito moderno' è caratterizzato da un'organizzazione formale, un orientamento ideologico comune e la partecipazione a elezioni competitive. In questa accezione il partito politico trova i suoi riferimenti genetici nell'esperienza della modernizzazione politica realizzatasi in Occidente, in particolare nell'età delle ideologie inaugurata dalla Rivoluzione francese, nella trasformazione dei sudditi in cittadini attraverso l'estensione dei diritti politici e nei processi di liberalizzazione e democratizzazione dei regimi politici (v. Pombeni, 1994). L'esistenza di libere elezioni determina un'interazione competitiva tra le unità partitiche che ne influenza la natura sia sotto il profilo ideologico, sia sotto quello organizzativo. Pertanto, i partiti senza interazione competitiva - cioè, i partiti unici di regimi autoritari e totalitari - sono istituzioni politiche completamente diverse da quelle esistenti nei regimi democratici, qualunque ne sia la natura ideologica e organizzativa (v. Fisichella, 1972).
I partiti politici moderni si differenziano in primis per il modello genetico che definisce le loro interazioni originarie con l'ambiente sociale (sostegno elettorale, rapporto con gruppi e movimenti); in secondo luogo, essi si differenziano per il loro modello organizzativo, che caratterizza processi interni e stile di rappresentanza; in terzo luogo, i partiti si differenziano a seconda del modello di interazioni competitive che si stabiliscono tra di essi sulla base di fattori quali il numero, la forza elettorale, l'affinità ideologica, le coalizioni governative possibili. Infine, i partiti possono essere concepiti come attori unitari, oppure analizzati come interazioni sub-unitarie tra gruppi, strati e organi.
Il presente articolo è organizzato sulla base di queste differenziazioni. Prendendo le mosse dai processi genetici del partito politico, si passa quindi alla discussione dei diversi tipi di partiti politici e delle funzioni che essi hanno svolto e svolgono nel sistema politico. In seguito il partito viene osservato al suo interno, considerando i conflitti interni di un'organizzazione stratificata e frazionalizzata. Infine il partito è discusso alla luce dei processi interattivi con gli altri partiti, cioè come unità del sistema partitico. La sezione conclusiva affronta il tema della crisi del partito politico, della sua presunta obsolescenza sul finire del XX secolo.
In una prospettiva storico-sociale i partiti appaiono come espressione politica di divisioni fondamentali relative ai processi di formazione dello Stato e di sviluppo del capitalismo. Tali processi costituiscono la base per l'esistenza di identità collettive e di gruppi e movimenti potenzialmente in conflitto tra loro. Da un punto di vista organizzativo l'origine del partito è vista in termini di penetrazione e consolidamento territoriale, dinamiche e imperativi organizzativi, modelli di rapporto con le organizzazioni esterne e con l'ambiente. Da un punto di vista istituzionale, invece, tale origine è riconducibile all'allargamento del suffragio e allo sviluppo dei parlamenti e delle istituzioni democratico-rappresentative. Ogni partito, dunque, nasce e si sviluppa dalla interazione tra: 1) le spinte socioculturali che determinano le varie opportunità per l'articolazione delle domande e della protesta e per l'organizzazione e la mobilitazione del sostegno; 2) gli sviluppi organizzativi; 3) gli esiti istituzionali del processo di democratizzazione politica, cioè le 'regole del gioco' e gli ordinamenti elaborati in risposta a pressioni dal basso per la rappresentanza politica.
a. Fratture sociali
Quattro grandi fratture dello sviluppo politico europeo hanno dato origine alla configurazione di conflitti sui quali si sono strutturati i sistemi partitici (v. Rokkan, 1968 e 1970; v. Lipset e Rokkan, Cleavage..., 1967). Le prime due fratture emergono dal processo di formazione dello Stato nazionale. La prima - che separa il centro dalla periferia - fu determinata dall'esplosione di conflitti interni ed esterni agli Stati, riguardanti le identità culturali e religiose delle popolazioni. A partire dalla divisione dell'unità religiosa europea nel periodo della Riforma e Controriforma tale frattura oppone la cultura dominante delle élites politiche dei nuovi Stati alla resistenza di particolari gruppi periferici distinti sotto il profilo etnico, linguistico e religioso. La seconda frattura si cristallizza nell'era postnapoleonica e oppone gli sforzi di piena e uniforme affermazione dell'autorità dei nuovi Stati nazionali ai tradizionali privilegi delle chiese - soprattutto della Chiesa cattolica - dando luogo ovunque ad aspri conflitti tra Stato e Chiesa per il controllo della vita sociale e dell'istruzione, la quale si va estendendo a strati sempre più ampi della popolazione.
Dopo il processo di formazione dello Stato nazionale, la seconda fase critica della storia europea è la rivoluzione industriale del XIX secolo, dalla quale emergono altre due fratture decisive per la strutturazione dei sistemi partitici. La prima oppone con diversa intensità gli emergenti interessi urbani commerciali e industriali agli interessi agrari e contadini, determinando un'opposizione tra settore primario e secondario che si esprimerà principalmente nelle politiche delle tariffe e nel contrasto ideologico tra liberismo e protezionismo. La seconda frattura causata dalla rivoluzione industriale oppone i lavoratori industriali ai datori di lavoro-proprietari; questi ultimi difendono la proprietà e il mercato contro il movimento sindacale, la cooperazione, i movimenti operai, secondo una linea di conflitto che tutt'oggi qualifica in molti paesi occidentali la classica distinzione destra-sinistra. Questi cleavages (fratture sociopolitiche) tra centro e periferia, Stato e Chiesa, settore primario e secondario, lavoratori e proprietari, si politicizzano nel processo di democratizzazione ed estensione del suffragio. Dalla reazione delle periferie - cioè delle popolazioni etnicamente, religiosamente, linguisticamente diverse - nei confronti dei modelli culturali e degli standard imposti dai centri unificatori dello Stato sono emersi i movimenti e i partiti etnici, linguistici e di protesta religiosa, tuttora presenti in molti paesi europei. Dal confronto Stato-Chiesa sul controllo della vita sociale e culturale è nata l'opposizione tra élites liberali e partiti religiosi. Dai conflitti tra interessi urbani e agrari sono emersi - soprattutto nell'Europa del Nord e dell'Est - partiti contadini e di difesa agraria. Infine dai conflitti industriali sono nati i partiti e i movimenti operai che in seguito si sono divisi sul problema della rivoluzione internazionale comunista.
Lo schema genetico qui riassunto per grandi linee non implica che queste fratture abbiano sempre e ovunque costituito la base sufficiente per la formazione di partiti al momento dell'allargamento del suffragio. Gli attori principali che intorno a esse si sono costituiti hanno interagito tra loro dando luogo a diverse configurazioni di alleanze tra gruppi sociali (v. Rokkan, 1970). Partiti di difesa agraria, etnico-culturale o partiti religiosi non sono sorti ovunque, ma solo in determinate condizioni. In altri casi tali conflitti sono stati assorbiti: per esempio, il conflitto tra interessi urbani e agrari è stato spesso riassorbito all'interno del conflitto Stato-Chiesa, là dove grandi partiti cattolici hanno ottenuto l'appoggio dei contadini. Per molti aspetti, invece, il conflitto industriale e la frattura di classe hanno avuto un effetto unificante e standardizzante sui sistemi di partito europei, in quanto ovunque sono sorti con successo dei partiti operai.
b. Modelli organizzativi
Una seconda prospettiva per l'analisi della genesi e dello sviluppo dei partiti politici è di carattere organizzativo. In questo caso il partito politico è considerato come un'organizzazione dominata dagli imperativi della sopravvivenza e dell'espansione, che si sviluppa in risposta alle pressioni e alle sfide provenienti dall'ambiente esterno, utilizzando a tal fine le risorse di incentivazione e di mobilitazione che sono proprie della sua struttura originaria. Le iniziali scelte organizzative, il 'modello originario' del partito, assumono una particolare importanza. Alla classica distinzione tra partiti di creazione interna che hanno origine da élites parlamentari e partiti di creazione esterna, fondati da gruppi e associazioni attivi nella società e non rappresentati nei parlamenti censitari (v. Duverger, 1951) si è aggiunta quella tra sviluppo organizzativo che procede per penetrazione territoriale e sviluppo che procede per diffusione territoriale. Il primo è il risultato di un centro che penetra la periferia territoriale, stimolandone e controllandone gli sviluppi organizzativi. Il secondo corrisponde a un'organizzazione periferica che germina in modo più spontaneo e che si raccorda con un centro, o genera un centro come coalizione di élites locali dotate di autonomia relativamente ampia (ovviamente in una fase successiva anche un centro così costituito può farsi promotore di una penetrazione organizzativa quando il partito è assente o debole: v. Panebianco, 1982).
La terza dimensione organizzativa importante è il rapporto originario che si crea tra l'organizzazione politica in senso stretto e altre organizzazioni nel canale della rappresentanza degli interessi. Alcuni partiti politici hanno fatto affidamento su una rete di gruppi associativi, occupazionali, culturali e religiosi preesistenti, mentre altri partiti si sono impegnati con forza nello sviluppo di un proprio e specifico strumento organizzativo quanto più distinto e autonomo possibile da quelli esistenti nella società civile. Se consideriamo due canali, quello della organizzazione specificamente politico/elettorale e quello dell'organizzazione degli interessi, riscontriamo diverse forme di legame originario tra di essi (v. Rokkan, 1977).
Le prime organizzazioni politiche possono nascere senza appoggiarsi su gruppi organizzati del canale degli interessi, facendo in tal caso affidamento su estese reti di contatti professionali o di altro tipo. Questo è avvenuto là dove la precoce estensione del suffragio ha preceduto i decisivi processi di urbanizzazione e industrializzazione, come nella Francia del Secondo Impero e della Terza Repubblica o negli Stati Uniti. In questi casi, le forme di rappresentanza dominanti sono state di tipo territoriale e non facilmente convertibili in una struttura organizzativa centrale, talché la formazione di forti organizzazioni di massa si è rivelata in seguito molto difficile.
Un secondo modello è quello della precoce fondazione di organizzazioni politiche centrali a cui non corrisponde o si associa alcuna organizzazione specifica del canale degli interessi. Il classico modello del liberalismo e del conservatorismo britannici (e di molti altri paesi) procede dai caucus elettorali alle sezioni locali, dalle attività di registrazione degli elettori a quelle di campagna elettorale, di reclutamento di iscritti e di sviluppo organizzativo. Questo modello tende a organizzare il sostegno politico non lungo una singola e ben identificabile linea di frattura sociale, ma attraverso una serie di alleanze, nessuna delle quali acquista espressione visibile in organizzazioni di interessi strettamente alleate al partito. Questa modalità di sviluppo originario può essere associata ai partiti che crescono in contesti liberalizzati ma a suffragio ristretto.
Un terzo modello è il risultato di processi organizzativi che originano da reti diffuse, espressione di interessi corporativi o culturali. Inizialmente le organizzazioni di interesse offrono un sostegno contingente ai candidati, ma successivamente il rapporto tra organizzazione di interesse e organizzazione politica si fa sempre più di interdipendenza. Tale è l'esperienza della maggior parte dei partiti agrari, di quelli confessionali e di molti partiti socialisti. In questo caso la mobilitazione tende a procedere lungo un unico cleavage definito dalle preesistenti organizzazioni di interesse di cui il partito è la mano politica. Un caso ulteriore è quello di uno sviluppo parallelo di forme organizzative tanto nel canale politico quanto in quello degli interessi, con una relazione di mutuo sostegno e rafforzamento, e una rappresentanza che è più funzionale che territoriale, la quale ha luogo, anche in questo caso, lungo una ben definita linea di frattura sociale.
Il legame che alla fine si instaura può essere molto debole o del tutto assente. Può essere un legame in cui i gruppi di interesse sono visti come clientes dell'organizzazione partitica che scambiano sostegno mantenendo libertà negoziale; può trattarsi di un legame contingente, con alleanze e coalizioni più o meno strette basate su prossimità di interessi e similarità di obiettivi, ma prive di interpenetrazione organizzativa, ideologica e di personale; infine, il legame può essere di profonda interpenetrazione, con i due tipi di organizzazioni che si rafforzano reciprocamente sovrapponendo personale politico, iscritti, base di sostegno e attività collettive e giungendo, in alcuni casi, fino alla dipendenza di una organizzazione dall'altra.Il modello originario di origine interna/esterna, di diffusione/penetrazione organizzativa e di legame con le associazioni di interesse determina in modo decisivo i caratteri organizzativi del partito, la sua autonomia dall'ambiente che lo circonda e la coerenza strutturale interna della sua organizzazione, esprimibile in termini di autonomia dei sottosistemi, controllo più o meno centralizzato delle risorse, ecc.
c. Sviluppi istituzionali
Gli sviluppi istituzionali che scandiscono la nascita dei partiti sono l'allargamento del suffragio e l'istituzionalizzazione dei parlamenti e del governo responsabile. Il primo processo pone le condizioni per la formazione di un largo mercato elettorale e innesca quindi spinte competitive all'organizzazione di tale mercato con riflessi sensibili sulle strutture organizzative dei partiti politici. Il secondo processo prende il via dallo sviluppo della rappresentanza parlamentare non distorta (voto uguale e riduzione degli ostacoli istituzionali alla trasformazione dei voti in mandati parlamentari) e si conclude con il pieno riconoscimento della responsabilità parlamentare del governo e il collegamento istituzionale tra maggioranza parlamentare e potere governativo.
L'esempio più evidente del ruolo decisivo giocato dagli sviluppi istituzionali nella nascita dei partiti proviene dagli Stati Uniti, dove, in presenza di un suffragio di gran lunga più ampio che in ogni altro paese europeo e di un esecutivo elettivo, lo sviluppo organizzativo dei partiti fu particolarmente precoce. Gli storici americani dibattono sulla data di nascita dei partiti moderni nel loro paese; anche senza ricondurre tale data ai primi dell'Ottocento e al partito dei jeffersoniani, non vi è dubbio che negli anni 1820 e 1830 e in particolare durante l'era Jackson - quindi in grande anticipo anche rispetto agli sviluppi britannici - gli Stati Uniti presentavano già consolidate macchine elettorali, finalizzate essenzialmente alla canalizzazione del voto.
Tale sviluppo precoce dell'organizzazione elettorale è riconducibile alla grande 'democratizzazione' sociale e culturale ma anche politica, che aveva caratterizzato l'era di Jackson. Esso fu aiutato dall'entusiasmo politico che accompagnò l'elezione di quest'ultimo e che in 16 anni, dal 1824 al 1840, moltiplicò per sette la partecipazione elettorale, nonché dalle specifiche riforme politiche dei jacksoniani, come l'introduzione dell'elezione diretta degli elettori presidenziali, mentre prima i candidati alla presidenza erano scelti da conciliaboli del Congresso. Infine non va dimenticato che allo sviluppo e al consolidamento delle macchine elettorali americane contribuì in modo decisivo l'assenza di quelle riforme amministrative che in Europa avevano introdotto il reclutamento dei funzionari pubblici su base di merito o considerazioni di carriera. Tale assenza permise alle organizzazioni elettorali di fare dello spoil system uno strumento naturale di rafforzamento organizzativo e di canalizzazione del voto allo stesso tempo.
La natura e il ruolo che i partiti politici assumono nelle fasi storiche successive è plasmato in gran parte dagli sviluppi istituzionali iniziali. In quei paesi in cui la democrazia di massa ha avuto un'evoluzione graduale - all'interno di società caratterizzate da un preesistente elevato livello di pluralismo religioso, regionale, locale o ideologico - i gruppi politici si sono formati relativamente presto e l'aumento di potere delle istituzioni parlamentari ha contribuito ad avvicinarli ai centri di decisione politica. Quando nuovi gruppi e movimenti hanno iniziato a esercitare pressioni per essere rappresentati, lo sviluppo di forme di organizzazione esterne al parlamento è divenuta un'esigenza vitale e il processo di formazione dei partiti si è esteso, in un certo senso, dalle élites esistenti alla società, in un processo di ricerca competitiva di sostegno che ha lasciato spazio e ha permesso facile riconoscimento e legittimazione alle élites di altri gruppi sociali in espansione e organizzazione.
Al contrario, in quei paesi europei in cui forme e regimi autocratici prevalsero a lungo, lo sviluppo dei partiti presentò altri caratteri. Lo sviluppo dell'organizzazione dei partiti e il riconoscimento della loro legittimità incontrò grandi ostacoli. Le forze politiche tradizionali fecero sovente ricorso ad altre forze e istituzioni per contrastare lo sviluppo dei nuovi partiti e anche quando dovettero infine fare ricorso, almeno nominalmente, al processo elettorale per difendere la loro posizione, i partiti cui diedero vita furono sovente più il sintomo del potere di chi li aveva organizzati che non la sua base. In queste situazioni di 'difficile entrata', molti partiti - specialmente, ma non solo, della nuova sinistra di classe - svilupparono atteggiamenti di opposizione totale e rigetto del sistema, assumendo caratteri di opposizione ideologica i cui toni estremistici possono essere considerati insieme sintomo e conseguenza della loro debole posizione e mancanza di influenza (v. La Palombara e Weiner, 1966; v. Daalder, 1966).
d. Persistenza storica delle divisioni partitiche
Ancora oggi i paesi occidentali differiscono notevolmente per il carattere e l'intensità delle linee di cleavages che sono alla base del conflitto politico organizzato. In parte queste differenze sono dovute a fattori obiettivi, ma, per lo più, risultano dalle circostanze e dalla misura in cui certi cleavages come la classe o la religione sono stati politicizzati (v. Rose, Electoral..., 1974). In altre parole, gli obiettivi conflitti potenziali che emergono da certe cesure storiche si politicizzano e si cristallizzano in alternative partitiche non solo a causa di dati obiettivi inerenti alla struttura sociale, ma anche in funzione di autonomi sviluppi organizzativi e delle modalità con cui le soglie istituzionali di sviluppo del suffragio, di corretta rappresentanza parlamentare e di liberalizzazione del regime e dell'accesso al potere esecutivo modellano le strutture di opportunità dei movimenti politici. In questo modo, la storia specifica dei conflitti politici del passato ha continuato a esercitare una grande influenza sulle lealtà politiche del presente e sul modo in cui nuovi problemi - talvolta non connessi a quelli su cui le lealtà originarie si erano create - sono stati presentati e affrontati.
Dal punto di vista del numero e del tipo di cleavages storici su cui si fondano i principali allineamenti politici, i sistemi partitici occidentali sono estremamente diversificati. È possibile classificarli sulla base della complessità delle strutture dei cleavages che li caratterizzano. Vi sono sistemi partitici - sovente definiti 'omogenei' - nei quali particolari sviluppi storici hanno fatto sì che il sistema si strutturasse sulla base di un cleavage predominante - normalmente quello di origine economica - inerente ai conflitti produttivi e distributivi: caso esemplare è quello britannico. All'estremo opposto abbiamo, soprattutto sul continente, casi di multipartitismi che riflettono una sovrapposizione e una intersecazione di numerosi cleavages, alcuni dei quali di lontana origine preindustriale, come nei casi tipici dei Paesi Bassi, del Belgio e della Svizzera. Nei Paesi Scandinavi permangono tuttora segni profondi di antiche fratture politiche tra centro e periferia, che mantengono un'espressione politica istituzionalizzata nei partiti di origine agraria.
Appunto perché i partiti sono qualcosa che emerge dalle linee di frattura storica e che allo stesso tempo rafforza la natura e l'identità di queste ultime, si è potuto parlare di un 'congelamento' dei partiti europei secondo le linee di divisione che dominavano la competizione politica nell'epoca dello sviluppo del suffragio (v. Lipset e Rokkan, Cleavage..., 1967). Da questo punto di vista, il mutamento di lungo periodo dei partiti si può studiare in termini di attenuazione e perdita di rilevanza politica dei cleavages tradizionali e originari, di apparizione di nuovi cleavages, addirittura di rivitalizzazione di cleavages tradizionali o, in maniera più complessa, di interazione tra questi tre processi.
Negli sviluppi più recenti dei sistemi partitici europei si sono avuti sintomi di tutti questi processi. Alcuni paesi hanno visto una rinascita di conflitti tra centro e periferia, presentatisi talvolta come semplici richieste di autonomie locali e di riconoscimento di identità etnico-culturali diverse, oppure - come nel caso di Belgio, Gran Bretagna e Spagna - in maniera più profonda e dirompente con l'emergere di potenti movimenti autonomisti. In altri casi si è invece sottolineata la decrescente capacità di aggregare identità politiche di cleavages tradizionali come quello religioso - minato dalla progressiva secolarizzazione della società - e quello di classe - attaccato da profondi processi di differenziazione socio-professionale che tendono a sgretolare le identità di classe. Infine, molti osservatori hanno visto in nuovi movimenti, come quelli ecologisti e femministi, o in nuove istituzioni, come il Welfare State, la capacità di creare nuovi cleavages destinati, almeno in parte, a dar vita a nuovi partiti o almeno a mutare le dimensioni di conflitto che oppongono quelli di più antica data.
Già nel 1741 Hume avanzava una distinzione tra partiti d'interesse e di principio (affection), giudicando comprensibili e ragionevoli i primi e incomprensibili e deleteri quelli basati su principî astratti e speculativi (v. Sartori, 1976). Naturalmente il dibattito inglese di quel periodo, così come quello che si svolse nella Francia postrivoluzionaria, riguardava partiti che ancora non si differenziavano dalle antiche fazioni, costituiti da gruppi ristretti di élites, privi di ogni reale organizzazione e visti ancora come espressione delle contemporanee lotte ideali e spirituali intorno al bene comune. Bisogna attendere i processi di democratizzazione istituzionale e di modernizzazione socioeconomica della seconda metà dell'Ottocento per trovare un'attenzione maggiore alla forma organizzativa del partito politico. Le due opere fondamentali sull'organizzazione dei partiti di Ostrogorski (v., 1902-1903) e di Michels (v., 1911) diedero il via allo studio tipologico dei partiti nella loro forma moderna. Il primo analizzava accuratamente i partiti-macchina elettorale degli Stati Uniti e i partiti liberale e conservatore inglesi; il secondo si occupò del partito socialdemocratico tedesco, che costituisce il prototipo del partito classista di massa.
Sulla base di questi studi, Weber (v., 1922) propose alcune distinzioni di tipo ideale destinate ad avere in seguito un largo successo. Inserendo l'analisi del partito nella più ampia sociologia del potere nello Stato, Weber distingue i partiti di patronato - cioè tesi esclusivamente al conseguimento di una posizione di potenza per il loro capo e all'occupazione di cariche amministrative per i seguaci - dai partiti di classe o di ceto - che agiscono coscientemente nell'interesse di un gruppo sociale - e dai partiti ispirati a un'intuizione del mondo (ideologici, diremmo oggi), vale a dire organizzati in base a principî astratti relativi a una particolare visione del mondo e del suo futuro. Weber sottolinea per primo l'importanza delle modalità di finanziamento dei partiti per comprenderne la natura. Se i candidati sopportano il maggior peso delle spese elettorali, i partiti si configurano come plutocrazie dei candidati; se i fondi vengono invece da mecenati o gruppi industriali ed economici il partito si presenta come rappresentante di interessi specifici; infine, se il finanziamento è ottenuto attraverso l'apparato del partito, i candidati risultano dipendenti dai funzionari di partito.
Ancora più influente sulla riflessione successiva è la distinzione weberiana elaborata in un secondo tempo tra partiti di notabili e partiti di massa. Il primo tipo è caratterizzato da un personale politico che in base alla propria posizione economica autonoma si dedica all'attività politica in modo non professionale. I suoi membri si riuniscono solo periodicamente, in occasione delle elezioni, per preparare le liste dei candidati e la campagna elettorale. Il partito è organizzato sulla base di comitati elettorali e il rapporto tra esso e i ristretti gruppi di elettori non è basato su meccanismi di delega, ma sulla fiducia verso chi la pensa allo stesso modo. Il partito di notabili è, in definitiva, una sorta di associazione basata essenzialmente sugli strati borghesi e possidenti in una situazione di ristretta competizione elettorale.
I partiti di massa hanno invece una forte e articolata organizzazione con un personale politico professionale e a tempo pieno, che trae, cioè, il proprio sostentamento dalla politica stessa. Weber vede nei partiti di massa un altro esempio della prevalenza dei processi di razionalizzazione e burocratizzazione che caratterizzano insieme lo sviluppo sociale e democratico. L'organizzazione del partito di massa ricalca quella della burocrazia statale, presentandone gli stessi attributi: rapidità di decisione, uniformità, gerarchizzazione formale, disciplina e segretezza; attributi che ne fanno uno strumento politico molto più efficiente ed efficace dei partiti di notabili. Sotto la spinta della competizione da parte del partito burocratico di massa, anche i partiti di notabili di origine parlamentare devono sviluppare legami con organizzazioni di interessi esterne al parlamento, radicate nella società e ben organizzate.
Nelle categorie di Weber il partito è caratterizzato principalmente come strumento per il raggiungimento del potere e viene data poca attenzione alla funzione che esso svolge verso i membri e i gruppi sociali. A questo aspetto dà invece rilievo l'analisi di Sigmund Neumann (v., Modern..., 1956) che propone un'altra tipologia dei partiti politici, distinguendo tra partiti di rappresentanza individuale e partiti d'integrazione, suddividendo poi quest'ultima categoria in partiti di integrazione democratica e partiti di integrazione totale (o totalitaria). Il partito di integrazione individuale riecheggia i caratteri di quello di notabili di Weber; più innovativo è invece il contributo di Neumann nell'analisi dei partiti di integrazione. Il genere di rapporto che questo tipo di partiti stabilisce con i suoi membri è molto più impegnativo: esso implica non solo il finanziamento diretto attraverso l'iscrizione, ma anche l'influenza sulla vita quotidiana del militante, in quanto l'insieme delle organizzazioni e attività partitiche accompagna e coinvolge i suoi membri 'dalla culla alla tomba'. In altre parole, il partito di integrazione sociale si rivolge a gruppi sociali specifici, che cerca di mobilitare e incorporare nella vita del partito. La sua forma organizzativa caratteristica è quella delle organizzazioni ancillari, che sotto gli auspici del partito cercano insieme di rispondere agli interessi e di attrarre e legare al partito categorie specifiche di cittadini: donne, giovani, sindacalisti, cittadini alla ricerca di specifiche forme di ricreazione, ecc. Di fatto il partito mira a trasformare almeno tendenzialmente ogni elettore in un iscritto e ogni iscritto in un militante. Questi ultimi portano avanti il lavoro di educazione politica dell'elettorato effettivo e potenziale del partito, costituiscono manodopera senza costo e, in molti casi, si impegnano in programmi di assicurazione e in attività di assistenza e protezione legale.
Il partito di integrazione sociale è, in definitiva, una risposta politico-organizzativa allo sviluppo della politica di massa, che comporta la necessità di organizzare e mobilitare nuovi gruppi di elettori precedentemente esclusi dalla competizione politica, un compito rispetto al quale i tradizionali partiti di rappresentanza individuale risultano inadeguati. I principali prototipi del partito di integrazione democratica sono, per Neumann, i partiti socialisti e quelli religiosi, mentre i partiti bolscevichi e fascisti rappresentano il prototipo del partito di integrazione totalitaria. Si tratta di partiti nuovi rispetto alle formazioni emerse nella fase liberale del suffragio ristretto e della politica elitaria. La differenza che Neumann istituisce tra integrazione democratica e totalitaria non si riferisce, quindi, al carattere fondamentale del rapporto tra partito e società, ma piuttosto al livello di inclusività e al raggio di integrazione che i due tipi di partiti richiedono. Nel caso dei partiti di integrazione totalitaria questa implica una totale e incondizionata adesione al partito medesimo, che finisce per soffocare ogni relativa libertà di scelta e coinvolge tutti gli aspetti della vita sociale del membro e del cittadino.
La classificazione dei tipi di partiti viene in buona parte sistematizzata nel secondo dopoguerra dal lavoro di Duverger (v., 1951), che per molti aspetti riprende e riutilizza categorie elaborate precedentemente. Duverger riecheggia Weber e Neumann distinguendo i partiti in base all'origine interna o esterna al parlamento (v. § 2b) e al livello della partecipazione politica interna: partiti di quadri e partiti di massa, ma propone distinzioni più originali sotto il profilo della struttura organizzativa. Egli distingue, in primo luogo, tra partiti di massa a struttura diretta - basata su un'adesione individuale - e indiretta, quando la struttura organizzativa è costituita da una serie di associazioni - come sindacati, cooperative, mutualità, organizzazioni professionali, ecc. - che si sono unite in una organizzazione elettorale unica. In questo caso il membro del partito non è l'individuo, ma il gruppo sociale o professionale a cui egli appartiene e l'adesione collettiva è involontaria.Sono numerosi i partiti agrari, cattolici e socialisti di origine indiretta e alcuni di essi sono sopravvissuti fino a oggi - come i partiti laburisti britannico, norvegese e svedese - nonostante una generale tendenza di sviluppo che ha portato a una recisione dei legami istituzionali tra partiti e gruppi socio-professionali. Ma anche se tali rapporti non sono più istituzionali, rimane un forte legame tra il partito e le organizzazioni che gli hanno dato vita, come si riscontra nel caso del partito cattolico e socialista in Austria.
Altrettanto rilevante è la distinzione che Duverger opera tra i partiti a seconda degli elementi organizzativi di base su cui si fondano e delle conseguenze che essi hanno sulla loro natura: organizzazioni partitiche fondate sui comitati (o caucus), le sezioni, le cellule, o la milizia. La cellula costituisce storicamente l'unità di base organizzativa dei partiti comunisti. Per le sue ristrette dimensioni, la sua coesione sociale e l'assenza di contatti orizzontali tra unità, essa favorisce un notevole controllo sociale e la disciplina dei membri che la costituiscono, rivelandosi particolarmente adatta alla propaganda e alla mobilitazione politica a fini rivoluzionari di un gruppo sociale omogeneo e coeso. La sezione, invece, è l'unità di base tipica dei partiti socialisti europei. Essa ha base territoriale ed è quindi più aperta della cellula e anche più eterogenea socialmente. Di fatto, l'organizzazione incentrata sulle sezioni territoriali è stata adottata progressivamente da tutti o quasi i partiti politici, inclusi quelli comunisti le cui cellule si sono rivelate: 1) potenzialmente in conflitto con l'ambito di azione delle organizzazioni sindacali; 2) inadatte a far fronte alla crescente importanza del luogo di residenza rispetto a quello di lavoro; 3) incapaci di apertura e cooperazione con altri gruppi sociali e politici.
Il comitato costituisce per Duverger la base organizzativa di due tipi di partiti per altri versi distinti. Il carattere ristretto del comitato, la sua natura non espansiva, la sua composizione basata su una tacita cooptazione e il suo riferimento territoriale alla circoscrizione elettorale ne fanno un'unità che caratterizza sia l'organizzazione dei partiti di notabili dei regimi censitari, sia - anche se con alcune differenze - il tipo molto speciale dei partiti statunitensi. Questi ultimi sono alquanto diversi dalla generalità dei moderni partiti europei, in quanto da sempre privi di una struttura formale basata su una gerarchia di unità organizzative. Si tratta di alleanze di comitati elettorali locali, i cui organi centrali sono interessati e attivati essenzialmente per la propaganda elettorale e non controllano quindi la macchina del partito nel suo complesso. Il risultato è una disciplina partitica debole nei corpi legislativi e una linea di distinzione tra iscritti ed elettori resa incerta dal ricorso a processi elettorali aperti ai sostenitori (membri o no dei partiti) per la scelta dei delegati e dei candidati (v. Epstein, 1967).
L'ultima struttura di base che Duverger discute è la milizia, un'organizzazione privata a carattere militare, disciplinata e con una simbologia di uniformi e di insegne. Questa organizzazione segna il punto di rottura del partito con l'azione elettorale e parlamentare, e rappresenta quindi uno strumento tipicamente eversivo. Le organizzazioni di miliziani sono un'innovazione dei movimenti fascisti europei, anche se la milizia non è un principio organizzativo puro, poiché a essa si associano quasi sempre altre unità di base come la cellula o la sezione.
Questa classificazione delle basi organizzative viene sviluppata da Duverger prendendo in esame l'articolazione generale che le lega le une alle altre e con le organizzazioni centrali. Egli differenzia partiti ad articolazione forte o debole, prevalentemente verticale o orizzontale, centralizzata o decentralizzata. Quello di Duverger rimane ancora lo sforzo più sistematico per una tipologizzazione dei partiti secondo criteri organizzativi.
Tra i tentativi di ulteriore caratterizzazione è necessario citare quello di G. Almond, che attribuisce ai partiti la funzione di aggregare interessi articolati da altri gruppi e li distingue a seconda dello stile prevalente con cui adempiono tale funzione (v. Almond, 1956). I partiti possono essere orientati alla contrattazione pragmatica, aggregando interessi - rappresentati e combinati in quanto tali - in alternative politiche attraverso meccanismi di negoziazione e conciliazione. All'opposto idealtipico si colloca il partito Weltanschauung o ideologico, il cui stile di aggregazione si basa sulla definizione di fini ultimi e il cui programma non è il risultato dell'aggregazione, ma il punto di partenza per la sua ridefinizione e riconduzione alla Weltanschauung tipica del partito. La proposta di Almond si riassume in una contrapposizione tra pragmatismo e ideologia e sembra ricondurre - pur nelle mutate situazioni storiche - alla distinzione di Hume tra partiti di interesse e di principio, anche se va sottolineato l'interesse del legame stabilito da Almond tra questo fattore e le modalità di aggregazione degli interessi.
Un'ulteriore analisi tipologica del partito politico è avanzata da Kirchheimer, la cui tesi sul moderno partito pigliatutto ha avuto un notevole impatto sulla discussione politica successiva (v. Kirchheimer, 1966). La tesi di Kirchheimer può essere sintetizzata come segue: nella condizione contemporanea di diffusione di orientamenti sempre più laici, di consumo di massa e di offuscamento delle linee di divisione di classe, i partiti politici di massa sono soggetti a forti pressioni verso una trasformazione ideologica e organizzativa. In primo luogo, verso un'attenuazione, se non un abbandono, del tenore ideologico originario. In secondo luogo, verso un ulteriore rafforzamento dei vertici e della leadership dei partiti, in quanto tale leadership necessita di un'autonomia crescente dall'organizzazione partitica per ottenere l'allargamento del sostegno. In terzo luogo, e come conseguenza, verso un ridimensionamento del ruolo degli iscritti e degli attivisti. In quarto luogo, verso una tendenza a sottolineare meno il rapporto del partito con una specifica classe gardée o clientela particolare, in favore di un partito che tende a reclutare voti in tutti i settori della popolazione. Infine verso un'apertura crescente a una pluralità di gruppi di interesse autonomi rispetto al partito.
Il partito che emerge da questi sviluppi è per Kirchheimer un partito sempre più pragmatico, affidato all'immagine di massa dei leaders e alla politica dei media, socialmente più eterogeneo e aperto alla penetrazione da parte dei gruppi di interesse. Esso si adatta meglio agli imperativi della competizione politico-elettorale attuale. È importante sottolineare che la tendenza verso il partito pigliatutto rappresenta per Kirchheimer una modificazione strutturale della forma del partito politico. La trasformazione origina dalla necessità di adottare standard di selezione della leadership basati sempre più sulla conformità dei suoi valori al sistema di valori della società nel complesso e sempre meno, invece, sulla conformità al sistema dei valori predominante nell'organizzazione politica. Ciò ha poi un'influenza diretta sulla natura ideologica-organizzativa complessiva del partito.
L'analisi di Kirchheimer è ricca di ipotesi di sviluppo e ha stimolato la ricerca sulle trasformazioni strutturali e funzionali dei partiti nell'ultima parte di questo secolo. Nel suo solco altri contributi hanno identificato nuove tipologie di partito, enfatizzando uno o alcuni degli aspetti menzionati da Kirchheimer. Accentuando l'aspetto della professionalizzazione del personale partitico, del suo dominante orientamento verso l'elettorato, della sua crescente dipendenza dal finanziamento pubblico e del suo affidarsi alle issues e alla leadership indipendente a scapito dei rigidi profili programmatici, si sono coniati i termini di 'partito elettorale' o 'professionale-elettorale' (v. Panebianco, 1982) o di 'partito di cartello' (v. Katz e Mair, 1995), per indicare ulteriori evoluzioni del partito pigliatutto.
Questa rapida analisi evidenzia come la maggior parte degli autori abbia intravisto nelle proprie tipologie leggi di sviluppo storico a favore di un certo tipo di partito oppure fenomeni evolutivi di adattamento alle mutate condizioni dell'ambiente. Tuttavia, in nessuna fase storica si è verificata un'omogeneizzazione totale della natura dei partiti politici. Ogni fase ha lasciato sacche di resistenza e di rifiuto dietro di sé, contribuendo a rendere sempre più vario il panorama dei partiti politici occidentali. Ancora oggi, pur di fronte a una notevole standardizzazione nominale dell'organizzazione dei partiti e a un comune obbligo a ricercare il sostegno elettorale più vasto, troviamo tracce di partiti che sono eredi diretti dei partiti di notabili e di quadri (il 'giscardismo' francese); partiti che conservano strutture indirette (socialdemocrazie svedese e norvegese e laburismo inglese); partiti organizzati internamente secondo rigide compartimentalizzazioni etnico-linguistiche (in Belgio); partiti ancora di stretta Weltanschauung religiosa (partiti protestanti olandesi); partiti che mantengono forti caratteri del partito di integrazione di massa (i partiti austriaci).
I partiti si differenziano anche per il ruolo che svolgono nel sistema politico, in relazione ad altre istituzioni e sottosistemi di esso. Si usa sottolineare a ragione la grande quantità di attività che i partiti compiono. Tuttavia, è meno evidente il grado effettivo in cui essi controllano queste attività. Il problema ha una dimensione storica. I partiti hanno dovuto 'conquistare' la legittimità, il ruolo e il peso che gli vengono attualmente riconosciuti lottando contro altre istituzioni e gruppi, quali le monarchie, le élites tradizionali, le burocrazie civili e militari. Il processo storico che ha portato al riconoscimento del diritto all'esistenza dei partiti, alla loro rappresentanza nei parlamenti, al controllo dell'esecutivo e, infine, all'accesso diretto a esso e finanche alla penetrazione delle burocrazie statali, si è sviluppato con tempi e modalità diversi. In alcuni casi i partiti hanno accresciuto la loro presa e penetrazione del processo politico precocemente e senza incontrare grandi resistenze, integrando con successo sia le élites tradizionali che quelle dei nuovi gruppi che chiedevano accesso politico.
In altri, élites e istituzioni tradizionali sono rimaste all'esterno dei nuovi partiti politici, mobilitando contro di essi le loro risorse, ostacolando il loro sviluppo e minando in parte la loro capacità di soddisfare le richieste di rappresentanza politica di nuovi gruppi (v. Daalder, 1966). Questa permeazione partitica si può valutare attualmente in termini di controllo più o meno vasto e più o meno profondo dei processi del sistema politico (v. King, 1969). Bisogna concentrare l'attenzione non tanto sul partito - che svolge sempre un'infinità di attività importanti - ma sui processi del sistema nei quali il partito è coinvolto.
a. La strutturazione del voto
Il ruolo più importante tradizionalmente attribuito ai partiti è quello della strutturazione del voto. Naturalmente, i partiti sono per definizione gli attori della strutturazione del voto, in quanto partecipano alle elezioni. Le campagne elettorali hanno visto scomparire, salvo rare eccezioni, candidati 'indipendenti'. Ciononostante, quello che conta non è tanto che i voti vadano ai partiti e ai loro candidati, ma che il partito sia l'elemento principale di orientamento delle opinioni rispetto ad altre potenziali agenzie. Gli studi sul comportamento elettorale hanno mostrato che in tutti i paesi occidentali una larga parte dell'elettorato ha sviluppato profondi legami di identificazione con i partiti e vota per essi indipendentemente da altre considerazioni, quali la preferenza per un candidato o personalità politica o la rilevanza personale di uno specifico problema. Queste identificazioni partitiche sono rimaste a lungo stabili e si sono trasmesse da una generazione all'altra attraverso la socializzazione politica familiare (v. Converse, 1969).
Tuttavia la personalità individuale dei candidati gioca un ruolo importante soprattutto se il sistema elettorale - come in Francia e Gran Bretagna, negli Stati Uniti (e di recente in Italia) - prevede circoscrizioni uninominali. Se la percentuale di elettorato non identificato con i partiti è elevata, questi sono costretti a prendere chiaramente posizione sui problemi verso i quali questo elettorato mobile è più sensibile. In questi casi il voto, per quanto si esprima sempre necessariamente attraverso i partiti, è strutturato anche dai candidati e dalle issues, mentre per l'orientamento degli elettori può essere maggiormente determinante il ruolo dei mass media che quello del partito. Esistono differenze anche tra partiti in uno stesso sistema, determinate dalla diversità di densità organizzativa e presenza sociale. In definitiva, ogni elettorato nazionale o di partito è caratterizzato dalla sua composizione in termini di elettorato di identificazione ed elettorato mobile, che vota cioè in base a considerazioni di scelta contingenti (v. Parisi e Pasquino, 1977), e il peso relativo di questi gruppi influenza le scelte programmatiche e coalizionali dei partiti.
b. Integrazione-mobilitazione-partecipazione
Il ruolo giocato dai partiti rispetto alla integrazione politica ha contorni sfuggenti. È difficile valutare l'effettiva integrazione di cittadini e gruppi nell'ordine politico esistente, e ancora più difficile stabilire quale parte abbiano i partiti politici in questo processo. Per i processi di mobilitazione e partecipazione bisogna valutare in quale misura, nelle democrazie contemporanee, l'attività politica prende la forma dell'attività partitica: in quale misura, cioè, la partecipazione degli individui politicamente attivi avviene attraverso i partiti (v. Pizzorno, 1966; v. Verba e altri, 1978). Sotto l'impressione dei forti movimenti collettivi sviluppatisi sul finire degli anni sessanta si è dichiarata aperta una 'nuova politica'. Di fronte alla natura oligarchica e burocratizzata dei partiti tradizionali, al loro orientamento verso la mediazione istituzionale più che verso la rappresentanza espressiva e alla loro incapacità di offrire validi canali di partecipazione alle nuove domande, la 'nuova politica' sarebbe prevalentemente caratterizzata dall'attivismo di nuovi movimenti e gruppi spontanei più idonei dei partiti a soddisfare le esigenze di partecipazione dei cittadini (v. Inglehart, 1977; v. Hildebrandt e Dalton, 1978).
Indubbiamente la capacità di mobilitazione dei partiti risulta oggi meno forte che nel passato; a tal proposito occorre tuttavia ricordare: 1) che i movimenti collettivi costituiscono, dal punto di vista storico, un fenomeno ciclico, che nei momenti culminanti assume sempre natura antipartitica; 2) che i partiti sono istituzioni comparativamente tra le più aperte, con una soglia bassa di incorporazione al loro interno di gruppi di minoranze attive e consapevoli.
c. Reclutamento del personale politico
Il reclutamento del personale politico è forse l'ambito di attività in cui i partiti hanno sempre più accresciuto il loro peso fino a oggi. Se per personale politico si intende quello che occupa posizioni rappresentative, il controllo del processo elettorale da parte dei partiti si risolve in un quasi monopolio. Il discorso è più complesso per il personale governativo. Negli Stati Uniti - ma anche in paesi europei come la Francia, la Finlandia, i Paesi Bassi - raramente i ministri sono espressione dei partiti, giacché sono in varia misura reclutati da altri gruppi quali le élites economiche, i vertici burocratici, i tecnici e gli specialisti. Se nel processo di reclutamento si include anche la scelta di individui per posizioni né rappresentative né governative - alti burocrati, amministratori di imprese economiche nazionalizzate, giudici costituzionali - la valutazione della 'presa' dei partiti e il successo con cui essi penetrano le strutture di altre burocrazie attraverso l'influenza nella selezione del loro personale si fa ancora più complessa. Per un giudizio comparativo bisogna considerare due fattori: 1) il rapporto di successione storica tra sviluppo della burocrazia centrale, democratizzazione e sviluppo dei partiti; 2) le modalità di controllo del governo centrale.
Quando lo sviluppo delle burocrazie statali precede nettamente quello dei partiti, i tentativi di questi ultimi di assicurarsi il loro controllo sono frequenti. In paesi quali Francia, Germania prenazista, Austria asburgica e Danimarca, la burocrazia statale aveva sviluppato una forte indipendenza e legittimità che la collocava al di là e al di sopra dei partiti, garantendone non la neutralità, ma l'autonomia. I tentativi dei partiti di controllare tali burocrazie possono andare dall'istituzione dei gabinetti ministeriali tipici della Quarta Repubblica - composti da tecnici dell'amministrazione fedeli al partito del ministro, che facilitano con relazioni personali i contatti con una burocrazia chiusa e antipartitica - agli accordi proporzionali di divisione delle sfere di influenza su particolari servizi governativi (come in Austria e in Belgio). All'estremo opposto, si collocano quei paesi nei quali un'effettiva centralizzazione statale ha avuto luogo così tardi (e talvolta mai) che una burocrazia corrispondente all'idealtipo weberiano si è sviluppata soltanto successivamente ai (Stati Uniti, Gran Bretagna, Svizzera) o in concomitanza con i processi di liberalizzazione politica (Paesi Bassi). Ciò ha reso meno conflittuale il rapporto tra partiti e burocrazia statale e ha legittimato il principio del controllo politico su quest'ultima (v. La Palombara e Weiner, 1966; v. Dahl, 1966).
La seconda variabile è la modalità di funzionamento dell'esecutivo. Se tutti i partiti hanno eguali facoltà e possibilità di partecipare al governo, gli sforzi tesi a penetrare la burocrazia hanno modalità diverse rispetto ai casi in cui il controllo dell'esecutivo è appannaggio esclusivo e permanente di alcuni partiti. In Gran Bretagna la forte immunizzazione del civil service da nomine politiche e la tradizione di servizio leale verso il governo del momento è fenomeno certamente favorito dalla alternanza al potere dei partiti, che riduce i vantaggi della penetrazione politica della burocrazia. Per converso, la modalità italiana del 'sottogoverno' come appoggio e premio per i partiti governativi nasce ed è favorito dalle condizioni di monopolio dell'esecutivo da parte di detti partiti per circa mezzo secolo.
Peraltro, nel rapporto tra partiti e burocrazie pubbliche va sottolineato uno sviluppo paradossale. Nel dopoguerra, l'estensione dell'intervento statale in tutti i campi ha favorito la crescita delle burocrazie governative e paragovernative, il loro avvicinamento ai gruppi di interesse specializzati e il conseguente aumento della loro autonomia decisionale. Tale espansione ha allargato l'ambito potenziale di penetrazione dei partiti, aumentandone le possibilità di spartizioni politiche. Allo stesso tempo, tuttavia, molti processi decisionali sfuggono al controllo dell'esecutivo e all'influenza partitica, riproponendo il problema del controllo politico delle burocrazie.
d. Aggregazione degli interessi e delle domande
Un'ulteriore, importante funzione attribuita ai partiti politici è quella dell'aggregazione in politiche e programmi generali degli interessi e delle domande che emergono dalla società. La logica elettorale espansiva del partito e la sua dipendenza dalla competizione elettorale dovrebbero garantire la sua sensibilità alle domande dei cittadini, facendone l'unica struttura in grado di svolgere democraticamente questo compito. Anche in questo caso si è parlato di crescenti difficoltà dei partiti dovute alla trasformazione del conflitto politico nelle società postindustriali. Mentre i conflitti del periodo di strutturazione della politica di massa concernevano beni collettivi e si basavano su comportamenti politici determinati da forti identità e forme di partecipazione aspecifiche, quelli attualmente prevalenti sono caratterizzati da interessi organizzati sulla base di calcoli molto specifici. Si tende alla rappresentanza organizzata di interessi ristretti per ottenere soddisfazione a domande sezionali articolate autonomamente. I fini di questi gruppi tendono a essere troppo particolaristici, mentre le solidarietà collettive più vaste risultano eccessivamente deboli perché i partiti riescano ad aggregarli con successo. In effetti, in tutti i paesi occidentali si assiste a una forte crescita di organizzazioni di interesse specializzate e allo stesso tempo a una tendenza a un allentamento dei legami tra partiti e gruppi di interesse (v. Schmitter, 1976). Questo allentamento risulta dagli sviluppi sia dei gruppi di pressione che dei partiti. I primi attenuano tali legami per mantenere migliori rapporti con governi multipartitici, per aver accesso presso agenzie burocratiche, per non danneggiare la loro rappresentatività, per ricorrere ad azioni 'dirette' piuttosto che mediate dai partiti. I partiti preferiscono proiettare immagini più generali e orientate all'elettorato globale rispetto a quelle di difesa di interessi specifici e tendono a preferire legami rappresentativi ad hoc a rapporti organici.
e. Formazione delle politiche pubbliche
Strettamente legato al problema delle capacità aggregative dei partiti è quello del loro ruolo nella formazione delle politiche pubbliche. Il problema è valutare l'influenza delle posizioni programmatiche dei partiti sui programmi dei governi e sulle politiche da questi messe in atto. Alcune differenze sono imputabili a fattori istituzionali e coalizionali. Nei sistemi presidenziali o semipresidenziali il programma del governo è quello di un presidente dotato di legittimità autonoma. Nei sistemi parlamentari, in cui il governo è sostenuto da una maggioranza monopartitica, tale partito ha maggiore capacità di influenzare le politiche governative, anche in caso di notevole autonomia del premier. Per converso, i programmi di ampie ed eterogenee coalizioni sono il risultato di lunghe contrattazioni tra i leaders principali e la loro messa in atto è meno diretta e soggetta a controversia.Tuttavia, il problema della capacità dei partiti di influenzare il policy making va oltre il rapporto tra posizioni programmatiche e politiche del governo, e investe alle radici la capacità dei primi di avere una qualche influenza sul secondo. Si è infatti già rilevato che tali scelte sono sempre più determinate dai vincoli della crescente interdipendenza internazionale, da influenze economiche di breve periodo e dal consenso dei gruppi che effettivamente controllano le risorse per il successo delle politiche (v. Lehmbruch, 1979; v. Rokkan, 1975). Se lo sviluppo di programmi coerenti è reso difficile dalle citate difficoltà di aggregazione elettoralmente remunerativa, la messa in atto degli stessi è ancora più difficile. L'era dei programmi di medio o lungo periodo è in questo senso definitivamente tramontata (v. Castles, 1982; v. Calise, 1992).
Fino ad ora abbiamo assunto che il partito costituisca un'unità coesa e agisca come tale, che sia, cioè, un attore unitario. Questa semplificazione è utile per molti approcci teorici e valida in molte circostanze, ma si rivela indifendibile in altre. Bisogna quindi addentrarsi nei processi decisionali interni, concependo il partito come un insieme di gruppi politici, di strati e di istituzioni in interazione sovente conflittuale. Da questo punto di vista non è importante il modello organizzativo formale del partito, ma l'insieme delle linee di conflitto reale al suo interno, che ne determinano i processi di decisione.
È difficile trattare questi problemi da un punto di vista generale, vista la grande varietà di situazioni e la natura spesso 'opaca' dei conflitti interni ai partiti. Per questo motivo è bene fare riferimento a tre dimensioni fondamentali di conflitto potenziale all'interno dei partiti. La prima è quella che oppone il modello del partito degli eletti al modello della democrazia di partito; la seconda quella che oppone il partito come organizzazione centrale al partito come organizzazione locale; la terza quella che oppone il partito coeso al partito frazionalizzato.
La prima dimensione di conflitto riguarda quei processi e quelle tensioni che nascono dalle esigenze, spesso contrastanti, del duplice ruolo del partito: da una parte, forza istituzionale che forma e garantisce maggioranze parlamentari e coalizioni governative (partito parlamentare degli eletti); dall'altra, organizzazione 'privata' degli iscritti, cioè di cittadini che, senza alcuna responsabilità politica individuale, aspirano a influenzare le scelte dell'organizzazione di cui fanno parte (partito-organizzazione degli iscritti).
A livello ideologico la contrapposizione è tra due modelli di responsabilità politica e di democrazia. Il modello del partito parlamentare degli eletti implica che i leaders e i rappresentanti godano di un'ampia libertà di azione in considerazione delle loro prerogative ed esigenze politico-istituzionali. Essi devono il loro mandato costituzionale agli elettori e non agli iscritti; sono responsabili per la stabilità e la continuità del governo e del processo legislativo; non possono rimandare al partito ogni decisione da prendere, soprattutto quando lavorano in coalizione con altri partiti e sotto la pressione di circostanze in rapido mutamento. Il modello della democrazia partitica implica invece la responsabilità diretta di leaders ed eletti di fronte agli organi del partito e agli iscritti: essi, di fatto, devono la loro elezione alla selezione, alla nomina e all'appoggio del partito; devono mettere in atto la linea e le politiche da esso decise e consultarlo prima di modificarle; devono sottostare a regolari procedure partecipative e non a periodiche attribuzioni plebiscitarie di responsabilità (v. Michels, 1911; v. Eldersveld, 1964; v. Barnes, 1967; v. Wright, 1971).
Dietro queste opposte concezioni stanno tensioni reali che mettono di fronte diversi strati dei partiti: dai parlamentari ai leaders dell'organizzazione ai militanti agli elettori. I livelli di partecipazione interna ai partiti in grado di innescare e acutizzare tali tensioni variano da periodo a periodo. Nella fase costitutiva dei moderni partiti di massa prevaleva la sottomissione dei rappresentanti parlamentari al programma e al partito, anche se ciò era fonte di continui conflitti. Gli sviluppi recenti hanno contribuito a porre diversamente il problema. Da una parte si è avuta una vasta parlamentarizzazione delle leaderships partitiche, talché oggi è impossibile distinguere i due gruppi. Dall'altra, l'attenuarsi delle tensioni ideologiche (v. Thomas, 1975) ha ridotto la quantità e l'intensità della partecipazione interna ai partiti e la rilevanza funzionale delle attività svolte dagli iscritti (v. cap. 4).
Rimane il fatto che le leaderships parlamentari presentano orientamenti ideologici attenuati dalla necessità di attirare voti da settori esterni al partito e dal realismo derivante dalle ripetute esperienze dei limiti amministrativi e dei negoziati politici connessi con la partecipazione governativa. Al contrario, quadri e attivisti hanno profili ideologici più marcati e atteggiamenti meno accomodanti. Si aggiunga che la caduta della partecipazione partitica ha accentuato la non rappresentatività dei militanti rispetto all'elettorato complessivo, aumentando il peso degli esponenti delle classi medie, con elevati livelli di istruzione, disponibilità di tempo per l'impegno politico e minore radicamento nei gruppi professionali e produttivi. Di fronte a elettorati partitici con un'ideologia nettamente meno strutturata di quella dei militanti e un minore interesse verso la politica, è possibile che i ciclici aumenti di partecipazione e di ruolo decisionale della base militante riducano la rappresentatività del partito rispetto al suo elettorato, con esiti elettorali talvolta catastrofici (v. Rose, 1974), come hanno testimoniato, negli anni settanta-ottanta, le esperienze del laburismo britannico, del socialismo olandese e della socialdemocrazia tedesca (v. Raschke, 1977).
La seconda dimensione di conflitto (centro-periferia) ha, almeno originariamente, natura gerarchica, e oppone le esigenze del centro di coordinare la politica con fini nazionali, a quelle della periferia, di garantire maggiore autonomia e aderenza alle condizioni locali. La misura in cui i processi decisionali e di nomina sono più o meno centralizzati dipende in parte da variabili istituzionali esterne al partito, in parte dal suo modello organizzativo interno. In un sistema elettorale basato su circoscrizioni uninominali, la scelta dei candidati è maggiormente condizionata, rispetto a quanto avviene nel caso delle grandi circoscrizioni e dei sistemi di lista, dal gradimento e dalla notorietà locale del candidato, fattore di cui è miglior giudice il partito a livello periferico. Se il governo locale è dotato di ampie autonomie, la necessità di affrontare situazioni particolari rispetto a quelle del centro nazionale e problemi a carattere territoriale e di rappresentanza 'esterna' può portare alla ricerca di soluzioni coalizionali difformi da quelle perseguite a livello centrale.
Per quanto riguarda il modello organizzativo, la tradizione dei partiti di integrazione sociale e di massa implica un controllo centrale abbastanza stretto sulla politica locale del partito, controllo che, per quanto percepito come legittimo dai membri stessi del partito, provoca sovente tensioni interne. Questi problemi sono minori nei partiti di rappresentanza individuale, in cui gli iscritti giocano tradizionalmente un ruolo meno rilevante. In molti casi, tuttavia, è bene distinguere tra l'autonomia locale di un partito derivante dal ruolo della sua organizzazione nei processi politici locali e l'autonomia derivante dall'indipendenza di leaders locali dotati di risorse autonome, da una posizione, cioè, a carattere notabiliare.
La terza dimensione di conflitto potenziale, la divisione in frazioni, è quella più frequente e di maggior rilievo per i processi decisionali interni ai partiti. Essa interseca le due precedenti dimensioni e caratterizza il partito a tutti i suoi livelli. I conflitti di gruppo possono essere la base e lo strumento della circolazione delle élites, influenzare la percezione del partito da parte dell'elettorato, determinare la vita delle coalizioni parlamentari, addirittura surrogare in parte, nei sistemi a partito predominante e in quelli a coalizioni bloccate, la mancanza di effettiva alternanza governativa.
Naturalmente, riconoscere che l'interazione competitiva e il conflitto tra gruppi è alla base della vita dei partiti non equivale a dire che anche il frazionismo e le correnti lo siano. Anzi, sotto il profilo normativo queste ultime sono percepite come una degenerazione patologica e disfunzionale del primo. I gruppi interni ai partiti si distinguono tradizionalmente in base ai loro obiettivi principali e alle loro caratteristiche strutturali in frazioni ideologiche (o tendenze) e frazioni di potere (o fazioni). La distinzione analitica si scontra nella realtà con situazioni miste e con fenomeni di camuffamento dei fini, data la scarsa legittimità dei conflitti di potere rispetto a quelli ideologico-politici, ma si possono avanzare i seguenti criteri. Le tendenze ideologiche sono caratterizzate da un orientamento politico programmatico e dalla difesa di politiche e interessi di gruppi esterni al partito, dall'esistenza di un insieme stabile di atteggiamenti politici e ideologici sovente radicati nella tradizione storica del partito. Esse non corrispondono necessariamente a un gruppo di individui precisi, ma a una serie di predisposizioni politiche permanenti su un ampio arco di politiche e in genere non hanno forte coesione e organizzazione. All'opposto, le frazioni - o correnti - sono orientate primariamente alla ricerca del potere per i leaders e degli uffici per i seguaci, sono permanenti e relativamente coese, altamente organizzate, talvolta con uffici, organi di stampa e agenzie di informazione e di studio propri. Tra questi due tipi estremi - almeno in termini di fini, coesione e organizzazione - si colloca la grande varietà di frazioni partitiche (v. Sartori, 1973).
Il frazionismo ideologico è per tradizione più forte nei partiti programmatici della sinistra e in quelli di ispirazione religiosa. L'accento sui fini sociali ed economici, l'enfasi su una concezione partecipativa della democrazia e il riferimento a teorie generali dello sviluppo sociale hanno dato vita a perenni divisioni sugli obiettivi finali e sulle strategie e le tattiche per raggiungerli. Inoltre, per certi partiti di massa della sinistra o cattolici, il frazionismo ideologico ha talvolta origine in quello organizzativo, nel fatto che certi gruppi di interesse sono rappresentati più o meno formalmente all'interno del partito. Al contrario, i partiti di origine 'borghese', meno partecipativi, più individualisti e caratterizzati da minor enfasi programmatica, sono meno soggetti a una profonda frammentazione. Un'alta conflittualità ideologica può paralizzare il partito, fornirne un'immagine negativa presso l'elettorato e anche ridurne la capacità di mobilitazione politico-elettorale, nonché indebolirne in generale la leadership. Tuttavia, questi conflitti interni sono anche visti come il mezzo per garantire la democrazia e la partecipazione interne al partito.
Nonostante l'importanza dei conflitti di natura ideologico-politica, l'attenzione si è concentrata sul fazionismo di potere per gli effetti negativi a esso attribuiti. In Italia il fenomeno ha radici e diramazioni profonde e per spiegare la degenerazione di originari conflitti ideologico-politici in lotte di potere personale e di gruppo si sono sottolineati aspetti inerenti ai partiti stessi - quali l'eterogeneità del sostegno sociale, le regole organizzative che incentivano e premiano in termini di spoglie l'organizzazione di fazioni - o inerenti al sistema politico generale - quali la permanenza al potere dello stesso partito o coalizione per lunghi periodi di tempo, l'arretratezza di certe situazioni locali, le opportunità degenerative offerte alle ambizioni dei leaders dalla penetrazione partitica nell'amministrazione e nel sistema economico (v. D'Amato, 1965; v. Sartori, 1973; v. Zuckerman, 1975). Tra le conseguenze negative del fenomeno vi è la diminuita capacità di coordinamento del partito come attore unitario, e la minore stabilità della leadership e dei governi. Inoltre, l'accesso autonomo delle fazioni alle fonti di finanziamento provoca facilmente degenerazioni clientelari e corruzione. D'altra parte non va dimenticato che il fazionismo presenta anche vantaggi dal punto di vista del partito, soprattutto per quanto riguarda l'organizzazione del sostegno elettorale e la soddisfazione delle ambizioni di leaders e seguaci.
Per concludere si consideri che le tre dimensioni dei conflitti interni - partito-eletti versus partito-membri, centro versus periferia, e frazionismo/fazionismo - si intersecano nella vita politica quotidiana del partito. Frazioni di vario tipo possono avere basi locali specifiche e, quindi, presentare le loro rivendicazioni anche in termini di scontro con il centro. Conflitti tra leadership politico-parlamentare e organizzazione dei membri possono essere incentivati da frazioni esterne o poco rappresentate nella prima.
Il sistema partitico è il risultato delle interazioni competitive tra le unità che lo compongono. Esso è definito quindi dalle parti che lo costituiscono, ma, allo stesso tempo, il modello di interazione tipico del sistema influenza la natura e il comportamento delle sue singole unità. In questo senso il sistema partitico è caratterizzato da proprietà che non appartengono alle unità partitiche singolarmente considerate (v. Sartori, 1976). Vanno dunque identificati i diversi modelli di interazione e le loro caratteristiche. Un tentativo di sistematizzazione può dividere gli studi sull'argomento a seconda dell'approccio usato e delle dimensioni prese in considerazione. Tratteremo quindi in successione gli approcci morfologici e quelli basati sulla competizione spaziale.
Le interazioni tra partiti dipendono in primo luogo dal numero delle unità interagenti, che indica il livello di complessità del sistema e quello di concentrazione-dispersione del potere al suo interno. La distinzione più antica oppone i sistemi bipartitici a quelli multipartitici. Sulla scia delle esperienze anglosassoni, la competizione elettorale tra due partiti con ambizioni governative è stata considerata un modello ideale perché: 1) massimizza la capacità degli elettori di determinare attraverso il voto chi governa e, quindi, di penalizzare chi governa male; 2) spinge i partiti ad adottare linee politiche realistiche e moderate per attrarre l'elettorato collocato al centro; 3) favorisce un'opposizione responsabile e pragmatica, poiché quest'ultima è consapevole di poter costituire, a breve termine, un governo alternativo. In altre parole, il bipartitismo pone le condizioni per processi politici caratterizzati da elevate aspettative di alternanza, proponendo altresì maggioranze governative coese e che si assumono nette responsabilità politiche per la gestione della cosa pubblica.
A questo modello si è contrapposto quello negativo del multipartitismo, largamente desunto dai caratteri storici della Repubblica di Weimar, della Terza e Quarta Repubblica francese e dell'Italia pre- e postfascista. I suoi caratteri sono: 1) coalizioni multipartitiche estese ed eterogenee, risultato di lunghe consultazioni postelettorali e, quindi, non determinate direttamente dal voto degli elettori; 2) conseguente maggiore instabilità governativa; 3) difficile attribuzione da parte dell'elettore di meriti e responsabilità politiche; 4) stile politico esoterico derivante dalla complessa dinamica interattiva tra un numero elevato di attori; 5) nessun premio alla moderazione e al pragmatismo, ma incentivazione dello scontro ideologico per la caratterizzazione del proprio profilo politico (v. Duverger, 1951; v. Almond, 1956).
Questa netta contrapposizione tra bipartitismo e multipartitismo non ha tenuto alla verifica comparata. Da una parte, il bipartitismo puro si è rilevato caso così raro da configurarsi più come un'eccezione che come un modello. Anche per la Gran Bretagna - patria e prototipo delle caratteristiche positive del bipartitismo - tale caratterizzazione vale se si applicano regole di conteggio dei partiti basate sulla loro rilevanza sostanziale e non sulla loro mera esistenza e partecipazione alle elezioni. Infatti vi sono sempre stati partiti minori, schiacciati dalla legge elettorale maggioritaria uninominale. Il bipartitismo è dunque formula non di conteggio dei partiti, ma di interazione tra i partiti principali, quelli che hanno un impatto di rilievo sulla formazione delle maggioranze e dei governi. Nello studio della morfologia dei sistemi di partito non è quindi utile contare i partiti esistenti, bensì prendere in considerazione i partiti che 'contano', i partiti rilevanti sotto il profilo sistemico a causa del loro potenziale di coalizione o di ricatto (v. Sartori, 1976 e 1982).
Altrettanto si può dire della categoria del multipartitismo, che si applica a una varietà tale di casi da scoraggiare ogni generalizzazione riguardo al suo impatto sul sistema politico complessivo. Le differenze nella modalità di competizione tra sistemi a 3 o a 10 partiti possono essere di grande rilievo. Inoltre, il criterio numerico trascura l'influenza della forza elettorale. Il funzionamento e gli effetti di due sistemi pentapartitici, il primo dei quali presenta una distribuzione uguale delle forze elettorali mentre il secondo ha un partito che da solo è più forte degli altri 4 presi insieme, sono sicuramente molto diversi.
Per superare questo problema si sono introdotti criteri di analisi che prendono in considerazione il fattore della distribuzione delle forze insieme a quello del numero delle unità in competizione. Si è cercato di classificare i sistemi partitici a seconda della distanza, espressa in punti percentuali, che separa il partito più forte dalla maggioranza assoluta, il secondo partito dal primo, il terzo dal secondo e così via; oppure attraverso la somma dei voti dei partiti in ordine di forza decrescente; o, infine, attraverso il rapporto tra il partito più grande e gli altri (v. Lijphart, 1968). A questi tentativi Rae (v., 1971²) ha dato un contributo importante, sviluppando un indice di frammentazione del sistema partitico - misurabile sia a livello parlamentare che elettorale - che riassume in una misura unica variante da 0 a 1 queste due dimensioni. L'indice di frammentazione di Rae ha valore 0 nella situazione in cui tutti i seggi parlamentari (o tutti i voti, se lo si applica ai risultati elettorali) vanno a un solo partito, e valore 1 se ogni parlamentare (o ogni elettore) rappresenta un partito diverso. Questi sforzi di concettualizzazione e misurazione hanno introdotto ulteriori differenziazioni nella vasta ed eterogenea categoria del multipartitismo, distinguendo al suo interno diversi livelli di frammentazione e varie configurazioni di distribuzione delle forze con profonde implicazioni sulla dinamica del sistema partitico.
L'originaria opposizione tra bi- e multipartitismo è stata criticata e rivista non solo per le sue inadeguatezze descrittive, ma anche per quanto riguarda il suo orientamento normativo a favore del bipartitismo, visto come ideale di rendimento e funzionalità democratica. L'allargamento della ricerca comparata a paesi europei trascurati - i Paesi Scandinavi in particolare (v. Rustow, 1956) - ha messo in luce che esistono casi storici di multipartitismo estremo in paesi il cui sviluppo politico democratico è stato progressivo, senza scosse e crolli, e la cui vita politica non presenta i tratti negativi attribuiti alla frammentazione estrema dei partiti. Ciò ha reso necessario integrare i criteri numerici con altre dimensioni di analisi, per rendere conto delle diverse modalità di funzionamento di sistemi che sotto il profilo della frammentazione partitica sono simili.
Una scuola di pensiero ha attribuito il diverso rendimento dei multipartitismi funzionanti (in generale le piccole democrazie europee) e di quelli immobilisti (i casi sopra richiamati), al carattere più o meno omogeneo della cultura politica del paese. Alcuni sistemi multipartitici hanno come base culture politiche omogenee rispetto ai fondamentali valori democratici e alle regole del gioco, mentre altri sono caratterizzati da profonde fratture e discontinuità nella cultura politica proprio su questi temi. Nei primi, la frammentazione del sistema non crea gli effetti di instabilità e immobilismo riscontrati invece nei secondi (v. Almond, 1956).
Tuttavia, l'interpretazione centrata sull'omogeneità e la secolarizzazione della cultura politica non si è mai attagliata all'esperienza di paesi come la Svizzera, i Paesi Bassi e il Belgio, caratterizzati dalla presenza di 'multipartitismi funzionanti', ma privi di culture politiche omogenee e secolarizzate ed anzi storicamente contraddistinti da profonde divisioni subculturali a carattere religioso, etnico e localistico, nonché dalla persistente presenza di cleavages di origine preindustriale. Questi casi hanno fatto riflettere su altre caratteristiche importanti per comprendere il rapporto tra formato del sistema partitico e rendimento democratico, e che fanno riferimento alla natura e alla profondità di certi cleavages tradizionali di tipo culturale (religione, lingua, etnia), all'organizzazione e coesione delle rispettive subculture e alla conseguente capacità delle élites partitiche di sviluppare atteggiamenti di cooperazione, compromesso e negoziazione. In altre parole, in questi sistemi caratterizzati dall'etichetta di democrazie consociative (v. Lorwin, 1966; v. Lijphart, 1969) il multipartitismo non è espressione di frammentazione politico-ideologica, ma risulta da una segmentazione culturale avente antiche radici che spiega in buona parte la maggiore moderazione e cooperazione tra le élites politiche rispetto ai sistemi frammentati lungo linee prevalentemente ideologiche.
Infine, nell'ambito di una più vasta e sistematica trattazione dei sistemi di partito, Sartori (v., 1976 e 1982) ha proposto una distinzione qualitativa del variegato insieme dei multipartitismi basata sull'introduzione di una dimensione diversa: la distanza ideologica che separa i partiti in competizione (o polarizzazione). Incrociando il numero delle unità in competizione e la distanza ideologica tra di esse la sua tipologia produce due tipi di sistemi multipartitici: quello moderato e quello polarizzato, caratterizzati rispettivamente da un numero medio-basso di partiti (fino a circa 5) e da una bassa distanza ideologica, e da un numero elevato di partiti (superiore a 6) e da una forte distanza ideologica. Le modalità di funzionamento di questi due tipi risultano estremamente diverse. Mentre il pluralismo moderato si assimila al bipartitismo per la sua competizione partitica bipolare, tendenzialmente centripeta e quindi moderante, quello polarizzato è caratterizzato da una competizione multipolare e centrifuga, da coalizioni centriste bloccate, da opposizioni bipolari, da difficoltà di alternanza governativa, da tendenze a un governo e un'opposizione che non si comportano responsabilmente verso gli elettori, il cui voto non è elastico date le profonde diversioni del sistema.
La morfologia dei sistemi partitici può essere infine caratterizzata secondo criteri dinamici o coalizionali. Dal punto di vista della loro dinamica elettorale alcune tendenze temporali di rilievo sistemico riguardano: 1) la frammentazione del sistema - nel senso di una tendenza all'aumento o alla diminuzione del numero dei partiti; 2) la concentrazione dei voti su alcuni partiti, che acquista rilievo quando i mutamenti elettorali indicano tendenze di competizione centrifuga, che aumentano la forza dei partiti estremi, o centripeta, cioè di rafforzamento elettorale dei partiti centristi e moderati; 3) l'aumento o la diminuzione della volatilità nel sostegno elettorale e nella presenza dei partiti (v. Bartolini e Mair, 1990), con sistemi partitici che tendono alla stabilità nel tempo e altri caratterizzati dalla crescente instabilità (partiti flash; scomparsa di vecchi e nascita di nuovi partiti).
Quando lo si osserva sotto il profilo delle dinamiche coalizionali, il sistema partitico si presenta come strumento di produzione di maggioranze parlamentari e coalizioni governative (v. Pappalardo, 1978; v. Motta, 1992). La prima e ben nota dinamica è quella dell'alternanza al potere tra due partiti o tra due blocchi elettorali, secondo l'esperienza classica inglese e più recentemente francese. Una situazione di semi-turnover si verifica quando le coalizioni si alternano con un ricambio solo parziale, con qualche partito centrale che si mantiene costantemente nella posizione di perno della coalizione. Nella Germania Federale l'alternanza avviene tra socialdemocratici e democristiani, ma è determinata dal cambiamento di orientamento del piccolo partito di centro liberale. Una terza modalità è quella definita di ricambio periferico, situazione in cui le coalizioni governative vedono la permanenza continua di alcuni partiti di centro e un ricambio di alleati periferici. È il caso dell'Italia e dei Paesi Bassi, dove il ruolo di perno del ricambio periferico è svolto dai partiti di ispirazione religiosa. Un quarto modello, che potremmo definire di totale libertà coalizionale, è quello in cui tutti i partiti principali possono entrare in coalizione l'uno con l'altro, senza che esistano allineamenti privilegiati e bloccati, come è avvenuto tipicamente nella recente storia politica del Belgio.
Una situazione ancora diversa è quella della grande coalizione, cioè di coalizioni caratterizzate da una forza elettorale elevatissima e nettamente superiore a quella necessaria per raggiungere la maggioranza assoluta. Tali coalizioni hanno caratterizzato per lunghi periodi la Germania e l'Austria, e a tale modello sono riconducibili gli 'arrangiamenti proporzionali' tipici del sistema politico svizzero. Infine, citiamo il caso in cui un partito da solo è in grado di ottenere una maggioranza assoluta dei seggi e si trova opposto a una serie di partiti che solo alleandosi tutti insieme possono sperare di raggiungere la maggioranza. Questa configurazione ha a lungo prevalso nei sistemi partitici irlandese, svedese e norvegese.Riassumendo, l'approccio morfologico ai sistemi di partito si è venuto arricchendo di dimensioni ulteriori rispetto all'originario criterio numerico, e la domanda di fondo è stata riformulata nel modo seguente: in quali condizioni, in quale misura e in quale direzione il numero dei partiti in competizione, la loro distribuzione di forze e le modalità di aggregazione di tali forze influenzano il modo in cui il sistema partitico svolge le sue funzioni in un regime democratico? Per rispondere adeguatamente a tale quesito bisogna prendere in considerazione un altro approccio alla problematica dei sistemi di partiti: quello dei modelli di competizione spaziale.
I modelli di competizione spaziale originano da un'analogia tra la competizione economica di mercato e la competizione partitica (v. Downs, 1957). Essi prendono le mosse da una serie di postulati concernenti gli attori. Partiti e leaders appaiono in qualità di imprenditori che calcolano razionalmente le loro strategie di massimizzazione dei voti scegliendo i programmi a questo fine; gli elettori sono i consumatori che scelgono i partiti attraverso il voto, valutandone la prossimità alle proprie posizioni politiche. Entrambi sono, dunque, privi di ogni vincolo extra-razionale, quali quelli derivanti da adesioni e solidarietà di tipo emotivo, tradizionale e ideologico. Ciò permette di rappresentare la competizione partitica in termini spaziali, come ricerca di posizioni di massimo profitto in termini di voti su un continuum che rappresenta uno spazio comune nel quale si collocano sia gli elettori con le loro preferenze individuali, sia i partiti alla ricerca del loro sostegno. La dimensione spaziale, associata con l'assunto della razionalità e della piena informazione dell'elettore, porta a concludere che ogni elettore voterà per il partito che si colloca più vicino alla sua posizione. Quindi, data una certa curva della distribuzione delle preferenze degli elettori, i partiti competeranno per raggiungere e mantenere le collocazioni spaziali che garantiscono loro il più alto numero di voti possibile.
L'elemento dinamico esplicativo è costituito dalla distribuzione delle opinioni degli elettori sul continuum spaziale, descritto in genere in termini di sinistra-destra. Più precisamente, in ogni dato sistema partitico le tattiche competitive dei partiti dipendono dalla collocazione dell'elettorato intermedio che è possibile guadagnare con piccoli spostamenti, nonché dai rischi di perdere elettorato già acquisito a causa degli spostamenti stessi e dal rischio generale di veder emergere nuovi partiti in uno spazio di preferenze elettorali lasciato 'scoperto' e insoddisfatto. In tal modo è possibile avanzare interpretazioni e previsioni della dinamica competitiva di un sistema a partire dalla distribuzione delle posizioni degli elettori e del numero e della posizione dei partiti.
Gli assunti della razionalità e della piena informazione di elettori e partiti sono tuttavia scarsamente realistici; costituiscono uno strumento analitico per la costruzione di un modello che serve da punto di riferimento per valutare la misura in cui la realtà se ne discosta. Nella realtà il rapporto elettori-partiti è caratterizzato da legami di identificazione e fedeltà ideologica profondi e stabili nel tempo (v. cap. 4). Buona parte dell'elettorato non si comporta in base a calcoli utilitaristici, cioè non definisce la propria posizione nello spazio politico in riferimento alle sue preferenze su problemi specifici né è così informato da poter determinare la posizione del partito su tali problemi. In altri termini, la posizione degli elettori riguardo a molti problemi politici non è indipendente dal partito per cui votano, ma dipende dalla posizione di quest'ultimo (v. Budge e altri, 1976).
Questo fenomeno non inficia l'utilità dei modelli spaziali. Infatti in ogni elettorato esiste una certa frazione di elettori il cui voto è mobile, e può dipendere da calcoli, percezioni e valutazioni sui programmi dei partiti e sulle loro politiche. Queste minoranze di voto elastico creano gli stessi effetti competitivi nel sistema perché i partiti - se mirano a massimizzare i voti - si orientano verso di esse e rispondono alle loro preferenze più di quanto non facciano per quelle degli elettori identificati, la cui fedeltà elettorale è assicurata. In conclusione, anche in presenza di una riduzione del mercato elettorale che risulta dalla immobilizzazione di larghe fasce elettorali in forme di voto di identificazione, la dinamica dei sistemi partitici può lo stesso essere studiata con modelli spaziali, ammesso che siano stimabili la quantità e la collocazione spaziale delle minoranze di voto flessibile. Se questi settori di voto elastico sono collocati al centro dello spazio di competizione i partiti politici tenderanno a convergere verso di essi; al contrario, se la collocazione prevalente del voto elastico è alle estremità non vi saranno incentivi in questo senso, ma piuttosto verso una polarizzazione della competizione.
Un secondo assunto dell'approccio spaziale presenta più gravi problemi: l'unidimensionalità dello spazio politico. È utile e realistico ritenere che gli elettori percepiscano la politica in termini di un unico spazio, che i partiti competano su di un'unica dimensione e che problemi vecchi e nuovi siano riconducibili a essa? Molte ricerche suggeriscono che le dimensioni di competizione in ogni sistema partitico sono plurime (v. Budge e Farlie, 1977). La stessa riflessione sui cleavages genetici porta a conclusioni in questa direzione. Tuttavia, si può argomentare che tra le varie dimensioni una ha carattere dominante per la competizione partitica ed è quindi la sola significativa per la dinamica del sistema; che va posta una chiara distinzione tra la multidimensionalità delle issues politiche e la unidimensionalità competitiva del sistema; che, infine, qualunque sia il numero delle dimensioni importanti per spiegare gli allineamenti politici, la maggior parte di esse - come quelle etniche, religiose, linguistiche - sono prevalentemente dimensioni di identificazione espressiva, piuttosto che di competizione effettiva (v. Sartori, 1982). Per molti aspetti è insomma possibile accettare, per i suoi vantaggi analitici, l'assunto della unidimensionalità dello spazio politico, lasciando alla ricerca il compito di mostrare in quali casi e misura questa assunzione sia utile. Rimane tuttavia valida, per l'approccio spaziale, la critica di staticità e determinismo. Vi mancano riferimenti al modo in cui i partiti influenzano e manipolano le dimensioni di competizione a loro più favorevoli e a come l'emergere di nuovi problemi e conflitti conduce a mutamenti della dimensione dominante di competizione.
A conclusione di questa sezione dedicata all'analisi dei sistemi partitici vale la pena di ricordare che, per quanto sia fruttuoso scegliere una delle principali prospettive di analisi e svilupparne a fondo le implicazioni, è evidente che esse sono strettamente legate tra loro. L'analisi della genesi dei partiti politici pone l'accento sul tipo, il numero e l'intensità delle principali linee di divisione che strutturano il sistema partitico. L'approccio morfologico pone in rilievo l'importanza del numero di unità in competizione e della distribuzione delle loro forze. Quello spaziale esamina le direzioni e le spinte della competizione. L'avanzamento dell'analisi tipologica e del funzionamento dei sistemi partitici passa attraverso un'integrazione di questi tre approcci. Per esempio, per valutare condizioni, risultati e possibili sviluppi di un sistema partitico che si aggrega in formato bipolare è necessario legare le condizioni morfologiche di questa costellazione con quelle che hanno permesso la combinazione dei vari cleavages in blocchi contrapposti, con quelle che permettono il mantenersi di una tale situazione sulla base di una distribuzione delle preferenze e opinioni politiche degli elettori.
I partiti sono un'istituzione politica giovane. Per la maggior parte di essi la storia è meno che centenaria. E ciò mette in evidenza il loro enorme successo nel modellare e organizzare l'opinione pubblica, attraverso legami ideologici e organizzativi che li hanno in parte immunizzati dai profondi mutamenti di questo secolo. Possiamo giudicarli come un efficace meccanismo di stabilizzazione politica, all'interno di società a elevatissimi tassi di mutamento socio-economico-culturale. Tuttavia, si può anche sostenere che sono proprio questi loro caratteri ad averli resi prigionieri di divisioni e conflitti del passato, che essi stessi contribuiscono a riprodurre e che li rendono meno pronti a fronteggiare nuovi conflitti e domande che il rapido mutamento ripropone di continuo. In questo senso la crisi del partito politico, di cui attualmente si parla con insistenza, nasce dal catalizzarsi di lunghi periodi di mutamento socioculturale, con la loro influenza sui fattori determinanti degli atteggiamenti e dei comportamenti politici del pubblico; la tendenza all'erosione delle tradizionali divisioni sociali, soprattutto di natura religiosa e di classe; la tendenza alla rappresentanza organizzata di interessi specifici e ristretti, tesi alla soddisfazione di domande sezionali; la crescente consapevolezza che le condizioni di vita degli individui dipendono dalle politiche dei governi e dell'amministrazione, più che da ampi e duraturi conflitti collettivi condotti sotto la guida dei partiti; lo sviluppo di nuove forme di partecipazione politica che rifiutano l'aggregazione delegata delle loro domande, che richiedono forme dirette di decisione, che si organizzano su problemi e issues ristretti e nuovi, difficili da incorporare nei tradizionali profili politico-ideologici dei partiti.
Quindi, sul versante dell'input del processo politico - quello che li ha visti protagonisti dei processi di mobilitazione, partecipazione e integrazione dei nuovi gruppi sociali - i partiti sono talvolta giudicati obsoleti, di fronte a una rivoluzione cognitiva che ha notevolmente elevato il livello di competenza politica potenziale dei cittadini e al crescente peso dei mass media, che sembrano rendere inutile un'organizzazione tesa alla diffusione/interpretazione del messaggio politico. Peraltro, l'obsolescenza dei partiti è vista talvolta anche come il risultato di una loro diluizione nell'ambiente sociale dominato dalle forze del mercato. Se un tempo i partiti rappresentavano gruppi e interessi distinti con programmi differenziati, la loro progressiva assimilazione al mercato li ha trasformati in 'imprese politiche', la cui logica di massimizzazione del sostegno li conduce a un'indifferenziazione dei prodotti programmatici, e lascia ad altre organizzazioni l'onere e l'onore di rappresentare più direttamente gli interessi e i valori di gruppi specifici e distinti di cittadini.
Sul versante dell'output politico, l'obsolescenza del partito è vista in chiave di incapacità di influire effettivamente sulla formazione e la messa in atto delle politiche pubbliche. Nella letteratura che per brevità possiamo etichettare con il termine 'neocorporativista' si sottolinea la crescente importanza di ordini negoziali tra attori non partitici - grandi gruppi di interesse, governi e burocrazie pubbliche - che determinando le macropolitiche pubbliche svuotano i partiti della loro capacità di indirizzo politico. Le decisioni politiche rilevanti sfuggono sempre più all'ambito decisionale dominato dal valore 'legittimità politica' (partiti, elezioni, parlamenti), per ricadere in quello dominato dal controllo effettivo delle risorse. Inoltre, il declino delle funzioni di indirizzo politico dei partiti deriva dai crescenti vincoli sovrastatali posti alle politiche stesse dall'interdipendenza economica, dalla crescente permeabilità dei confini statali, dalla rilevanza regolativa di 'autorità' non politico-partitiche (banche centrali, corti, authorities, ecc.), dalla costituzionalizzazione di certi fini politici. In questo caso, il principio della legittimità politica viene sostituito da quello della competenza tecnica.
In sé questi fenomeni sembrano porre sfide dirompenti al ruolo storico dei partiti politici sul finire del XX secolo. Tuttavia la tesi dell'obsolescenza sottovaluta la passata abilità di queste istituzioni nel gestire e superare problemi e sviluppi nuovi attraverso adattamenti ideologici, organizzativi e funzionali. Peraltro, la critica del partito politico è sovente viziata da una comparazione implicita tra una mitica 'età dell'oro' e la situazione attuale: i partiti erano un tempo i soli legittimi portavoce di chiari principî e distinti gruppi sociali, che integravano aggregandone le domande in programmi coerenti e comprensivi, e sono oggi degenerati nella burocratizzazione, nell'opportunismo e nella indifferenziazione delle loro basi sociali. Questo cliché è viziato da una enfasi normativa nostalgica per ciò che un partito dovrebbe essere. Inoltre, è il risultato di una idealizzazione ex post della realtà storica, che risulta dalla sopravvalutazione di alcune esperienze nella formazione dell'archetipo del partito politico di massa (socialdemocrazia tedesca e svedese, laburismo e conservatorismo inglesi).Infine, del tutto incerta è la prognosi della critica del partito politico; cioè la cura da adottare o la soluzione da scegliere in una eventuale fase postpartitica. Nelle critiche rivolte ai partiti politici e nell'uso svalutativo del termine 'partitocrazia' traspaiono non di rado elementi normativi che richiamano antichi e mai sopiti sentimenti antipartitici di diversa origine culturale e politica. Vi riecheggiano concezioni tradizionali del monolitismo statuale e dell'indivisibilità del bene comune o dell'interesse nazionale, visioni idealizzate di modi alternativi di organizzare la vita politica, venate di ingenue speranze comunitarie di democrazia diretta e perfino di romantiche visioni del parlamentarismo prepartitico nel quale personalità 'indipendenti' fanno germinare il bene comune attraverso lo scontro delle idee. Né in questo dibattito si tengono sempre in debito conto i pro e i contro delle alternative possibili, e si calcolano i rischi di degenerazioni burocratiche, tecnocratiche e plebiscitarie insiti in una 'democrazia post-partitica'. I partiti politici hanno molti critici, molti antagonisti e un numero crescente di competitori, ma sembrano avere ancora ben poche alternative concrete e attraenti.
(V. anche Democrazia; Elezioni; Parlamento; Partecipazione politica).
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