Pasqua
La più importante festa ebraica e poi cristiana
Il termine Pasqua, dall’ebraico Pesah, significa «passaggio». Nel mondo ebraico la festa della Pasqua ricorda, infatti, mediante il sacrificio dell’agnello, il passaggio dell’angelo di Dio, che colpì i primogeniti degli Egiziani e consentì al popolo ebraico di fuggire dalla schiavitù dell’Egitto attraverso il Mar Rosso e di incamminarsi verso la terra promessa.
I cristiani hanno poi attribuito alla Pasqua un nuovo significato, identificando l’agnello con Cristo stesso, morto e risorto, e hanno perciò celebrato la resurrezione di Gesù, che ha liberato l’uomo dalla schiavitù del peccato e dalla paura della morte
Presso i popoli del Vicino Oriente venivano praticati, nell’antichità, vari riti agrari, come l’offerta delle primizie e dei primi nati del bestiame, che – legati al ciclo delle stagioni – celebravano l’avvento della primavera e la fecondità del gregge. Infatti durante la primavera i pastori si spostavano col loro gregge verso i nuovi pascoli, e in tale occasione sacrificavano un agnello per ottenere dalla divinità il dono di un gregge numeroso e fecondo.
La religione ebraica assegnò un nuovo significato al sacrificio dell’agnello, che il 14° giorno del mese lunare di nisan (corrispondente a marzo-aprile) veniva mangiato insieme a erbe amare e pane azzimo (ossia non lievitato), per ricordare il passaggio del Signore, che colpì con la morte i primogeniti dell’Egitto e liberò invece gli Ebrei dalla morte e dalla schiavitù. «Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò oltre, non vi sarà per voi flagello di sterminio, quando io colpirò il paese d’Egitto».
La distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 d.C.) rese impraticabile il sacrificio (da compiere nel Tempio), ma non abolì la festa con il suo valore commemorativo. Per secoli, sino a oggi, gli Ebrei della diaspora hanno mangiato l’agnello pasquale nel quadro di un rito detto seder, durante il quale viene riletto il racconto della liberazione dall’Egitto; e si augurano di poterlo mangiare presto a Gerusalemme: «oggi qui, ma l’anno prossimo a Gerusalemme!».
Il profeta Isaia utilizzò l’immagine dell’agnello, vittima innocente offerta per riscattare i peccati del popolo d’Israele, in riferimento alla figura del Messia, presentato come il servo sofferente di Yahweh, che avrebbe liberato Israele e gli altri popoli assumendo su di sé i loro peccati: «il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti [...]; era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori». A questa attesa messianica si ricollega Gesù, quando preannuncia ai discepoli la sua morte, ed entra a Gerusalemme cavalcando un asino, e non come un trionfatore militare.
I Vangeli detti sinottici (Matteo, Marco, Luca) presentano l’Ultima cena come una celebrazione della Pasqua ebraica, alla quale però Gesù attribuisce un significato nuovo. Egli distribuì infatti ai discepoli il pane e il vino, identificandoli con il proprio corpo e il proprio sangue: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo. Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati». Il Vangelo di Giovanni afferma invece che Gesù morì il giorno della parasceve («preparazione»), ossia il giorno che precede la Pasqua ebraica; tuttavia anch’esso ricollega chiaramente il segno del pane al sangue di Gesù: «il pane che io dò è la mia carne per la vita del mondo». In questo Vangelo Giovanni Battista, ricollegandosi all’interpretazione di Isaia, identifica chiaramente Gesù con l’agnello di Dio, dicendo ai suoi discepoli: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo!». Nella liturgia cristiana queste parole sono state inserite come preludio alla distribuzione della Comunione.
Il libro dell’Apocalisse presenta Gesù, seduto sul trono alla fine dei tempi, dopo la sua seconda venuta, come l’agnello immolato, ora glorificato, che ha riscattato con il suo sangue «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione». Paolo di Tarso, nella prima lettera ai Corinzi precisa il significato della resurrezione di Gesù, che prefigura quella futura dei cristiani: «Cristo è resuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo».
Il pane azzimo, che gli Ebrei mangiavano insieme all’agnello, raffigura simbolicamente la purezza interiore dei cristiani, che devono evitare il lievito del peccato: «Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!».
Al centro dell’annunzio cristiano si trova quindi non più la liberazione dalla schiavitù politica, ma la liberazione dal peccato e la resurrezione dei morti, che è anche una resurrezione fisica e non solo dell’anima (come immaginavano alcune correnti della filosofia greca).
Il cristianesimo non si distaccò subito del tutto dall’ebraismo e dai suoi riti, ma progressivamente la celebrazione della domenica sostituì quella del sabato, e la Pasqua, che celebrava la morte e la resurrezione di Gesù, ne divenne il prototipo e il modello.
Nei primi secoli sorsero vari contrasti sulla data della celebrazione della Pasqua: alcune comunità dell’Asia Minore, basandosi sulle indicazioni del Vangelo di Giovanni, la celebravano in concomitanza con gli Ebrei, e quindi in un giorno della settimana che non coincideva necessariamente con la domenica; altre comunità cristiane, tra cui quella di Roma, celebravano invece tale festa la domenica, seguendo le indicazioni dei Vangeli sinottici e distaccandosi maggiormente dall’uso ebraico.
Dopo lunghe discussioni, le comunità cristiane si accordarono per celebrare la Pasqua la prima domenica di plenilunio dopo l’equinozio di primavera, e quindi in una data compresa tra il 22 marzo e il 25 aprile: prevalse quindi l’uso romano, anche se in Irlanda si mantenne a lungo una tradizione diversa.
Diversamente dal Natale, la Pasqua è quindi una festa mobile. Oggi gli ortodossi celebrano la Pasqua in una data diversa rispetto ai cattolici, in quanto non hanno accettato la riforma del calendario attuata da papa Gregorio XIII nel Cinquecento.
Sul piano liturgico, il ciclo pasquale e i riti della Settimana santa sono stati definiti in modo preciso a partire dal 4°-5°secolo. La sera del Sabato Santo vengono benedetti il fuoco, il cero pasquale e il fonte battesimale, e vengono richiamate alla memoria le tappe fondamentali della storia della salvezza, dalla creazione e dal peccato originale al passaggio del Mar Rosso e alla resurrezione di Gesù. Questo momento è particolarmente indicato per la celebrazione del Battesimo, mediante il quale il cristiano rinasce in Cristo, rivivendo nel sacramento la sua morte e la sua resurrezione.
Il tempo pasquale dura 50 giorni e termina con la festa di Pentecoste, che rievoca la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Esso è preceduto da un periodo di 40 giorni chiamato quaresima, che richiama il periodo trascorso nel deserto dal popolo ebraico prima dell’ingresso nella terra promessa, e i giorni di digiuno di Gesù prima di iniziare la predicazione; rappresenta quindi un periodo di penitenza, di digiuno e di mortificazione. La Pasqua è invece il tempo della gioia, espressa mediante l’invocazione «alleluia», e rappresenta il centro dell’anno liturgico, per cui il Concilio lateranense del 1215 stabilì che ogni cristiano deve ricevere la Comunione almeno nel tempo pasquale.
Molte tradizioni popolari collegate alla Pasqua, come la benedizione delle uova, simbolo di rinascita, esprimono questa idea di rigenerazione spirituale: ancor oggi, nella società secolarizzata, il dono dell’uovo di Pasqua evoca la gioia e il rinnovamento della vita, mentre la colomba (che evoca la fine del diluvio ma anche il dono dello Spirito Santo) e il ramoscello d’olivo distribuito la Domenica delle palme sono simbolo di pace. È inoltre diffusa l’usanza di mangiare l’agnello.