Pasquale II
Si ignora tutto della famiglia e della nascita di Raniero, che potrebbe essere avvenuta in Romagna (a Bleda o a Galeata) e ascritta al 1053-1055. Monaco, giunse a Roma sui vent'anni durante il pontificato di Gregorio VII, che lo nominò abate di S. Lorenzo fuori le Mura e successivamente (dopo il 1078) cardinale prete di S. Clemente; ma della sua attività durante quel pontificato non si sa nulla. Nel 1088 fu tra gli elettori di Urbano II, che lo destinò subito ad un incarico delicato ed importante: assicurare all'obbedienza romana Velletri, una spina nel fianco del papato riformatore. Nel 1089-1090 fu impegnato in una legazione in Spagna, per giudicare della situazione della sede vescovile di Compostella e delle sue aspirazioni all'egemonia in concorrenza con Toledo e con Braga, che culminò nel sinodo di León, dove tra l'altro si ribadì, contro le aspettative di Alfonso VI, re di Castiglia, che nulla poteva essere fatto senza il consenso della Chiesa romana. Nel corso di questa legazione, Raniero raccolse il giuramento di fedeltà a s. Pietro del conte di Melgueil e fu il padrino di suo figlio Ponzio, dal 1109 abate di Cluny. In seguito le tracce si fanno scarsissime. Dal 1091 in poi Raniero sembra costantemente accanto ad Urbano II; nel 1095 era con lui al concilio di Clermont. Il 13 agosto 1099 fu eletto papa nella basilica di S. Clemente (le condizioni politiche di Roma impedirono che l'elezione potesse aver luogo a S. Pietro o al Laterano), senza che fossero presenti tutti i membri del Collegio cardinalizio. Scelse il nome di Pasquale II: segnale immediato e chiarissimo, questo, della volontà di continuare l'opera del predecessore Pasquale I, il papa al quale, già nel primo anno di pontificato, sulla base di un'intesa intervenuta in precedenza con Stefano IV, l'imperatore Ludovico il Pio aveva concesso un privilegio (Pactum Ludovicianum) che, oltre a confermare alla Sede apostolica il suo dominio temporale, garantiva fra l'altro la non ingerenza dell'autorità imperiale nelle elezioni papali. Quel privilegio era stato riproposto, pochi anni innanzi, nelle collezioni canoniche del cardinale Deusdedit e di Anselmo da Lucca. Raniero aveva così scelto il suo modello d'azione: avrebbe tentato di replicare l'esperienza dell'accordo fra i due poteri, e voleva che lo si sapesse subito. Ognuno al suo posto, questo era il suo programma, ovvero: non si sarebbero lesinati gli sforzi pur di risistemare ognuno nelle competenze che gli erano proprie e nel rispetto delle regole. P. sarebbe stato l'uomo dell'accordo, e avrebbe tentato di ripristinare la perduta armonia, ma senza transigere sulle prerogative della Chiesa romana. Poco più di un anno dopo la sua elezione, l'8 settembre 1100 morì a Civita Castellana, dove lo aveva costretto a ritirarsi, prima da Albano, ove il vescovo era un suo fautore, poi da Sutri, l'antipapa Clemente III. Sull'elezione di P. alcune fonti imperiali gettano l'accusa di simonia (che si aggiunge al sospetto di aver venduto la carica di priore quando ancora era abate di S. Lorenzo); sono accuse topiche, ma non prive di interesse, perché sembrano indicare in modo indiretto quale fosse l'orientamento del nuovo pontefice. D'altro canto, fu proprio grazie al "denaro dato dal pontefice" (M.G.H., Scriptores, V, a cura di G.H. Pertz, 1844, p. 477) che, nel febbraio 1101, P. ebbe nelle sue mani l'antipapa wibertista Alberto, che aveva invano cercato protezione presso i SS. Apostoli. Erano le code della crisi wibertista: nel 1100 era infatti morto Wiberto di Ravenna (v. Clemente III, antipapa), che era stato un avversario temibile, anche perché aveva potuto contare sulle risorse economiche e militari che gli erano garantite dal controllo dell'Esarcato, diversamente dai papi, il cui dominio su Roma e sul Patrimonio, compromesso da un ventennio di scismi e tre lustri di troppo rapidi passaggi nell'Urbe, era ben più labile. E proprio quel controllo P. cercò di ottenere nei primi anni del suo pontificato, combattendo e scontrandosi anche contro coloro che dapprima sembrano essere stati i suoi alleati, Pietro Colonna e Tolomeo dei conti di Tuscolo, che in seguito si associò con uno dei primi nemici del pontefice, Stefano dei Corsi. Insieme a lui, minacciò di sottrarre al controllo pontificio Anagni, Palestrina, la Sabina, la Marittima e, quindi, anche le sue saline, oltreché la via del mare. Ma è da notare che se il pontefice riuscì a riprendere il pieno controllo dell'Urbe solo il 10 agosto 1101, cioè dopo che ebbe occupato la torre di Crescenzio (Castel S. Angelo), detto controllo non apparve più messo in discussione per una quindicina d'anni: le lotte per l'affermazione del dominio papale degli anni 1105-1108 si svolsero tutte fuori Roma, a riprova del fatto che l'obiettivo in città era stato in qualche modo raggiunto. P. era il primo papa dai tempi della fuga di Gregorio VII (1084) che riusciva a sedere a Roma. Allo stesso modo P. fu il primo papa della Terrasanta conquistata. Ma la sua Cancelleria, riprendendo un uso di Urbano II e formulazioni, i cui lontani antecedenti si possono rintracciare anche nel racconto della formazione del "Patrimonium beati Petri" nel Liber pontificalis d'età franca, preferiva usare i participi "recuperata", "restituta": era la normalità della fede cristiana che si intendeva "ristabilita" nei luoghi che gli infedeli avevano provvisoriamente usurpato (in Terrasanta come in Sicilia e nella penisola iberica) e che venivano ricongiunti alla cristianità nel nome di s. Pietro.
La normalità e la centralità della Chiesa di Roma andavano di pari passo. Per normalità s'intendeva l'affermazione della norma romana, di cui il papa pretendeva di essere l'interprete autentico e il giudice ultimo. È indicativo il fatto che, nel 1099, P. ribaltò la decisione assunta durante il sinodo di León, cui aveva partecipato in qualità di legato: le decisioni che contavano erano quelle prese a Roma dal papa, che era l'unico a poter precisare, modificare o anche rovesciare le sentenze dei suoi predecessori o emanate da lui stesso. La grande prerogativa del papa è quella di poter emanare l'interpretazione autentica delle sentenze, di poter essere fonte di autenticità. Questo parametro appare come il criterio ispiratore dell'azione di Pasquale II. In base ad esso, il papa portò a conclusione negli anni 1106-1107 la lotta per le investiture nei Regni d'Inghilterra e di Francia e avviò la pacificazione con l'Impero. Contando sulla normalizzazione conseguita a Roma, il papa se ne allontanò per mesi. Quando, al suo ritorno, trovò l'aperta ribellione di Tolomeo di Tuscolo, poté invocare ed ottenere il decisivo aiuto militare dei suoi alleati normanni di Gaeta. Erano cambiati i re d'Inghilterra e di Germania. Qui Enrico V (1106-1125), che, nel 1105, aveva detronizzato il padre Enrico IV e si era mostrato disponibile ad ascoltare le ragioni della Chiesa romana, avrebbe potuto essere disposto a chiudere l'annosa questione. Nei confronti dell'Inghilterra, P. poté tenere addirittura un atteggiamento duttile, ai limiti della spregiudicatezza, giacché autorizzò Anselmo di Canterbury a sentirsi sciolto dalle proibizioni di Urbano II e dello stesso Pasquale I di riammettere nella comunione anche quei vescovi che avevano prestato l'omaggio ligio al re: "la fraternità tua [...] agisca con quella mansuetudine, con quella dispensa di saggezza, con quella cura verso il re e i principi, acciocché quelle cose che sono men corrette, con l'aiuto del Signore Dio nostro, siano corrette per opera dello studio della tua sollecitudine […]. Ciò che avrai sciolto, sciogliamo, ciò che avrai legato, leghiamo". Tutto questo nell'attesa che "il cuore regio, per grazia di Dio onnipotente, non sia ammorbidito dalle piogge della tua parola" (ep. 177, col. 187). Con l'episcopato germanico, invece, l'atteggiamento non poteva non essere più prudente: un concilio tenuto nella corte canossana di Guastalla nell'ottobre del 1106 e che per la partecipazione registrata va inteso come un concilio di pacificazione (intervennero prelati dalla Francia e dall'Impero) sancì di riammettere all'ufficio episcopale "i vescovi del detto Regno ordinati nello scisma, a meno che non si provi che sono invasori, simoniaci o colpevoli di delitti ["criminosi"]; lo stesso disponiamo dei chierici che la vita e la sapienza raccomandano" (can. 4). L'investitura laica continuava ad essere esplicitamente condannata, ma soltanto nel can. 5: l'ecclesiastico che accettava l'investitura era sempre soggetto a scomunica. Intanto però si sanava la situazione della Chiesa del Regno: non era infatti stabilita nessuna esplicita equivalenza linguistica (e, dunque, ideologica) tra i responsabili di violenze ("invasores", "criminosi") o di corruzione ("symoniaci") e chi aveva ricevuto un'investitura laica (The Early Councils, pp. 53-6). La formulazione era, insieme, chiara e ambigua, e perciò lasciava aperta la situazione, il che si prestava a meraviglia ad avviare il dialogo con l'Impero. L'episcopato tedesco, per la prima volta da undici anni, aveva la possibilità di sanare i propri rapporti con la Chiesa di Roma. (Giacché un precedente c'era stato, ed era consistito nell'azione di governo di Urbano II, anch'essa ambigua, ma entro più precise coordinate concettuali e canonistiche, durante il concilio tenuto a Piacenza nel 1095). In verità P. si dimostrava buon successore di Urbano II, di cui riprendeva la politica di esonero dalla norma, e, al tempo stesso, un innovatore, a cominciare dal vocabolario usato. Fin dalla lettera ad Anselmo di Canterbury, usa la parola "dispensatio" (Urbano II aveva usato "interpretatio"), che indicava la consapevolezza della capacità di disporre della norma (e non soltanto di interpretarla), per giungere alle decisioni politico-ecclesiologiche del concilio di Guastalla, nella linea di Urbano II e tuttavia molto più vaghe, molto più aperte alle possibili soluzioni del conflitto. Difatti la linea di trattativa con l'Impero non fu interrotta neppure dopo l'incontro interlocutorio del 22 maggio 1107, avvenuto a Châlons-sur-Marne, con una delegazione imperiale, che rivendicava lo "ius Regni", e dopo il concilio di Troyes (23 maggio), che reiterò la proibizione delle investiture. Il papa aveva raggiunto la Francia per chiudere anche lì la questione delle investiture e l'ingombrante problema dei matrimoni e dei ripudi reali, che da quattordici anni rendeva spinosi i rapporti con Roma; un accordo fu raggiunto, ma non ne conosciamo i termini. Restava l'Impero. Nel 1110 Enrico V si mosse dalla Germania, in forze, alla volta di Roma, per siglare un accordo con il papa, essere incoronato imperatore e ribadire la propria sovranità eminente sul Regno d'Italia. "Siamo venuti in Italia e quella terra, sopra tutte le altre discorde e divisa, abbiamo almeno per il momento costretto alla giustizia ed alla concordia", scrisse ai Romani (in M.G.H., Leges, Legum sectio IV, p. 134): era la pace del re, la pacificazione connessa con la sua missione regale. "Soggiogò la Lombardia, scorrazzò per la Toscana" (ibid., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, II, a cura di E. Dümmler-F. Thaner-E. Sackur, 1892, p. 673). Arrivò fino a Sutri, fortezza strategica per l'accesso a Roma da nord. Il 9 febbraio firmò l'accordo che era stato raggiunto il 4 febbraio a Roma da una delegazione imperiale: "Il re rinuncerà per iscritto ad ogni investitura di tutte le chiese nelle mani del signor papa, al cospetto del clero e del popolo, nel giorno della sua incoronazione. E dopo che il [...] papa avrà fatto a proposito dei 'regalia' ciò che si dice in altro documento, confermerà col giuramento che mai più si intrometterà nelle investiture. E lascerà libere, con i loro patrimoni derivanti dalle offerte dei fedeli e i loro possessi, quelle chiese che manifestamente non erano di pertinenza del Regno. E scioglierà i popoli dai giuramenti che sono stati fatti contro i vescovi. Restituirà e concederà i patrimoni e i possessi di s. Pietro come fu fatto da Carlo, Ludovico, Enrico e dagli altri imperatori, e aiuterà a tenerli secondo le proprie possibilità" (ibid., Leges, Legum sectio IV, p. 137). In un colpo solo l'intera questione delle investiture si chiudeva. Ma quali atti avrebbe dovuto compiere il papa a proposito dei "regalia"? Il 12 febbraio Enrico V fu accolto festosamente nella basilica di S. Pietro. Il privilegio papale, di non agevole interpretazione, era pronto. In esso si deplorava che "i ministri dell'altare […] fossero divenuti ministri della corte, poiché hanno ricevuto dai re le città, i ducati, le marche, la monetazione, le 'curtes' e le altre cose pertinenti al Regno", con la conseguenza che "si è sviluppato un uso intollerabile per la Chiesa, secondo cui gli eletti vescovi in nessun modo ricevessero la consacrazione, se prima non fossero stati investiti dalla mano del re"; si riepilogava la questione delle investiture secondo l'interpretazione romana; si stabiliva che "al Regno debbano essere lasciati quei 'regalia' che al Regno manifestamente appartenevano al tempo di Carlo, Ludovico, Enrico […]. Vietiamo anche e sotto pena dell'anatema proibiamo che nessuno dei vescovi e degli abati, presenti e futuri, invadano quei 'regalia', cioè: le città, i ducati, le marche, le contee, i diritti di monetazione, di teloneo, di mercato, le avvocazìe del Regno, i diritti dei giudici chiamati centurioni e le corti che manifestamente erano del Regno, con le loro pertinenze, l'esercizio delle armi e il servizio armato del Regno, e che si intromettano nei 'regalia' stessi, se non per grazia del re […]. Inoltre le chiese con i loro patrimoni derivanti dalle offerte dei fedeli e i possessi ereditarii, che manifestamente non appartenevano al Regno, decretiamo che rimangano libere […]. È opportuno infatti che i vescovi, sciolti dalle cure secolari, si prendano cura delle loro genti e non manchino più dalle loro chiese" (ibid., p. 141). Il papa fissava, dunque, una linea di demarcazione fra le cose ecclesiastiche e quelle legate al governo del "Regnum", impegnandosi (anzi impegnando l'alto clero) a cedere quelle attribuzioni che avevano costituito l'ossatura della Reichskirche, in cambio del riconoscimento e della tutela delle proprietà temporali delle chiese. Ciò non ha nulla a che vedere con l'aspirazione alla povertà della Chiesa, che si è tentato recentemente di attribuirgli. Ma fin qui è soltanto l'imperatore che appare cedere: e allora perché il documento preliminare recitava "dopo che il signor papa avrà fatto a proposito dei 'regalia' ciò che si dice in altro documento"? La clausola importante, in realtà, era proprio quella, espressa quasi incidentalmente, secondo cui "al Regno debbano essere lasciati quei 'regalia' che al Regno manifestamente appartenevano", e i vescovi e gli abati non dovevano più intromettersi nei "regalia" stessi, "se non per grazia del re". Giacché con essa si smentiva che gli ecclesiastici non potessero più in assoluto detenere i "regalia", e dunque veniva demolito dall'interno l'intero impianto ideologico del documento papale, nell'atto in cui si imponeva a quelli che attualmente li detenevano di restituirli al re. L'accordo comportava, cioè, la possibilità di una generale spoliazione dei diritti pubblici da parte del re (fatto gravissimo, perché la prassi voleva che ciò fosse possibile solo nel caso di sanzione di fellonìa), che se ne sarebbe riappropriato non però nella prospettiva di trattenerli, ma di affidarli nominativamente, caso per caso, pure a uomini nuovi e diversi, legati a lui da vincoli più stretti. L'accordo implicava così una generale redistribuzione dei diritti pubblici. Al re sarebbe stata consentita la possibilità di azzerare la situazione del "pubblico" nel Regno e poi di ricostituirla, ridisegnando il quadro delle "fidelitates", non necessariamente a svantaggio di tutti gli ecclesiastici che godevano dei "regalia", anche se per essi quel patto avrebbe rappresentato un rischio evidente. Perché avrebbero dovuto correrlo? Quanto a P. e alla Chiesa romana, essi avevano ottenuto in linea di principio il riconoscimento formale dell'illegittimità dell'investitura degli ecclesiastici, anche se di fatto, e neppure sotto la forma di una eccezione alla regola generale o di una norma transitoria, essa era riconosciuta come legittima caso per caso. Quella breve clausola, che smentiva tutto il lungo apparato di citazioni canonistiche e scritturarie e di minuziosi elenchi di "regalia", contenuto nel privilegio, segnalava una inconfessabile complicità di P. con Enrico V. E tuttavia P. otteneva il riconoscimento formale: 1) della giustezza delle posizioni romane, in nome delle quali si era tanto combattuto negli ultimi quarant'anni; 2) delle rivendicazioni territoriali della Chiesa romana, per le quali egli stesso aveva combattuto; 3) della propria posizione di autorità suprema della Chiesa, oggetto di doverosa obbedienza anche da parte degli ecclesiastici imperiali più riottosi; 4) della propria posizione di vertice della Chiesa, capace di pronunciare il diritto ma anche di eccepirlo; 5) del significato concreto, perché articolato, da attribuire al termine (e dunque al concetto) di "regalia", così come Roma poteva gradirlo. Il tutto in un quadro di restaurato rapporto con l'autorità imperiale, che non metteva minimamente in dubbio la legittimità delle proprietà temporali delle chiese. P. poteva essere soddisfatto quanto il re, ma a nessuno doveva sfuggire che sarebbe stato molto difficile applicare l'accordo: e fors'anche promulgarlo, dato che esso era stato raggiunto in assenza di chi (vescovo, arcivescovo o abate) potesse rappresentare la voce dei diretti interessati. Per ambedue i protagonisti era un gioco difficile e rischioso, condotto sul filo; un modo, si direbbe, per guadagnare tempo e riaprire la trattativa in un clima di pace. Il clero imperiale oppose una fortissima resistenza, prima che il papa notificasse ufficialmente, rendendole legge, le proprie deliberazioni. L'accordo era, in realtà, inapplicabile: successivamente le due parti si accusarono di averlo sottoscritto in malafede. Si venne alle armi. In serata, il papa e un certo numero di cardinali erano nelle mani del re, che, dopo aver fronteggiato una rivolta dei Romani, lasciò la città. Intervenne un vassallo di Matilde di Canossa, per ottenere la liberazione di due prelati matildici, e soltanto questo: la grande alleata del papato riformatore si era defilata. Nel giro di pochi giorni, tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo, morirono i duchi e principi normanni sulla cui alleanza P. aveva sempre potuto far conto. Il papa era isolato. Riccardo d'Albano, sfuggito alla cattura, si era proclamato suo vicario. Il 12 aprile, a Sette Fratte (comunemente, ma meno esattamente, ponte Mammolo), fu sottoscritto un altro accordo, che, sotto la forma di un privilegio papale, fu promulgato a Roma nel giorno dell'incoronazione imperiale (13 aprile 1111): "Concediamo e confermiamo con il presente privilegio alla tua dilezione, che tu ai vescovi e agli abati, liberamente eletti senza violenza e simonia, conferisca l'investitura della verga e dell'anello. Dopo l'investitura, poi, ricevano la consacrazione canonica dal vescovo sotto la cui giurisdizione ricadono. Se qualcuno fosse stato eletto dal clero e dal popolo all'infuori del tuo assenso, se non verrà investito da te non sia consacrato da nessuno (tranne tuttavia coloro che per consuetudine sono nella disposizione degli arcivescovi o del pontefice romano). Gli arcivescovi e i vescovi abbiano senza possibilità di dubbio la libertà di consacrare canonicamente i vescovi e gli abati da te investiti. I vostri predecessori infatti hanno tanto accresciuto le chiese del loro Regno con i loro beneficii regali che il Regno va munito massimamente con i presidii di vescovi e abati, e che è opportuno che i contrasti popolari, che spesso hanno luogo nelle elezioni vengano repressi dalla maestà regale. Per la qual cosa alla tua prudenza e alla tua potestà deve sollecitamente incombere la cura di conservare la grandezza della Chiesa romana e la buona salute delle altre con i tuoi beneficii e i tuoi servizi, dandoti forza il Signore" (ibid., pp. 144-45). Era un accordo contrario a quanto la Chiesa romana aveva sostenuto fino ad allora.
E tuttavia va considerato che: 1) esso riconosceva realisticamente che il Regno aveva bisogno della pratica delle investiture, ciò che avveniva anche nel privilegio di febbraio; 2) ufficializzava l'intervento del re nelle questioni ecclesiastiche, come regolatore e garante della pace, un punto, anche questo, implicito nell'accordo di febbraio; 3) imponeva la regolarità nelle procedure d'elezione, ciò di cui non si sarebbe potuto fare a meno; 4) accettava di posporre la consacrazione all'investitura, segnando un arretramento rispetto alle posizioni romane, perché configurava il gradimento regio su un prelato, eletto al di là e al di fuori dell'ordinamento pubblico, ma 5) contemporaneamente evitava che l'investitura laica potesse toccare una persona già consacrata. E aveva una piccola clausola limitativa (oltre quella inscritta nella parentesi ["tranne tuttavia coloro ..."], che non compare in tutti i manoscritti): "gli arcivescovi e i vescovi abbiano senza possibilità di dubbio la libertà di consacrare canonicamente i vescovi o gli abati da te investiti". Ancora una volta, come già in febbraio, era questa una "piccola" clausola essenziale (che ritorna nella molto più breve Promissio papae e le dà il tono: "gli arcivescovi e i vescovi abbiano la libertà di consacrare gli uomini investiti dal re": ibid., p. 142), perché corregge quell'automatismo che, in linea di principio, era istituito da tutta la parte precedente e rappresenta una sorta di diritto di veto, che gli ecclesiastici tanto coraggiosi da opporsi alla volontà imperiale avrebbero potuto esercitare. La Chiesa romana, in altre parole, avrebbe dovuto verificare caso per caso quale capacità l'investito dal re aveva di far sentire la propria autorità sulle Chiese locali: così come l'accordo di febbraio prevedeva che l'imperatore dovesse esercitare il controllo sul "publicum". I patti di febbraio e di aprile hanno in comune anche un altro elemento: la garanzia dell'intervento regio a sostegno dell'integrità patrimoniale delle Chiese e della Chiesa romana, un punto, questo, che sta a cuore a P. e ai suoi in maniera evidente. E le lettere papali ci informano che Enrico V assolse fedelmente il proprio impegno, che corrispondeva poi al tradizionale ufficio imperiale di difensore e protettore della Chiesa romana, durante il viaggio di ritorno verso la Germania. A Roma premeva che venisse almeno riconosciuta in linea di principio la legittimità delle proprie rivendicazioni sulla Tuscia meridionale, sull'Umbria, sulla Romagna. Non è forse un caso che il papa sospenda le comunicazioni con l'imperatore dopo che questi ha attraversato il Po. In ambedue i documenti, dunque, gli interessi dei belligeranti erano salvaguardati. Era salvaguardata anche una reciproca libertà di movimento; e dunque anche il reciproco controllo. Tutto si sarebbe misurato sui rapporti di forza concretamente esistenti: non veniva negata la realtà delle cose. Erano accordi concreti, fatti forse non tanto per durare quanto per poter essere conclusi: se a febbraio non era imprevedibile l'opposizione degli ecclesiastici titolari di "regalia", ad aprile non lo era certamente quella di tutti gli altri uomini di Chiesa. Enrico V aveva ottenuto la corona imperiale e il riconoscimento formale della liceità dell'investitura: in termini meno assertivi, gli stessi risultati avrebbe conseguito se fosse stato promulgato il privilegio di febbraio. La pace con Roma era fatta. Quanto a P., aveva ottenuto il controllo delle elezioni episcopali nel Regno d'Italia e il riconoscimento della sovranità romana fino alla Romagna: a febbraio aveva conseguito una vittoria clamorosa con la condanna formale della pratica delle investiture, ad aprile aveva concretamente preso atto del fatto che essa era sì condannabile, ma ineliminabile; su questa stessa via si mosse il concordato di Worms undici anni più tardi. Dopo tanti decenni sarebbe stata riaffermata la collaborazione organica tra l'Impero e la Chiesa di Roma, posti nuovamente a presidio della pace e della tranquillità generale, reciprocamente garanti dell'una e dell'altra. Enrico V depose Silvestro IV, il quarto ed ultimo antipapa della serie inaugurata da Clemente III; impedì ai Normanni inglesi che erano con lui di muovere in direzione del Sud, per bloccare qualunque velleità di intervenire nel vuoto di potere conseguente alla morte di Ruggero, Boemondo e Riccardo (il nuovo imperatore non intendeva mettere in discussione lo status quo nemmeno rinnovando le pretese dei suoi predecessori: figurarsi se avrebbe acconsentito a riconoscere quelle di altri!). L'accordo era perfetto. Ma il resoconto papale (Relatio registri Paschalis) parlò di "coazione": il papa era stato "costretto" a fare quel che aveva fatto, ma l'aveva fatto perché lo riteneva utile e giusto. Con quale autorità, però, P. aveva contraddetto la tradizione, innovato il diritto? Questo fu il problema intorno al quale ruotarono la politica e le discussioni degli anni seguenti, almeno fino al 1116. L'autodifesa papale si incentrò su un argomento che venne ripetuto: "mi scrisse in alcune lettere di aver fatto ciò che ha fatto perché costretto, e di proibire ancora ciò che proibì, anche se ha rilasciato a certi nefandi certi scritti nefandi", testimonia Ivo di Chartres (ep. 233, in P.L., CLXII, col. 236). Il papa aveva fatto ciò che aveva fatto perché minacciato dal re non soltanto nella sua persona (per la qual cosa avrebbe ben potuto affrontare il martirio), ma anche nel suo gregge: l'ha fatto per evitare rappresaglie terribili contro la città e il Patrimonio. Ma il pensiero canonistico era concorde: la costrizione era una delle coordinate lungo le quali si poneva la situazione d'emergenza e la liceità di dispensare dalla legge. E questa era una delle attribuzioni principali del papa. Nonostante tutti gli attacchi contro la Sede apostolica, questo non poteva essere contestato neppure da parte di uomini eminenti come il cardinale e abate di Montecassino, Bruno di Segni, che tentò di coinvolgere nella sua opposizione al papa - o, per meglio dire, nel suo nuovo episodio di opposizione a Roma, giacché aveva già avuto modo di scontrarsi con Gregorio VII e con lo stesso P. - anche gli ecclesiastici della signoria canossana; o l'abate di Vendôme Goffredo, l'arcivescovo di Lione, il vescovo di Vienne - poi Callisto II -, l'abate di Cluny e figlioccio di P., Ponzio di Melgueil. E le accese discussioni degli anni 1111-1112, che diedero luogo ad un'importante produzione libellistica e sfociarono nel concilio Lateranense del 3-8 marzo 1112, misero in luce un'altra condizione generale che rendeva impossibile mettere sotto accusa il romano pontefice: il papa, successore dei principi degli apostoli sulla Sede romana, interprete della continuità e della legittimità di quella successione, titolare dell'autorità di quella Sede, che, come aveva proclamato Gregorio VII nei Dictatus papae (XXVI), citando s. Ambrogio, deteneva il monopolio dell'ortodossia ("Che non sia da considerarsi cattolico chi non è d'accordo con la Chiesa romana"), non poteva essere accusato di aver deviato dalla retta fede. Nessuno poteva imputare al papa di essere incorso nella condizione di aver tralignato dalla fede, dunque di essere caduto in eresia (larvatamente questa accusa era stata avanzata da Bruno di Segni): se ciò fosse accaduto ci si sarebbe trovati di fronte alla fine, con l'Anticristo sulla sede di Pietro (aveva osato scriverlo Goffredo di Vendôme), il che non era ammissibile e non era previsto dal tessuto del pensiero canonistico. Esso anzi prevedeva un'altra circostanza del tutto conseguente e divergente: chi avesse accusato di eresia il papa si sarebbe posto da sé fuori dall'ortodossia, divenendo automaticamente un eretico. Argomenti forti, come si vede bene, ma che forse non sarebbero stati sufficienti, se il pontefice non avesse potuto ricorrere anche a misure coercitive e disciplinari. Montecassino fu costretta a darsi un nuovo abate (e Bruno di Segni venne isolato); Cluny fu minacciata di essere lasciata sola di fronte ai ricorrenti problemi con l'ordinario diocesano, e il suo abate non partecipò neppure al concilio del 1112 (anzi, mentre esso si teneva, si trovava dall'altra parte dell'Europa, in Fiandra); Goffredo di Vendôme fu messo sotto inchiesta dal legato papale Geraldo d'Angoulême e si trovò nella spiacevole condizione di dover ammettere i propri attacchi al papa (e riconoscersi eretico) o di negarli rinunciando ad ogni coerenza e dignità: "Non sono così disturbato mentalmente, né all'oscuro delle sante Scritture, da aver posto senza causa la mia bocca contro colui che solo al cielo deve dimostrare la sua innocenza, cioè contro il padre spirituale, che debbo abbracciare con le braccia della dilezione filiale, e venerare con pura verità, e dalla cui santa ubbidienza non potrò essere separato neppur morto. Se qualcuno intende di me altrimenti, vaneggia […]. Infatti chiunque, contro la purezza del mio animo, si faccia assertore di una mia offesa al padre, venga allo scoperto, e subito mi troverà veritiero correttore della sua falsità" (ep. 20, in P.L., CLVII, col. 61). Goffredo riepilogava il succo del pensiero canonistico, e in filigrana rendeva efficacemente i lineamenti della questione: non avrebbe mai potuto (perché non avrebbe mai dovuto) scrivere quello che, al contrario, aveva già scritto, ma che, evidentemente, il legato aveva potuto conoscere soltanto per sentito dire. E non mancarono ragionamenti più raffinati, ma a tal punto da essere potenzialmente eversivi e perciò, forse, rimasti marginali: Ivo, eminente canonista e vescovo di Chartres, che aveva accettato l'investitura regia, erettosi a difensore di P., suggerì una via d'uscita all'impasse prodotta dall'azione del pontefice e dalle reazioni antipapali, argomentando che l'investitura non era un'eresia, perché attiene alle mani, "che possono fare buone o cattive azioni, ma non credere o errare nella fede" (in M.G.H., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, II, p. 653). Un argomento sottile, ma pericoloso, perché capace di mettere in discussione anche le implicazioni della XXVI proposizione dei Dictatus papae. Se la Chiesa romana aveva deciso che l'investitura era un'eresia, soltanto la Chiesa romana avrebbe potuto pronunciarsi nuovamente su questo punto. Negare che il papa si fosse macchiato d'eresia, perché ciò che aveva fatto non poteva considerarsi eresia, significava dare legittimità anche a coloro che sostenevano il contrario, perché spogliava la Sede romana e il suo pontefice del "principium individuationis" (per dir così) dell'ortodossia. Comunque Ivo suggerì anche qual era l'unica via d'uscita concessa dall'elaborazione canonistica: "si giudichi da sé [il papa], o ritratti quanto ha fatto" (ep. 233, col. 236). Era l'unico modo per arrivare ad una pacificazione nella Chiesa. Il papa non poteva tenersi a ciò che aveva fatto, perché troppo aveva presunto delle proprie capacità di innovazione della legge e delle proprie prerogative, ma nessuno poteva imporgli di smentirsi. Questo, appunto, fu ciò che si vide durante il concilio Lateranense del 1112. P. fece una professione pubblica di fede. Sarebbe potuto bastare. Ma, nella Vita Paschalis II, riscritta nella seconda metà del XII secolo dal cardinale Bosone (1178), compare l'attestazione da parte di P. di un atto che egli avrebbe compiuto il giorno dopo aver sottoscritto quello che i suoi avversari avevano ribattezzato come il "pravilegium" del 12 aprile 1111, cioè a dire il giuramento che non avrebbe mai scomunicato Enrico: "Per quanto la condizione preposta ai giuramenti non sia stata osservata da lui e dai suoi, e infatti non hanno mantenuto ciò che da loro è stato giurato, io tuttavia non lo anatemizzerò mai […] a proposito delle investiture […]. Hanno come giudice il Signore. D'altra parte quello scritto, che feci costretto da grandi necessità, non per la mia vita, non per la mia salvezza, ma solo per le necessità della Chiesa, senza il consiglio né le sottoscrizioni dei fratelli, sopra il quale non siamo costretti da nessuna condizione, da nessuna promessa, lo riconosco atto pravo, lo confesso atto pravo, e desidero con l'aiuto di Dio correggermi del tutto. Affido la misura della correzione al consiglio e al giudizio dei fratelli che sono convenuti, onde non possa avvenire che si lasci in futuro qualche danno per la Chiesa e il giudizio dell'anima mia" (Le Liber pontificalis, II, p. 370). Nulla di più. Il papa si è giudicato, ma non ha ritrattato. Si rimette al giudizio del concilio. Ma il concilio non può giudicarlo. Gregorio VII l'aveva detto con chiarezza: "Nessuno lo possa sottoporre a giudizio" (Dictatus papae, XIX). Ora che il papa si dichiarava disposto a sottoporsi volontariamente al percorso di riammissione dell'eretico nella comunità ecclesiale, che doveva culminare nell'atto penitenziale, chi avrebbe potuto accettare che lo facesse, dato che questo implicava un giudizio esplicito (e, per di più, giudizio d'eresia)?
P., accettando di convocare il concilio, aveva messo a nudo il nocciolo del problema: l'ingiudicabilità del papa, la propria ingiudicabilità. Ciò che aveva un corollario importante, quello della potenziale insindacabilità del romano pontefice, della propria potenziale insindacabilità. Il pensiero canonistico non aveva strumenti per reagire a questo colpo. Di più: se anche, come aveva scritto Bruno di Montecassino, qualcuno avesse voluto sostenere che la verità di fede era garantita proprio dalle decisioni delle assemblee conciliari, il concilio del 1112 avrebbe stabilito che i papi erano istitutori di fede, perché nessuno poteva correggerli. Neppure Gregorio VII era mai arrivato a tanto: non era mai stato costretto a spingersi tanto oltre. Nessuno poteva comminare una penitenza al pontefice. L'atto penitenziale di P. restò incompiuto; così com'era stato impostato, non poteva essere compiuto. La soluzione era talmente ambigua che Guido di Vienne, che non era andato a Roma, osò ancora protestare. Minacciò velatamente uno scisma. Ottenne un'ambigua risposta, che ribadiva le ferree leggi della gerarchia, ma tollerava che qualcuno al di fuori della Sede apostolica avesse condannato il patto di aprile. Era un compromesso, la pace nella Chiesa era stata ritrovata. E P. la puntellò cominciando a sistemare i suoi uomini sulle sedi cardinalizie. Nel 1115 morì Matilde di Canossa. L'imperatore scese nuovamente in Italia; del suo seguito faceva parte l'abate di Cluny. L'8 marzo 1116, un altro concilio si teneva al Laterano. P. compì un gesto clamoroso. Secondo il racconto di Ekkehard d'Aura si levò e disse: "Dopo che il Signore fece ciò che volle del suo servo e diede me e il popolo romano nelle mani del re, vedevo ogni giorno dappertutto rapine e incendi, uccisioni ed adulterii. Questi ed altri consimili mali desideravo allontanare dalla Chiesa e dal popolo di Dio; e ciò che ho fatto, l'ho fatto per la liberazione del popolo di Dio; l'ho fatto come uomo, poiché sono polvere e cenere. Ammetto di aver agito male, ma prego voi tutti di pregare Dio per me, affinché mi perdoni. Comunque quello scritto malefico che è stato fatto nelle tende, che per la sua pravità è detto pravilegio, condanno sotto perpetuo anatema perché mai sia di buona memoria: e prego voi tutti che facciate altrettanto" (in M.G.H., Scriptores, VI, a cura di G.H. Pertz, 1844, p. 250). Dunque P. era riuscito ad ammettere la sua colpa, a ribadire la condanna e la "damnatio memoriae" del "pravilegio", a ripetere la spiegazione ufficiale, a farla accettare nuovamente dal concilio. Ma la responsabilità della colpa incombeva su di lui soltanto in quanto uomo: il papa non veniva neppure sfiorato dall'idea di una possibile colpa. In quanto uomo poteva essere giudicato dai padri conciliari? In ogni caso, non gliene lasciò il tempo, perché chiese subito le loro preghiere in suo sostegno; così l'uomo si sottraeva al giudizio e ritornava papa, e ancora una volta il papa aveva seguito l'unica procedura possibile per lui, quella dell'autoumiliazione, dell'autogiudizio, della ritrattazione. Dobbiamo a Gerhoh di Reichersberg (metà del sec. XII) un'altra versione, secondo un documento che egli dice di aver visto a Roma: "confesso a Dio onnipotente e a voi che mi pento che quel privilegio, o piuttosto pravilegio, che ci è stato estorto nelle tende mai sia stato dato a qualcuno […]. In questa sinodo, come nella precedente, scomunichiamo quello e tutti coloro che lo vogliono tenere per privilegio. A Dio e a voi promettiamo, fino a quando questa misera anima abiterà nel suo indegno corpo, che mai vogliamo acconsentire a qualcosa contro i decreti dei padri nostri, se piace alla Sua maestà. Perciò vi prego che preghiate per me, misero peccatore, perché si degni di rimettere a me questo delitto e tutti i miei peccati" (ibid., Libelli de lite imperatorum et pontificum saec. XI et XII conscripti, III, a cura di E. Dümmler-E. Sackur, 1897, pp. 190-91). P. confessa e si pente: l'itinerario penitenziale è reso esplicito dal linguaggio tecnico della confessione pubblica, la pubblica attestazione del pentimento e della colpa, che attende una riparazione. Ma non si tratta di un "misero peccatore" che si propone al giudizio. È il papa che intraprende una procedura penitenziale e si sottrae alla penitenza dell'assemblea, perché essa può venirgli solo da Dio, non dalla collegialità episcopale. P. perfezionò così quell'atto penitenziale che nel 1112 non aveva potuto aver corso: perché fu lui ad iniziarlo e ad imporlo all'assemblea conciliare, con ciò negando valore a qualsiasi procedura alternativa e diversa; perché sottrasse se stesso alla penitenza degli uomini, come pontefice romano che si autoriconosceva "misero peccatore" (altri non avrebbero potuto farlo, come sappiamo); perché, nella confessione della colpa e nell'ammissione della contrizione, pose il romano pontefice direttamente al cospetto di Dio. E così mostrò agli occhi degli uomini la visione del romano pontefice di fronte a Dio: una visione di superiorità assoluta del proprio potere. Era il trionfo della potestà papale, un trionfo destinato a rimanere insuperato per lungo tempo. "Questa Chiesa mai ebbe eresie: anzi qui tutte le eresie sono state abbattute": lo avrebbe proclamato il papa, secondo Ekkehard, di contro ad un ultimo attacco di Bruno di Segni. Mentre il documento citato da Gerhoh racconta che il papa non ebbe neppure bisogno di intervenire, perché la sua difesa fu assunta dal cancelliere Giovanni di Gaeta (poi Gelasio II), che fece un deserto logico attorno a chi avrebbe potuto non riconoscere l'argomento principe della superiore autorità della Chiesa romana che nel 1112 aveva ispirato una lettera del papa al "basileus": non la volontà, che sola rende responsabile, ma la necessità aveva indotto il pontefice ad agire così come aveva fatto, e solo la volontà può rendere eretici; dunque il problema, così come fino ad allora era stato posto dagli oppositori, non avrebbe nemmeno potuto porsi. Non c'era quasi bisogno dell'autorità: bastava la logica... Il giorno successivo al trionfo, il papa trattò segretamente con gli incaricati dell'imperatore, che, ancora una volta, non aveva scomunicato. E che non scomunicò neppure dopo che Enrico V, avendo invalidato il giuramento di Matilde, andò a prendere possesso, simbolicamente, delle terre della estinta famiglia canossana, nonostante il fatto che Matilde ne avesse fatto donazione a s. Pietro (ma si trattava di una questione intricata e contraddittoria). La Chiesa era pacificata. Ma, a due settimane dalla conclusione del concilio, il 30 marzo 1116, la signoria papale su Roma veniva scossa da una nuova ribellione, ispirata, pare, dal conte di Tuscolo. P. si ritirò ad Albano. In mancanza di alleati pronti a portargli aiuto, le sue forze non erano sufficienti per ottenere una vittoria: a malapena riuscivano ad equilibrare quelle degli avversari. Furono i suoi principali alleati, i Pierleoni, a sostenere in città l'urto dei suoi nemici. La difficile situazione non impedì comunque al papa di riprendere il filo delle grandi strategie (o forse gli suggerì di farlo?): propose tanto al vicino Ruggero II, conte di Sicilia, quanto al lontano re di Danimarca un modello di collaborazione fra la pubblica potestà regia e l'autorità sacerdotale, secondo quell'ispirazione gelasiana che aveva ispirato anche gli atti (ambedue gli atti) del 1111. All'inizio del 1117 si riaffacciò in Italia l'imperatore, che si diresse verso Roma, ufficialmente per difendere il papa dai suoi nemici, ma poi si alleò con il conte di Tuscolo: come sempre, gli imperatori cercavano di inserirsi nei giochi politici cittadini, senza per questo riuscire ad essere determinanti. Per tutta risposta, P. lasciò Roma per Benevento. Enrico aveva con sé Maurizio, arcivescovo di Braga, che aveva cercato la protezione imperiale, dopo che P. non lo aveva sostenuto nella contesa con il suo suffraganeo vescovo di Compostella, il quale, d'accordo con i vescovi della Galizia, mirava a fare di tale regione una provincia ecclesiastica a sé stante (e sí che era stato Maurizio a far arrivare nella penisola iberica la preziosa testa di s. Giacomo!). E a Roma, in assenza di P. Enrico ottenne da Maurizio di farsi incoronare nuovamente imperatore insieme con la moglie Matilde (25 marzo 1117). Da Benevento P. scomunicò l'arcivescovo di Braga. Arrivò l'estate del 1117: Enrico V riprese la via del nord mentre il papa, debilitato dalla dissenteria, si ritirava ad Anagni. Ma il 16 dicembre era a Palestrina. Improvvisamente nella prima metà di gennaio del 1118 tornò a Roma. I suoi nemici, terrorizzati, chiesero inutilmente la pace: il pontefice fece apprestare le macchine da guerra per infliggere il colpo definitivo. Ma il 21 gennaio 1118 P. morì. Il suo sepolcro era già pronto in S. Giovanni al Laterano: la sede del vescovo di Roma, la basilica fondata da Costantino, il luogo del riposo eterno di Silvestro II, il papa di Ottone III. Il papa e il vescovo di Roma si identificavano e si univano nella sede imperiale, dell'Impero antico e rinnovato. Anche nella morte del suo pastore la Chiesa di Roma riaffermava il proprio primato, e attraverso il primato la propria perennità.
fonti e bibliografia
Il Registro di P. è perduto. La maggior parte delle sue lettere è stata raccolta in P.L., CLXIII, coll. 31A-448B; gli atti dei concili presieduti da P. nel primo decennio del suo pontificato sono stati editi, a cura di U.-R. Blumenthal, in The Early Councils of Pope Paschal II 1100-1110, Toronto 1978; più sparse le fonti per i concili Lateranensi del 1112 e del 1116 (rinviamo ai saggi, citati di seguito, di U.-R. Blumenthal, Opposition, passim, e G.M. Cantarella, La costruzione, pp. 114 ss.).
La Vita di P. ha avuto una nuova edizione critica in Liber Pontificalis nella recensione di Pietro Guglielmo OSB e del card. Pandolfo, glossato da Pietro Bohier OSB, vescovo di Orvieto, a cura di U. PŠrerovsk´y, II, Roma 1978 (Studia Gratiana, 22), pp. 705-26.
Gli atti dei trattati del 1111 in M.G.H., Leges, Legum sectio IV: Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, a cura di L. Weiland, 1893, pp. 134-52. Si può dire che la storiografia contemporanea sia stata inaugurata dal saggio fondamentale di P. Zerbi, Pasquale II e l'ideale della povertà della Chiesa, "Annuario dell'Università Cattolica del Sacro Cuore", 1964-65, pp. 207-29, che avanzò per primo un'interpretazione pauperistica, condivisa da G. Miccoli, La storia religiosa, Torino 1974 (Storia d'Italia, diretta da G. Galasso, II, 1), pp. 513-14, e di recente ripresa da G.G. Merlo, Proprietà ecclesiastiche e potenza delle chiese vescovili nel secolo XII, in Storia dell'Italia religiosa, I, L'Antichità e il Medioevo, a cura di A. Vauchez, Bari 1993, p. 295; per uno status quaestionis della bibliografia fino alla fine degli anni Settanta (P. come uomo debole, mite e indifeso o come antesignano di s. Francesco, i concili del 1112-1116 come anticipatori del conciliarismo del XV secolo): G.M. Cantarella, Le vicende di Pasquale II (1099-1118) nella recente storiografia, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 35, 1981, pp. 486-504. La verifica delle interpretazioni nate negli anni Sessanta ha orientato la ricerca verso uno studio più specialistico, approfondito e complessivo, modificando decisamente il quadro: U.-R. Blumenthal, Patrimonia and Regalia in 1111, in Law, Church and Society, Philadelphia, Penn. 1977, pp. 9-20; Ead., Paschal II and the Roman Primacy, "Archivum Historiae Pontificiae", 16, 1978, pp. 67-92; Ead., Opposition to Pope Paschal II: Some Comments on the Lateran Council of 1112, "Annuarium Historiae Conciliorum", 10, 1978, pp. 82-98; C. Servatius, Paschalis II. (1099-1118). Studien zu seiner Person und seiner Politik, Stuttgart 1979; G.M. Cantarella, Ecclesiologia e politica nel papato di Pasquale II. Linee di una interpretazione, Roma 1982; U.-R. Blumenthal, Bemerkungen zum Register Papst Paschalis II., "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 66, 1986, pp. 1-19; Ead., The Correspondance of Pope Paschal II and Guido of Vienne, 1111-1116, in Supplementum festivum. Studies in Honor of Paul Oskar Kristeller, New York 1987, pp. 1-11; G.M. Cantarella, La costruzione della verità. Pasquale II, un papa alle strette, Roma 1987; Id., Pasquale II e il suo tempo, Napoli 1997.