Pasquale Stanislao Mancini
Pasquale Stanislao Mancini è stato un protagonista centrale della storia giuridica europea, sebbene non abbia avuto molta fortuna dal punto di vista storiografico. L’affermarsi dello specialismo disciplinare e i cambiamenti di paradigma avvenuti nella cultura giuridica italiana nel corso degli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento lo hanno a lungo confinato nella galleria polverosa dei padri fondatori e oggetto solo di ricordi celebrativi. Al contrario, il suo profilo biografico e la sua ricchissima produzione – fatta di memorie forensi, testi legislativi, discorsi parlamentari, progetti editoriali più che di opere dottrinali – ci restituiscono la vera immagine del giurista italiano del 19° sec.: avvocato, professore, parlamentare.
Mancini nacque il 17 marzo 1817 a Castel Baronia (Avellino) da Francesco Saverio e Maria Grazia Riola. Nel 1832 si trasferì a Napoli per studiare giurisprudenza, ma frequentò poco l’università, preferendo l’affollatissima scuola privata dell’abate Furiati ed entrando poi nello studio di Giuseppe e Carlo Poerio. Ancor prima della laurea, conseguita nel febbraio 1844, cominciò a esercitare l’avvocatura (era allora sufficiente la licenza) cui si dedicò ininterrottamente, con grande intensità ed eccezionale successo, fino ai suoi ultimi giorni. Nel 1840 sposò Laura Beatrice Oliva, animatrice di un salotto che fino alla crisi del 1848 fu il ritrovo degli intellettuali napoletani di indirizzo liberale. Carattere privato e dimensione pubblica caratterizzarono anche la scuola che egli aprì nel 1839 con Ruggiero De Ruggieri. Inizialmente limitata a poche materie, si ampliò nel 1842 con la collaborazione di Matteo De Augustinis, Raffaele Tecci e, per un breve periodo, Antonio Scialoja.
Nel corso degli anni Quaranta Mancini fu tra i protagonisti del movimento liberale a Napoli, battendosi specialmente per la libertà di stampa e di commercio e per la riforma del sistema carcerario. Nominato nel 1847, per un breve periodo, professore sostituto di diritto di natura presso l’ateneo napoletano, fu eletto nel parlamento del 1848. La pesante repressione seguita alla breve parentesi costituzionale lo costrinse, nel settembre 1849, a riparare a Torino, dove fu subito accolto nei circoli intellettuali e politici più influenti. Già nel 1850 fu chiamato a far parte della commissione per la revisione della legislazione civile e penale e preparò per il ministero vari progetti di legge. Titolare della cattedra di diritto internazionale pubblico e privato e diritto marittimo nel 1851, tre anni dopo fu nominato relatore nella commissione per la statistica giudiziaria, presieduta da Federico Sclopis, e nel 1857 consigliere del ministero degli Esteri per gli affari diplomatici e il contenzioso diplomatico.
Il 1859 e il 1860 – gli anni cruciali dell’unificazione italiana – proiettarono Mancini sulla scena politica in posizioni di crescente rilievo e lo videro svolgere un ruolo importante nel processo di unificazione legislativa e amministrativa. Nelle elezioni del marzo 1860 fu eletto alla Camera, dove si collocò con crescente autorevolezza tra i moderati della sinistra di Urbano Rattazzi, del quale fu per due settimane ministro della Pubblica Istruzione nell’effimero Ministero del marzo 1862. Alla morte di lui, nel giugno 1873, fu candidato da Giovanni Nicotera per succedergli nel ruolo di capo dell’opposizione, che però andò ad Agostino Depretis. Con la caduta della destra e la «rivoluzione parlamentare», ebbe nel marzo 1875 il dicastero della Giustizia (che tenne fino al 1878) nel ministero guidato da Depretis, per il quale prospettò varie riforme e istituì una commissione per la redazione del codice penale. Nel 1881, nel quarto governo Depretis, ebbe il ministero degli Esteri che diresse fino al 1885. Morì a Napoli il 26 dicembre 1888.
Mancini, come amava ricordare lui stesso, fu e si sentì innanzitutto un avvocato. Della sua straordinaria attività forense rimangono, a stampa, i settantasei volumi di allegazioni conservati nell’Archivio del Museo del Risorgimento di Roma. Accanto all’esercizio della professione, durante l’intero arco della sua vita, Mancini dedicò grandi energie anche alle iniziative culturali ed editoriali.
Nel 1838 rilevò «Le ore solitarie», una rivista originariamente di generico svago intellettuale: sotto la sua direzione la nuova serie, con il sottotitolo di «Giornale di scienze morali legislative ed economiche», si aprì alle «produzioni giurisprudenziali e forensi». Nel suo programma risuonava netto il timbro del vichismo e dell’eclettismo propri dei tentativi di svecchiamento della cultura condotti a Napoli negli anni Trenta e Quaranta, di cui Mancini fu uno dei protagonisti di spicco. Il Congresso degli scienziati italiani a Napoli nel 1845 e a Genova nel 1846, in cui fu tra i partecipanti più attivi, gli offrì invece l’occasione per allacciare rapporti con studiosi italiani e stranieri, mantenuti poi vivi attraverso fitti carteggi.
In forma epistolare era frattanto apparsa a Napoli nel 1841 l’opera che gli diede notorietà e prestigio in tutta la penisola, e che raggiunse le sei edizioni, con qualche modifica e ampliamento, fino all’ultima livornese del 1875, con il titolo definitivo Fondamenti della filosofia del diritto e singolarmente del diritto di punire. Lettere di T. Mamiani e di P.S. Mancini. Nel tentativo di conciliare ordine morale e realtà empirica tramite il diritto e i suoi principi universali, egli respingeva le tesi tanto degli «idealisti», quanto degli «utilitaristi», poiché gli uni e gli altri «mutilarono la natura umana», trascurando di valutare appieno «l’armonia» degli elementi che la componevano. A suo avviso il proprio del diritto era appunto realizzare «la felice alleanza della ragione e de’ sensi, del reale coll’ideale, delle conoscenze a priori e delle sperimentali, della virtù e della felicità; e tutto per lo scopo del bene della Personalità Umana, considerata come mista dell’elemento morale e del sensibile». Pertanto la scala penale doveva ispirarsi a entrambi gli «elementi regolatori», prevedendo solo le pene «che non oltraggino la Morale, e che siano di maggiore Utilità produttrici», ed escludendo la pena di morte, le pene perpetue e quelle che «non lasciano speranza di emendazione» (Fondamenti della filosofia del diritto, 1875, pp. 86-87, 170 e segg.).
Accompagnato dalla fama di valente avvocato e giurista, negli anni dell’esilio torinese Mancini non svolse solo incarichi di rilievo negli organi consultivi e ministeriali, ma, grazie al sostegno di Sclopis e Cesare Balbo e per decisione di Massimo D’Azeglio, ebbe la cattedra di diritto internazionale pubblico e privato e diritto marittimo. Iniziò i corsi nel gennaio 1851 con la celebre prolusione Della nazionalità come fondamento del Diritto delle genti alla quale principalmente è legata la sua fama in Italia e all’estero. Il testo, intriso di passione politica, traghettava nell’ambito del diritto «il domma della Indipendenza delle Nazioni», cardine delle ideologie politiche risorgimentali. Per Mancini la nazionalità consisteva in un complesso di elementi naturali e storici comuni a un popolo: il territorio, l’etnia, i costumi, le leggi e la religione e, soprattutto, la lingua. Ma l’elemento essenziale che in essa infondeva la vita era di carattere spirituale, era «la coscienza che ella acquista di sé medesima e che la rende capace di costituirsi al di dentro e di manifestarsi al di fuori» (Della nazionalità, cit., p. 35) ossia di darsi liberi ordinamenti e di assumere diritti e doveri sul piano internazionale.
All’interno di un discorso che esaltava la forza dei vincoli prodotti da una comune identità culturale, Mancini vedeva nella coscienza di essere parte di una nazione la legittimità dell’esercizio della sovranità statale nei confronti dei cittadini, e nella nazione il vero protagonista delle relazioni internazionali, la «monade razionale» della scienza del diritto internazionale. La nazione era un precedente logico dello Stato, la cui naturalità, necessità, storicità si contrapponeva all’artificialità e arbitrarietà di quest’ultimo. Lo Stato tuttavia non scomparve mai dal suo orizzonte. L’obiettivo di Mancini era infatti la costruzione di uno Stato nazionale, di uno Stato, cioè, che riuscisse a risolvere sia i conflitti politici sociali interni, rendendo inutile il ricorso a opzioni fondative di matrice illuminista, sia la relazione spesso conflittuale tra Stato/società e Stato/popolo, identificando la nazione con lo Stato. Lo Stato italiano era nazionale perché creazione della natura, ed era necessario ed eterno perché naturale. Tali concetti furono sviluppati in lezioni universitarie, discorsi parlamentari e altre prolusioni nell’arco di un ventennio.
Parallelamente, convinto che il moto risorgimentale dovesse basarsi sulla crescita dell’autocoscienza della nazione, sulla maturazione di un sentire unitario promosso mediante il progresso di tutte le scienze – in particolare sociali e giuridiche, connesse in una «larga sintesi», secondo l’insegnamento di Gian Domenico Romagnosi –, diede nuovo impulso alle iniziative culturali ed editoriali. Il filo conduttore di quest’opera di costruzione dell’identità nazionale si può riassumere con i termini che egli stesso ripeté costantemente nelle sue pubblicazioni: individuare e recuperare all’Italia le sue autonome tradizioni di pensiero; «associare» intorno a opere collettive gli «intelletti più vivi», senza preclusioni di provenienza o di scuola, in modo da attivare un circuito virtuoso degli autori fra loro e con il pubblico dei lettori, per allargare ed educare l’élite culturale del Paese; costruire l’«edifizio della scienza nazionale», tanto solido da potersi porre a confronto con gli Stati europei più avanzati.
Tra queste iniziative fu di particolare rilievo l’edizione, rimasta interrotta, delle Opere inedite di Pietro Giannone, avviata fin dai primi anni Cinquanta e offerta al pubblico nel 1859. Sempre nel 1850 divenne condirettore, con Niccolò Tommaseo, della «Rivista italiana» (che però cessò le pubblicazioni lo stesso anno) e collaborò con Terenzio Mamiani nella conduzione dell’Accademia di filosofia italica, che si proponeva di riesaminare la tradizione filosofica italiana in quanto componente essenziale della tradizione nazionale. All’Accademia lesse nel 1852 un discorso su Machiavelli e la sua dottrina politica, divenuto poi il lungo saggio introduttivo a un’edizione del Principe e dei Discorsi (1852), dei quali resta una delle letture più penetranti dell’Ottocento. Nel 1859 giunse a compimento la pubblicazione del Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri Codici italiani, e delle principali legislazioni straniere che aveva ideato e diretto con Giuseppe Pisanelli e Scialoja. Nel 1866, a Firenze capitale, creò gli «Annali della giurisprudenza italiana»; infine nel 1881 gli riuscì il varo della Enciclopedia giuridica italiana, che diresse nelle fasi iniziali.
La costruzione di un'identità nazionale presupponeva, tuttavia, anche l’unificazione legislativa e amministrativa. Della questione Mancini fu investito fin dall’autunno 1859: in ottobre ricevette da Rattazzi l’incarico di una missione segreta in Toscana per convincere il governo provvisorio ad adottare immediatamente i codici sardi (già estesi alla Lombardia), superando le resistenze autonomistiche che vi si opponevano. Sotto il nuovo ministero Cavour continuò a occuparsi delle trattative con Firenze e, ai primi di febbraio del 1860, fu inviato a Bologna dal ministro della Giustizia Giovanni Battista Cassinis per orientare l’attività della commissione legislativa emiliana. Quella per la riforma del codice civile, istituita nel frattempo a Torino, riuscì in breve, con il contributo determinante di Mancini, a fornire a Cassinis un progetto poi non approvato, ma che costituì la base dei successivi, sino a quello definitivo, promulgato nel 1865.
Nell’ottobre del 1860, dopo la sua elezione alla Camera, fu investito subito di compiti assai gravosi. A metà ottobre fu inviato a Napoli e, con la collaborazione di Carlo Poerio e Scialoja, stese in pochi giorni una particolareggiata relazione sui provvedimenti più urgenti da adottare, miranti con decisione a una «provvida e necessaria unificazione legislativa, che è il vero cemento dell’unificazione politica», temperata però da provvedimenti che ne facilitassero l’accoglimento. I contrasti politici e la disparità di vedute tra i commissari, i dissensi con Luigi Carlo Farini circa il modo di procedere, lo indussero a dimettersi dal consiglio di luogotenenza del quale era entrato a far parte. Vi rientrò nel 1861 con la luogotenenza di Eugenio di Savoia (ma in sostanza di Costantino Nigra) e, nel febbraio 1861, riuscì a far promulgare importanti decreti di stampo giurisdizionalistico nelle materie ecclesiastiche, i tre decreti che estendevano al Mezzogiorno continentale i codici sardi penale e di procedura penale, con alcune significative modifiche, e la legge sull’ordinamento giudiziario. Con la riorganizzazione della luogotenenza nel marzo, ebbe la direzione della giustizia e degli affari ecclesiastici.
Sebbene fino allora avesse agito come deciso «centralizzatore», si schierò fra i critici della politica del governo nei riguardi del Mezzogiorno. Già in dicembre alla Camera, nel corso della sessione dedicata ai problemi del Sud, denunciò il profondo malessere delle province meridionali e la «lesione troppo estesa e profonda» provocata dalla «sistematica e non graduata demolizione» delle loro istituzioni (Discorsi parlamentari, 1° vol.,1893, pp. 39 e segg.). In sostanza restò sempre un esponente tipico del notabilato parlamentare di origine meridionale, benché nel suo caso ispirato a profondi convincimenti d’ordine costituzionale. Nella ferma difesa delle libertà individuali e delle garanzie statutarie, avversò la deriva autoritaria dei provvedimenti per l’ordine pubblico, le leggi speciali e la creazione nel Sud di una sorta di Stato d’eccezione. Nel 1863 attaccò duramente la legge Pica e si espresse poi contro la sua proroga nel 1864. Nei numerosi, ripetuti interventi sui rapporti tra Stato e Chiesa – la questione romana, gli abusi dei ministri di culto, la legge sull’eversione dell’asse ecclesiastico (1867), la legge sulle guarentigie (1871) – si discostò risolutamente dalla linea già di Cavour e dei governi della destra, talvolta non senza punte anticlericali.
Il problema dei codici dell’Italia unita continuò a essere una delle sue preoccupazioni principali. In vesti diverse e con varia incidenza ne seguì passo passo la formazione. Lavorò a lungo, specie da guardasigilli, sulla questione del codice di commercio, che si concluse solo nel 1882. Riguardo al problema penale, intervenne provvisoriamente nel 1861 con un decreto luogotenenziale di parziale modifica per il Mezzogiorno del codice sardo. La battaglia per l’abolizione della pena di morte fu un impegno costante della sua vita, in unione con i penalisti italiani più influenti (Francesco Carrara, Tancredi Canonico, Pietro Ellero, Baldassarre Poli, Enrico Pessina, fra gli altri). Dopo vari tentativi infruttuosi, i suoi sforzi culminarono nel 1876 con i lavori preparatori al codice penale, che non ebbero l’esito sperato, ma che fornirono l’impianto ai successivi progetti, e che comunque gli permisero di ottenere la sospensione in tutto il regno dell’esecuzione di condanne a morte.
Nel frattempo la sua fama di internazionalista era saldamente stabilita in Europa: considerato il fondatore della scuola italiana di diritto pubblico, il ‘suo’ principio di nazionalità era stato accolto nelle disposizioni preliminari del codice civile italiano, si era adoperato per la stipula di convenzioni assai rilevanti nel campo del diritto internazionale privato; aveva pubblicato con Charles Demangeat ed Édouard Clunet il «Journal de droit international privé», sostenuto l’avvocato belga Gustave Rolin-Jaequemyns nella fondazione della «Revue de droit international et de législation comparée» e dell’Institut de droit international di cui era stato nel 1873 il primo presidente; aveva svolto un ruolo determinate nella modifica della legislazione consolare italiana e nella nascita dei tribunali misti egiziani. Ma negli anni Ottanta il terreno della politica estera del regno d’Italia era quanto mai accidentato. Appariva ormai necessario uscire dall’atteggiamento di disimpegno mantenuto dai precedenti governi della sinistra nei rapporti con le potenze europee, che manifestavano un accentuato dinamismo espansionistico proprio nell’area mediterranea. Come ministro degli Esteri Mancini si mosse non senza oscillazioni ed errori di valutazione. Tramontate in modo scottante le mire su Tunisi, con il conseguente allontanamento dalla Francia, nel timore di un isolamento sul piano internazionale e per ragioni di politica interna che esigevano il rafforzamento di una stabilità moderata, si convinse a concludere nel maggio 1882 la Triplice alleanza con gli imperi centrali, la Prussia e l’Austria.
Nel giugno 1882 ottenne il riconoscimento internazionale del possesso italiano di Assab. Alla Camera gli fu rimproverato aspramente che la sua azione contraddiceva i principi di indipendenza delle nazioni, da lui stesso sostenuti, e che erano stati alla base del movimento risorgimentale. Replicò in modo tortuoso che l’Italia intendeva stabilire semplicemente «colonie commerciali», che il controllo del Mar Rosso era quanto mai promettente per «l’espansione industriale e commerciale» del suo popolo, e che comunque il principio di nazionalità non poteva applicarsi in modo immediato a territori «abitati da tribù quasi selvagge e semibarbare» (Discorsi parlamentari, 6° vol., 1896, pp. 576 e segg.). Più gravi furono le incertezze durante l’estate. Preoccupato piuttosto di assicurare la conservazione degli equilibri esistenti nel Mediterraneo che di inserirsi nel gioco delle potenze europee, respinse l’offerta britannica di partecipare a una spedizione militare in Egitto, dove era scoppiata la rivolta nazionalistica capeggiata da ‘Urabi.
Nel 1884 la situazione nel Mediterraneo divenne ancora più incandescente, per le mosse nell’Africa settentrionale della Francia, dell’Inghilterra, della Germania. Riuscì a ottenere la partecipazione dell’Italia al Congresso di Berlino in cui le potenze occidentali fissarono i criteri per la spartizione del continente africano e le sue istruzioni al plenipotenziario italiano Edoardo De Launay costituiscono una traccia importante delle competenze che ebbe anche nel diritto coloniale. Tuttavia, nel 1885 la sua politica coloniale fu approvata con un voto assai risicato, che provocò la caduta del governo e la fine del suo incarico.
Isolato ormai dalla vita politica, fece in tempo a pronunciare alla Camera il 7 giugno 1888 un appassionato discorso in occasione della discussione generale sul nuovo codice penale (Discorsi parlamentari, 8° vol., 1897, pp. 590 e segg.) e a vedere approvato all’unanimità un ordine del giorno che aboliva definitivamente la pena di morte.
Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti, Torino 1851.
Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri Codici italiani, e delle principali legislazioni straniere, 5 voll., Torino 1855-1859.
Diritto Internazionale. Prelezioni con un saggio sul Machiavelli, Napoli 1873.
Fondamenti della filosofia del diritto e singolarmente del diritto di punire. Lettere di T. Mamiani e di P.S. Mancini, Livorno 1875.
Discorsi parlamentari, 8 voll., Roma 1893-1897.
C. Zaghi, P.S. Mancini, l’Africa e il problema del Mediterraneo, 1884-1885, Roma 1955.
G. D'amelio, Pasquale Stanislao Mancini e l’unificazione legislativa nel 1859-61, «Annali di storia del diritto», 1961-1962, pp. 159-220.
E. Jayme, Pasquale Stanislao Mancini. Internationales Privatrecht zwischen Risorgimento und praktischer Jurisprudenz, Ebelsbach 1980 (trad. it. Padova 1988).
C. Vano, «Edifizio della scienza nazionale». La nascita dell’Enciclopedia giuridica italiana, in Enciclopedia e sapere scientifico. Il diritto e le scienze sociali nell’Enciclopedia giuridica italiana, a cura di A. Mazzacane, P. Schiera, Bologna 1990, pp. 15-66.
Pasquale Stanislao Mancini. L’uomo, lo studioso, il politico, Atti del Convegno, Ariano Irpino (11-13 nov. 1988), a cura di O. Zecchino, Napoli 1991.
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