Pasquale Villari
Pasquale Villari fu uno dei più importanti studiosi italiani del secondo Ottocento, lo storico allora più noto a livello internazionale; e il suo ruolo nell’orientare le discussioni filosofiche del tempo fu subito riconosciuto, all’estero come in Italia, dai suoi sostenitori come dai suoi avversari. Anche Giovanni Gentile, uno dei suoi critici più aspri, parlò di efficacia innegabile dell’apertura villariana alla cultura positivistica negli anni successivi all’Unità; ma ancora a fine secolo Villari era un punto di riferimento, magari polemicamente assunto, nel dibattito storiografico e metodologico, non solo italiano.
Villari nacque a Napoli, il 3 ottobre 1827. Il padre, avvocato, scomparve nel 1837; la famiglia della madre, Luisa Ruggiero, era ben inserita nella società cittadina. Frequentò alcune scuole private napoletane e fu avviato agli studi legali; dal 1846 al 1848 si accostò alla ‘prima scuola’ di Francesco De Sanctis.
Prese parte ai moti del 15 maggio 1848, fu arrestato e rilasciato. Nell’agosto 1849 si trasferì a Firenze per proseguire gli studi su Girolamo Savonarola. A Firenze si dedicò anche a una non trascurabile attività editoriale e pubblicistica, curando fra l’altro la stampa delle opere di Cesare Beccaria nel 1854. Nello stesso anno apparve il suo primo lavoro metodologico di rilievo, Sull’origine e sul progresso della filosofia della storia. Come insegnante privato di italiano entrò in contatto con la comunità anglo-fiorentina; alla metà degli anni Cinquanta risale l’importante rapporto con John Stuart Mill. Fra alcune polemiche pubblicò, nel 1859, il primo volume di La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, che gli valse la nomina a professore di storia all’Università di Pisa da parte del governo provvisorio toscano. A Pisa sarebbe rimasto, salvo una breve parentesi fiorentina, fino al 1865. Dal 1862 al 1865 diresse la riorganizzata Scuola Normale; nel 1862 e nel 1864 ebbe modo di compiere alcuni viaggi pedagogici in Francia, Gran Bretagna, Germania, che si rivelarono di grande importanza nel definire i suoi orientamenti culturali.
Nel 1865 rientrò a Firenze, dove l’anno successivo avviò il suo insegnamento presso l’Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento, con la celebre prolusione (tenuta il 13 dicembre 1865 e pubblicata nel 1866) su La filosofia positiva e il metodo storico; sempre nel 1866 commentò gli esiti infausti della Terza guerra di indipendenza in un altro scritto che conobbe grande notorietà, Di chi è la colpa? O sia la pace o la guerra. Villari aveva dato avvio alla sua lunga esperienza di scrittore politico già in precedenza, recensendo l’On liberty di Mill, uscito nel 1859, scrivendo da Napoli, nel 1861, sui problemi dell’unificazione (le corrispondenze, originariamente apparse sul quotidiano «La Perseveranza» fra il settembre e l’ottobre 1861, furono integralmente riedite da Gaetano Salvemini nel 1920 con il titolo Le prime lettere meridionali) – dopo aver appoggiato, l’anno prima, l’azione dei moderati in città –, e discutendo, nel 1864, dei caratteri della guerra civile statunitense (La schiavitù e la guerra civile in America).
Dal 1865-66 in poi i tre filoni principali nei quali si articolò l’opera di Villari – ricerca storica e riflessione metodologica, dibattito pedagogico e concreta azione di governo della scuola, impegno politico e civile rivolto ai vari aspetti della ‘questione sociale’ in Italia – furono coltivati in uno stretto intreccio, mentre egli veniva acquisendo una posizione pubblica di un certo rilievo. Nel 1865 venne nominato membro del Consiglio superiore della Pubblica istruzione, organo del quale avrebbe fatto parte, con alcuni intervalli, fino al 1902; per breve tempo, fra il maggio 1869 e il marzo 1870, fu anche segretario generale del ministero della Pubblica istruzione.
Villari tentò anche la via della politica parlamentare: fra insuccessi ed elezioni annullate per eccesso di deputati professori, riuscì a entrare alla Camera solo nel dicembre 1873, per rimanervi fino al settembre 1876 e poi, brevemente, tra il maggio e il dicembre 1880. Nominato nel 1884 senatore, tra il 1897 e il 1913 fu anche, a varie riprese, vicepresidente del Senato.
La dimensione parlamentare, tuttavia, salvo che nel periodo in cui fu ministro della Pubblica istruzione, dal febbraio 1891 al maggio 1892, non va sopravvalutata in rapporto alla sua azione politica: egli fu infatti soprattutto un importante pubblicista, sollecitatore di questioni dinanzi all’opinione pubblica, promotore di iniziative. Fra i suoi scritti più importanti le Lettere meridionali (indirizzate nel marzo 1875 a Giacomo Dina, direttore del quotidiano «L’opinione»), poi riprese in volume nel 1878 (Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia); nello stesso anno Villari fu fra i fondatori, con Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti, della «Rassegna settimanale», uno tra i più rilevanti periodici di cultura e politica dell’Italia liberale.
Dopo aver dedicato alcuni saggi alla storia di Firenze nel Medioevo, successivamente riuniti in volume nel 1893-94 (I primi due secoli della storia di Firenze), Villari lavorò per anni a una biografia di Niccolò Machiavelli, pubblicata fra il 1877 e il 1882 (Niccolò Machiavelli e i suoi tempi); e va sottolineata la risonanza europea della sua produzione storiografica, testimoniata dalle numerose traduzioni delle sue opere maggiori. Egli presiedette anche il Congresso storico internazionale di Roma del 1903.
La fase più tarda del suo impegno storiografico fu caratterizzata dalla pubblicazione di due volumi di sintesi sulla storia medioevale italiana (Le invasioni barbariche in Italia, 1901, e L’Italia da Carlo Magno alla morte di Arrigo VII, 1910), ma soprattutto dal notevole saggio del 1891, La storia è una scienza?, che va inquadrato nella grande discussione europea fra fine Ottocento e primo Novecento, e che costituisce l’approdo di una riflessione complessa.
Attivo come osservatore e critico della vita politica italiana anche negli anni a cavallo fra i due secoli, e collaboratore di importanti quotidiani (fra cui il «Corriere della sera»), Villari si occupò a lungo dei problemi dell’emigrazione, e fu presidente della società «Dante Alighieri» dal 1896 al 1903. Nel 1910 venne insignito dal re del collare dell’Annunziata. Negli ultimi anni di vita seguì con inquietudine gli sviluppi della politica internazionale. Schierato, con qualche dubbio, a favore dell’impresa libica del 1911-12, denunciò, fra il 1913 e il 1914, i pericoli che minacciavano la vita europea. Visse l’intervento in guerra dell’Italia come una dolorosa necessità, di fronte a una catastrofe di proporzioni mondiali. Si spense a Firenze il 7 dicembre 1917.
Nel febbraio 1891, sulle pagine della «Nuova antologia» (s. III, 31, pp. 621-52), Aristide Gabelli, che di Villari fu amico e collaboratore, proponeva questa sintetica ed efficace ricostruzione delle cronache filosofiche dell’Italia di allora:
Il positivismo, che succedette nel predominio alla scuola spiritualistica, si può dividere in due periodi; il primo è il periodo critico, che consistette soprattutto nel disfare le presunzioni e le supposizioni della scuola precedente, e nello stabilire un metodo più rigoroso, per mezzo del quale si fosse potuto poi arrivare alle conchiusioni; il secondo naturalistico, nel quale si credette, che a queste conchiusioni si potesse giungere senz’altro indugio, trasportando addirittura nella filosofia le leggi della vita scoperte o presunte da alcuni cultori delle scienze naturali. Non è facile segnare un punto di divisione tra i due periodi. Ma così all’ingrosso si può dire che il primo è anteriore, non già alle teorie, ma alla propagazione delle teorie di Darwin, il secondo n’è posteriore e in gran parte anche ne fu conseguenza (A. Gabelli, Il positivismo naturalistico in filosofia, 1891, in Id., Educazione positiva e riforma della società, a cura di R. Tisato, 1972, p. 11).
Gabelli scriveva ciò in piena, forse non casuale, coincidenza con Villari, che, tra il febbraio e il luglio 1891, e sulla stessa rivista, interveniva di nuovo su questioni di storiografia e metodo, aprendo di fatto in Italia, e fra i primi in Europa, la stagione del Methodenstreit. Gabelli proponeva una periodizzazione interna alla storia della cultura positivistica italiana che avrebbe conosciuto una certa fortuna; e lo faceva sottolineando, da un lato, i nessi fra le due fasi di quella vicenda intellettuale, ma anche insistendo, dall’altro, sulle differenze fra il positivismo critico e quello naturalistico.
A quasi un secolo di distanza, riarticolando la diagnosi formulata a caldo da Gabelli, Eugenio Garin avrebbe illustrato funzioni, rapporti, contiguità, differenze, del positivismo inteso come «metodo» e di quello inteso come «concezione del mondo», e avrebbe messo in evidenza, proprio con diretto riferimento a Villari,
lo scopo di questo positivismo, il primo positivismo di cui parlava Gabelli: la fondazione di un metodo delle scienze della cultura e della società; in realtà un metodo «storico» per affrontare le scienze dell’uomo. Lungo questa via la filosofia si definiva come metodologia della storia e come filologia, o meglio come riflessione critica sui fondamenti e i resultati delle scienze morali e sociali (Garin 1983, p. 87).
Di questo indirizzo culturale Villari fu uno dei principali esponenti; scrittore e studioso attento, sensibile alle nuove tendenze che si manifestavano a livello europeo, e senz’altro capace di proporre – forse non sempre a un livello adeguato di strutturazione formale del discorso – analisi ben più solide di quanto abbiano voluto riconoscergli i suoi critici neoidealisti, Gentile in primo luogo, ma irriducibile a una dimensione strettamente speculativa – e, aggiungerei, non del tutto comprensibile, persino impoverito, se il suo pensiero viene affrontato e ricostruito per linee interne e privilegiando i testi apparentemente più omogenei da un punto di vista disciplinare, con l’attenzione rivolta solo alla ricomposizione di un itinerario teorico e metodologico.
Dalla scuola purista a quella di De Sanctis e al rapporto con giovani condiscepoli come Luigi La Vista, dagli esercizi di frasi alle passioni letterarie, filosofiche, politiche – Giacomo Leopardi, ammesso anche dai puristi, e i romantici europei, gli storici liberali francesi e Georg Wilhelm Friedrich Hegel per l’estetica e la filosofia della storia –: così si può compendiare la prima fase della formazione villariana fino al 1848. Villari ne uscì con qualche amara esperienza politica, un certo gusto artistico e una ferma volontà di proseguire i suoi studi ‘critici’, storici, filosofici, letterari. A Firenze, nel 1849, pubblicava un breve saggio Sull’epistolario di Giacomo Leopardi, e soprattutto una Introduzione alla storia d’Italia che avrebbe dovuto servire da premessa a uno studio savonaroliano. Notevoli, in queste pagine giovanili, la qualità e la peculiarità della sua cultura storica – da Jean-Charles Sismondi ad Augustin Thierry, da Heinrich Leo a François Guizot –, più europea che italiana, e tale da sorreggere, specie nel confronto con Guizot, la forte tensione interpretativa e generalizzante, tutt’altro che priva di implicazioni politiche, che animava lo scritto. In gioco era, infatti, l’unità della storia nazionale, che Villari credeva di rinvenire in uno schematico meccanismo evolutivo delle istituzioni comunali, ma che prendeva corpo semmai su un piano più generale, culturale e civile, legato al prevalente carattere urbano della storia italiana.
Al di là della ricerca delle leggi che avrebbero regolato lo svolgimento della società comunale, vanno segnalate alcune considerazioni sul cammino delle scienze, sui compiti specifici della storiografia e della scienza politica, sull’applicazione della scienza storica alla vita morale dei popoli. Non si tratta di cercare di individuare, in germe, gli spunti originari di un pensiero storico poi svoltosi organicamente sulla base di alcune premesse costitutive, e di seguirne quindi il coerente itinerario; piuttosto, di tracciare le coordinate di un campo di interessi, di un abbozzo di questionario via via arricchito e ridefinito sulla base di nuove esperienze intellettuali e civili, di letture e sollecitazioni di diversa matrice e provenienza.
Il primo decennio fiorentino di Villari fu un periodo di intenso lavoro, centrato sulla citata biografia savonaroliana, impostata secondo una prospettiva più ampia rispetto a quella originaria: Villari ne scriveva a Terenzio Mamiani nel settembre 1854, mettendo in evidenza da un lato le ricerche d’archivio condotte in quegli anni sulla storia istituzionale di Firenze, e dall’altro le letture che lo avevano quasi spinto a
mutare la vita del Savonarola in una «Storia della Riforma filosofica e religiosa tentata dagl’Italiani». […] La mente, il carattere, la vita, il martirio del Bruno, Campanella e altri (Lo studio del carattere di questi uomini è una parte principale del mio soggetto) mi hanno non poco aiutato a capire il carattere del Savonarola, il primo di quegli uomini che i francesi chiamano «de la Renaissance» (cit. in Moretti 2005, p. 50).
Suggestiva, prima che Jules Michelet intitolasse nel 1855 a La Renaissance il settimo volume della sua Histoire de France, l’adozione di un termine così fortemente connotato in chiave di determinazione epocale, e che Villari del resto trovava già in Edgar Quinet e in Thierry; e il disegno storiografico accennato nella lettera a Mamiani avrebbe in effetti contraddistinto la biografia di Savonarola, così come il problema dei caratteri politici, intellettuali ed etici del Rinascimento italiano, e delle implicazioni di quella stagione per la storia d’Italia, sarebbe stato al centro, da Savonarola a Machiavelli, dell’opera del Villari storico.
Anche su queste tematiche Villari si sarebbe confrontato con gli altri giovani meridionali in esilio, in particolare con Bertrando Spaventa. In una sua celebre lettera a quest’ultimo dell’ottobre 1850 si rammentavano fra l’altro le lezioni hegeliane di De Sanctis:
Fare intendere Hegel all’Italia, vorrebbe dire rigenerar l’Italia […]. L’Italia non deve correre dietro alle pedate di nessuno, ha bisogno di trovare un sistema che rappresenti tutta la sua nazionalità, che raccolga quanti elementi di vita sono in tutta la penisola; ma, prima di tutto, ha bisogno di ritrovare la coscienza di sé medesima, ed a questo nessun sistema è più capace dell’hegeliano (cit. in S. Spaventa, Dal 1848 al 1861: lettere, scritti, documenti pubblicati da Benedetto Croce, 1898, p. 66).
Questa lettera sarebbe stata pubblicata da Croce anche per documentare, risalendo agli esordi, l’itinerario di un transfuga, di una mente debole, cioè, e di un temperamento opportunistico, riattualizzando accuse che erano già circolate fra i compagni napoletani di Villari. La lettera va ricondotta anche alle specifiche contingenze del dialogo con Spaventa, che a Villari scriveva:
Hegel è l’Aristotele della civiltà nuova […]. Ma Hegel non si può tradurre come Aristotele, bisogna comprenderlo, renderlo intelligibile senza superficialità, renderlo popolare, non volgare (B. Spaventa, Epistolario, 1° vol., 1847-1860, a cura di M. Rascaglia, 1995, p. 85).
In realtà la lettera mostra bene il particolare punto di vista dal quale Villari cercava di misurarsi con la tradizione filosofica recente, sollecitata in uno specifico campo di applicazione: in primo piano stava la capacità di sostenere la piena maturazione di una nuova consapevolezza intellettuale e politica, almeno nei gruppi dirigenti, e di costituire il tessuto connettivo di una generale mobilitazione culturale.
I documenti, in accordo con gli indirizzi della prima scuola desanctisiana, ci presentano un giovane Villari attento all’estetica di Hegel; ancora nel 1854, nel saggio che costituisce la prima organica attestazione dell’accostamento di Villari ai grandi autori del positivismo europeo, il citato Sull’origine e sul progresso della filosofia della storia, si affiancava non a caso l’estetica alla filosofia della storia per la sua forza evocativa nell’illustrazione dei tre momenti dello svolgimento dello spirito universale: «il progresso ed il carattere di queste tre età vien dipinto con una potenza, la quale perviene ad animare tutte le formole e quasi divien poesia» (Sull’origine, in Id., Teoria e filosofia della storia, a cura di M. Martirano, 1999, p. 74). Antonio Ranieri, presentando Villari a Giovan Pietro Vieusseux, aveva scritto che a quel giovane la «stolta filosofia germanica […] ha un poco capovolto il cervello» (cit. in Moretti 2005, p. 34); ma anche se di hegelismo in senso stretto non è forse lecito parlare per Villari, con quei testi egli dovette confrontarsi a lungo, fino a permettersi qualche osservazione cautamente ironica sulla «armonia pitagorica del numero tre», che portava Hegel «con violenza e contro ogni ragione» a sottomettere allo schema «i fatti della storia», ma che discendeva da Jacques-Bénigne Bossuet, con il paragone fra la trinità e l’intima natura dell’uomo, passava per le tre età vichiane, i tre periodi della storia di Friedrich Schlegel, per la filosofia della storia hegeliana, giungendo infine ad Auguste Comte e ai «tre periodi per cui corre lo sviluppo delle scienze» (Sull’origine, cit., pp. 75-76).
Non furono solo curiosità intellettuale e attenzione di lettore a spingere Villari a prendere in mano Comte e Mill. Come, in fondo, per Spaventa che gli scriveva della sua traduzione da Lorenz von Stein sul socialismo francese, anche per lui l’esperienza del 1848 aveva contato molto. Le «ultime sventure d’Europa», scriveva, avevano messo in evidenza l’unilateralità e l’astrattezza dei riformatori politici e sociali, in cerca i primi della «forma perfetta di governo» a prescindere dalle diverse condizioni storiche e sociali dei popoli, esclusivamente concentrati i secondi, nella loro indagine sulla «natura della società», sull’«ordinamento della proprietà» (pp. 78-79) che per Villari non poteva invece costituire l’unica struttura portante del corpo sociale.
Questo tipo di preoccupazioni non va sottovalutato, e contribuisce a dar conto delle motivazioni che spinsero Villari ad approfondire la sua indagine sulla nascente ‘scienza sociale’, in una prospettiva che, dal punto di vista politico, assumeva una connotazione di cauto gradualismo riformatore. Villari affrontò seriamente l’opera di Comte, almeno in alcuni suoi aspetti; a proposito, ad esempio, della legge dei tre stadi, che secondo Comte avrebbe regolato il cammino dei saperi, Villari «coglie pienamente il messaggio di Comte» (Donzelli 1999, p. 105).
E in effetti anche il Villari maturo avrebbe impostato le proprie riflessioni di metodo a partire da considerazioni sulla storia della storiografia, così come nel 1854 aveva fatto a proposito della filosofia della storia, fra pensiero storico e scienza sociale, usando quindi la storia del campo disciplinare, della ‘scienza’, come chiave di lettura privilegiata per impostare un discorso analitico sull’assetto metodologico della disciplina stessa. Tuttavia, di fronte a quelli che gli apparivano aspetti qualificanti della proposta comtiana, Villari si mostrava, nel 1854, piuttosto freddo e critico: era indubbio che il grado di sviluppo della ‘scienza sociale’ non fosse paragonabile a quello allora raggiunto da altre scienze,
ma se si crede che tutto dipenda e tutto possa ovviarsi coll’applicazione del metodo delle scienze naturali, noi non ne siamo pienamente convinti. Il vero metodo con cui una scienza deve esser trattata risulta dall’intima natura del soggetto di cui si occupa, e quindi non può essere il medesimo per tutte (Sull’origine, cit., p. 82).
Che su questo punto Villari non cogliesse appieno le articolazioni del pensiero di Comte non è, in fondo, molto rilevante, anche se poco più avanti segnalava l’importanza attribuita da Comte al metodo storico; va invece sottolineata la nettezza, magari schematica, con la quale Villari dava forma a una sua convinzione di fondo, che è uno dei tratti salienti del suo pensiero. Troppo diversa l’«esperienza storica» rispetto alle pratiche sperimentali possibili in altri campi scientifici; eccessivo, poi, l’atteggiamento antimetafisico di Comte, che determinava un’attenzione privilegiata per la «parte più materiale dell’uomo e della società» (p. 82) – e la distanza dalle letture materialistiche della filosofia positiva avrebbe segnato le fasi successive del pensiero villariano.
Anche se Villari non sarebbe rimasto insensibile di fronte ai radicali mutamenti nel campo delle scienze della vita, l’ambito delle scienze dell’uomo fu sempre centrale nel suo pensiero; ed è forse questo uno degli apporti fondamentali della mai abbandonata consuetudine con l’opera di Giambattista Vico, la scelta mai discussa per la ‘filologia’ rispetto alla ‘fisiologia’, il nesso fra la scienza della mente umana e quella del mondo degli uomini. Non solo Vico, comunque, nella tradizione italiana, ma una più ampia serie di riferimenti, da Machiavelli a quegli illuministi, Beccaria e Gaetano Filangieri, attorno ai quali Villari lavorava negli anni Cinquanta, e dei quali avrebbe pubblicato, nel 1854 e nel 1864, edizioni delle opere – attirandosi, subito, le critiche della «Civiltà cattolica» (s. II, 1854, 7, pp. 393-406). La propensione mostrata, nel 1854, per Mill rispetto a Comte era connessa alle indicazioni generali che Villari ricavava dalla lezione vichiana:
E qui è da notare una differenza che passa fra il sig. Comte e il sig. Mill; il primo vorrebbe trar tutto dall’esperienza e dalla osservazione sul passato e sul presente; mentre il secondo crede ancora che dalle leggi della mente umana si possano dedurre dei principii, che provati colla storia verrebbero confermati: insomma il primo si affida interamente all’esperienza storica, il secondo crede ancora all’induzione e deduzione filosofica (Sull’origine, cit., p. 85).
Villari non accantonò, dopo il 1854, le sue letture filosofiche e di scienza sociale. Fra le sue carte, probabilmente risalenti a quegli anni, vi sono appunti da Pierre-Joseph Proudhon e da Robert Owen; e attorno ai testi milliani Villari lavorò non solo come lettore. Nel 1854 si avviò con Mill un’importante corrispondenza; nel giugno 1855 i due si incontrarono a Firenze, e Mill avrebbe narrato l’incontro ad Harriet Taylor elogiando la preparazione e l’acume di Villari – «I did not expect anything half so good» (cit. in Cicalese 1984, p. 114).
Gli amici ‘napoletani’, invece, non apprezzarono troppo le aperture alla filosofia positivista; Angelo Camillo De Meis lo accusò di empirismo. Il colloquio filosofico sarebbe proseguito, con De Meis che scriveva a De Sanctis deplorando l’«antihegelismo» di Villari, e Villari che, sempre con De Sanctis, si doleva dell’assoluta dedizione di Spaventa a Hegel, «grande, grandissimo; ma io non so più ammirarlo, quando mi vogliono dare la sua testa pel mondo della verità» (cit. in F. De Sanctis, Epistolario 1856-1858, a cura di G. Ferretti, M. Mazzocchi Alemanni, 1965, pp. 400-401, 416). Tuttavia in quegli anni Villari si dedicò soprattutto agli studi storici, toccando semmai, sempre a proposito di Mill, alcuni aspetti del pensiero civile: nel 1859 presentava al pubblico italiano l’On liberty, mettendone in risalto alcuni tratti salienti, quali il pericolo del dispotismo della pubblica opinione, la visione della libertà basata sul pieno sviluppo della personalità, l’idea di una società aperta al più ampio pluralismo delle idee.
Gli anni tra il 1859 e il 1865 furono per Villari densissimi di esperienze, che potranno qui essere solo evocate per dar conto del complesso di sollecitazioni alle quali egli cercò di dar sistemazione nella citata prolusione fiorentina. Occorre tener conto, anzitutto, del mutamento della situazione politica generale. Villari svolse un ruolo tutto sommato marginale a Napoli nel 1860; entrò comunque in contatto con importanti personaggi politici, e fu anche sollecitato a rivolgersi direttamente a Camillo Benso conte di Cavour per esporgli la situazione meridionale. Collaborò poi con De Sanctis al ministero della Pubblica istruzione; fu coinvolto, insomma, nel processo di costruzione del nuovo Stato, e le sue scelte intellettuali furono fortemente segnate dalle concrete esigenze che via via si manifestarono in quel periodo.
Da esule e da privato studioso, inoltre, Villari era divenuto un docente universitario bene inserito nei ranghi accademici, e presto impegnato nel governo della scuola italiana. La dimensione dell’insegnamento – forse più di quella pedagogica in senso dottrinale e disciplinare – fu di grande rilievo nel definire alcuni aspetti del suo pensiero, come l’inclinazione attivistica e costruttiva; ma penso anche all’organizzazione materiale e curricolare delle discipline, alla concezione e alla pratica, quindi, della ‘scienza’ come sapere razionalmente strutturato e trasmissibile, dato questo da tener presente nell’affrontare lo strumentario concettuale e il lessico metodologico di Villari.
Inoltre Villari allargò molto la propria esperienza internazionale. Nel 1857 aveva già compiuto un viaggio in Germania. Nel 1862 si recò in Francia e in Gran Bretagna, come membro della delegazione italiana all’esposizione internazionale di Londra, con il compito di stendere una relazione sull’istruzione primaria. Ne tornò lettore di Charles Darwin e di Henry Thomas Buckle, autori che avrebbe commentato nelle lezioni pisane e nel colloquio con gli allievi; e il testo di quella relazione è documento esemplare di un’attitudine analitica ‘positiva’, con un esame della realtà scolastica europea dal quale emergevano critiche, rivolte anche alla dotta Germania, nei confronti dell’applicazione di ‘sistemi’ e schemi preconcetti.
In Germania, meta di un viaggio di studio nel 1864, centrato soprattutto sull’istruzione secondaria – un dovere d’ufficio per il direttore della Normale –, si sarebbe recato a visitare la tomba di Hegel, e il racconto del pellegrinaggio avrebbe suscitato l’ilarità degli accademici tedeschi suoi commensali; ma l’episodio era narrato, in tono leggero, per dar credito a una sorta di via media rispetto al brusco trascorrere germanico dall’adorazione al dileggio di un’esperienza speculativa: «Noi che non ne facemmo mai un idolo, non abbiamo bisogno ora di disprezzarlo troppo, né d’insultare la sua tomba. Credetemi che siamo più positivi di voi. Voi andate dietro all’idea del positivo, siete sempre filosofi» (L’istruzione secondaria in Germania e in Italia, 1865, in Id., Scritti pedagogici, 1868, p. 347).
Nei primi anni Sessanta Villari assunse posizioni marcatamente laiche. In un testo ufficiale, una relazione sull’andamento della Normale, Villari affermava che gli allievi della Scuola, formati seguendo «le nostre antiche e gloriose tradizioni, letterarie e scientifiche, […] saranno sostenitori ardenti della libera ragione, e del libero esame» (cit. in Moretti 2008, p. 63). A parole d’ordine quali quella del ‘libero pensiero’ sarebbero stati ispirati suoi rapporti personali e sue iniziative culturali – da notare, in Villari, la costante attenzione alle forme e ai canali della comunicazione intellettuale, tradotta nella collaborazione a riviste di cultura non specialistiche, di maggiore o minor successo: non a caso i suoi principali scritti ‘filosofici’ furono destinati a questo tipo di periodici –; più di una spia lessicale e qualche traccia documentaria rinviano a una fiacca appartenenza massonica.
Tuttavia occorre distinguere fra un anticlericalismo di tipo politico-culturale e convinzioni irreligiose che non furono mai fatte proprie da Villari. L’intera opera del Villari storico e politico è anzi traversata da una riflessione di tipo etico-religioso variamente connotata nel tempo, anche se priva di una forte impronta confessionale; e bisognerebbe ricomporre un percorso disomogeneo e frammentario, dalle riserve manifestate, scrivendo nel 1861 su latinità e germanesimo, a proposito della Riforma e del luteranesimo, che avrebbero provocato la garbata reazione di Mill – «vous ne connaissez pas assez le protestantisme» (cit. in Cicalese 1984, p. 148) –, al dialogo fine secolo con monsignor Geremia Bonomelli, passando per gli studi e i dibattiti savonaroliani, e non solo. Va però messa in evidenza la volontà di ricostruire una tradizione culturale nazionale non guelfa – operazione, questa, che accomuna Villari ad altri grandi studiosi italiani dell’epoca, primo fra tutti il suo maestro De Sanctis –, alla quale fosse anche possibile ricollegare la prospettiva del rinnovamento filosofico. Nella prolusione Villari sarebbe stato esplicito, e proprio nel passaggio fondamentale del testo: il positivismo, avrebbe affermato,
se poniamo da un lato tutte le forme particolari che assume, e ci fermiamo al suo carattere generale; si riduce all’applicazione del metodo storico alle scienze morali, dando ad esso l’importanza medesima, che ha il metodo sperimentale nelle scienze naturali. Il positivismo è quindi un nuovo metodo, non già un nuovo sistema. A noi sarebbe facile provare, che i primissimi germi se ne trovano nella Scienza Nuova di Vico, ed in altri scrittori italiani; ma non è questo il luogo per una tale discussione (La filosofia positiva e il metodo storico, 1866, in Id., Teoria e filosofia della storia, cit., pp. 139-40).
Non era solo un espediente retorico, anche se Villari si preoccupava di presentare la sua proposta metodologica in termini di mediato rapporto con un patrimonio noto e acquisito, da riprendere e attualizzare. Centrale, da questo punto di vista – e anche in relazione alla Firenze ‘sperimentale’ di un Maurizio Bufalini –, il richiamo a Galileo Galilei, che aveva condotto «a compimento una delle più vaste rivoluzioni nella storia dello spirito umano» (p. 121), facendo transitare le scienze fisiche dal periodo metafisico a quello positivo. Su Galilei – «il genio della scienza, il sostenitore del libero pensare, il martire della Inquisizione», protagonista «d’una lotta che continua ancora» (Galileo, Bacone e il metodo sperimentale, 1864, in Id., Teoria e filosofia della storia, cit., p. 109) – Villari aveva già preso la parola a Pisa, durante le celebrazioni centenarie del 1864, con un discorso importante per caratterizzare il suo approdo ‘positivo’; contrapponendolo a Francesco Bacone, anche sulla scorta delle critiche di recente indirizzate a quest’ultimo da Justus Liebig, Villari aveva segnalato l’inconsistenza scientifica di un empirismo piatto, e aveva illustrato i procedimenti galileiani insistendo sull’inseparabilità dell’osservazione dal lavoro creativo della mente, e dalla formulazione di ipotesi: «l’esperienza moderna non è possibile senza un’idea che la preceda e la diriga: essa è guidata da una continua invenzione, che ha bisogno d’essere riprovata ed accertata» (p. 104). Ma anche scrivendo di Filangieri, Villari aveva discusso dell’applicazione del metodo storico alla teoria politica e aveva messo in evidenza il ruolo intellettuale e nazionale degli illuministi italiani.
Il manifesto positivistico di Villari va letto dunque anche come tentativo di dare sistemazione teorica a una molteplicità di esigenze ed esperienze; e vi trovano preciso riscontro questioni trattate nel corso delle lezioni pisane. Quando Villari si soffermava sulle nuove scienze filologiche e linguistiche, capaci di classificare e ordinare i linguaggi quasi «come si fa delle piante o degli animali», imponendo quindi a ogni nuova teoria un campo di verifica, e individuando le «leggi» (La filosofia, cit., p. 138) che dei linguaggi regolavano lo svolgimento, riprendeva questioni discusse in aula, così come quando chiamava in causa la scienza delle religioni e la mitologia comparata per «sperimentare e provare storicamente, come l’idea di Dio è nata, non già in voi ma nell’uomo», e la storia dell’arte come luogo di indagine scientifica dei «fenomeni sociali» prodotti dall’«idea del bello» (pp. 137, 133).
Darwin, invece, non compariva in quel testo, anche se Villari ne aveva parlato ai suoi studenti; e non vi compariva a ragion veduta. L’asprezza delle polemiche che avevano accompagnato, anche a Firenze, la prima circolazione delle teorie darwiniane e, più in generale, le difficoltà incontrate da scienziati, come Moritz Schiff, a causa dei loro indirizzi culturali e delle loro pratiche scientifiche – Villari era dovuto intervenire a difesa di Schiff, accusato di crudeltà per le sue sperimentazioni fisiologiche – consigliavano prudenza. Soprattutto, non era quello il positivismo di Villari. Certo, non mancava un pertinente accenno alla fisiologia di Claude Bernard, sostenuta nella sua capacità innovativa dalla rinuncia alla «conoscenza del principio vitale» (p. 126).
Ma lo scopo principale di Villari era quello di incoraggiare un nuovo orientamento, in Italia, delle scienze storiche e della cultura, svecchiando e disciplinando i procedimenti di quelle più tradizionali e favorendo l’organizzazione di nuovi campi di ricerca, in accordo con gli indirizzi più avanzati della scienza europea. Non intendo ridimensionare né l’interesse teorico-metodologico del saggio, né lo sforzo villariano, testimoniato anche dalla larghezza dell’informazione, di produrre un contributo criticamente adeguato, all’altezza della discussione filosofica internazionale – e Mill lo ringraziava, nell’ottobre 1865, per il giudizio favorevole sul suo scritto Auguste Comte and positivism (uscito nello stesso anno), ulteriore conferma di una motivata e significativa scelta di fondo. Ma era lo stesso Villari a dichiarare di non voler «parlare delle opinioni di alcun filosofo in particolare» (La filosofia, cit., p. 112), mostrando di non essere interessato a un confronto dottrinario, e di voler invece illustrare una tendenza generale e alcune delle sue implicazioni.
La prolusione venne pubblicata nella quarta serie del «Politecnico», non più controllato da Carlo Cattaneo, ma da Francesco Brioschi, matematico, uno degli intellettuali-politici di maggior peso nell’Italia dei primi decenni postunitari. Il rapporto di Villari con la tradizione cattaneana resta da definire, sia dal punto di vista storiografico che da quello intellettuale; i contatti con figure quali quella di Alberto Mario e di sua moglie, Jessie White, offrono comunque più di uno spunto. Il nuovo «Politecnico» ambiva a proporsi come luogo di elaborazione di un sapere distante dal «metodo» e dai «pregiudizî delle scuole metafisiche» (F. Brioschi, Manifesto della quarta serie, «Il Politecnico», 1866, 1, p. X), come si annunciava in apertura; al saggio di Villari veniva attribuito un valore programmatico. E in effetti l’obiettivo strategico sembra qua e là prevalere sulla sistematicità dell’argomentazione; occorrerebbe soffermarsi sui vari contesti nei quali Villari discuteva, con accenti diversi, dell’applicazione del metodo sperimentale, o sulle tensioni interne a un discorso non pienamente sviluppato sul progresso della società umana, «più facile presentire, che definire» (La filosofia, cit., p. 135), in rapporto alla specificità dei singoli svolgimenti storici, o a quello, pure solo abbozzato, sull’integrale storicità dell’esperienza umana.
Lettori e critici, contemporanei e storici, che hanno esaminato il testo ne hanno potuto sottolineare limiti e incongruenze; e si tratta di discussioni già oggetto di ricostruzioni storiografiche. La prolusione, è noto, non piacque troppo ai comtiani legati a Émile Littré, che pur registrando lo sforzo compiuto da Villari per preparare il terreno alla diffusione delle idee positivistiche manifestarono la loro distanza da posizioni ritenute troppo poco conseguenti in chiave scientifico-positiva. Villari ribadì con fermezza le sue idee: «per essi la metafisica è morta», ma l’uomo avrebbe continuato a porsi domande che andavano al di là dei «confini della rigorosa dimostrazione scientifica» (Poscritta a La filosofia, 1868, in Id., Teoria e filosofia della storia, cit., pp. 153-54), né sarebbero venute meno le ragioni della fede, dell’immaginazione, della speculazione sistematica.
Ma questa soluzione non piacque affatto agli antichi amici ‘hegeliani’, e in particolare a Spaventa, che vi intravide ambigue aperture alla vecchia metafisica e alla religione tradizionale, al ‘paolottismo’. Al di là del rigore del ragionamento spaventiano, si trattava di accuse non fondate, almeno sul piano pratico, e della politica culturale – a volte alimentate da un certo risentimento per gli incipienti successi mondani di Villari, come provano i versi che Vittorio Imbriani compose nel 1869, in occasione della nomina di Villari a segretario generale del ministero della Pubblica istruzione: «Scarso d’ingegno come di statura / Nimico è tenacissimo e mortale / Di quanta gente al fisico e al morale / Non è della sua stessa levatura» (Carteggi di Vittorio Imbriani, 2° vol., Gli hegeliani di Napoli, a cura di N. Coppola, 1964, p. 241).
In effetti, nonostante nella prolusione si indicasse nella filosofia hegeliana l’«ultima formola» metafisica della «grande scuola germanica» (P. Villari, La filosofia, cit., p. 113), credo che l’obiettivo polemico principale tenuto presente da Villari sullo scenario italiano non fosse la pattuglia degli hegeliani. Basta pensare a un altro scritto di poco successivo, il citato Di chi è la colpa? (1866), nel quale Villari analizzava le sconfitte della Terza guerra di indipendenza, e a una frase divenuta proverbiale, quella sui diciassette milioni di analfabeti e sui cinque milioni di arcadi che avevano arrestato il cammino della nuova Italia molto più delle armate austriache, per capire quale fosse la vera posta in gioco: la messa in discussione di una cultura delle élites arretrata, di una filosofia ‘italica’ di matrice tradizionalistico-clericale, nella prospettiva di un profondo rinnovamento intellettuale nel campo delle scienze dell’uomo. E la violenta reazione della «Civiltà cattolica», che nel 1868 avrebbe denunciato il danno, così scriveva, proveniente dalle dottrine spacciate da Villari, e i suoi meschini sofismi, è da questo punto di vista indicativa (s. VII, 1868, 4, pp. 446-62).
Non è possibile seguire l’azione concreta, e le successive articolazioni del pensiero villariano per oltre un cinquantennio: si tratta di una cronaca densa, e ancora in parte da ricostruire. Ma alcuni tratti ne possono essere almeno elencati. La scelta ‘positiva’ ebbe chiare ricadute accademiche: Villari fece chiamare all’Istituto fiorentino personaggi come Gaetano Trezza e Paolo Mantegazza, e sostenne Roberto Ardigò. Inoltre venne svolgendo, e precisando su punti specifici, le proprie posizioni: significativi, in particolare, la prolusione del 1868, L’insegnamento della storia, e degli articoli apparsi fra il 1867 e il 1869, dedicati a Hippolyte Taine, alla critica d’arte, alla pittura moderna in Italia e Francia, nei quali Villari discuteva delle nuove tendenze realistiche, distinguendo nettamente il ‘vero’ e il ‘reale’ dal ‘materiale’.
Ad Ardigò avrebbe scritto poco dopo: «Nel trattare il Positivismo, badi di respingere l’accusa di coloro che ne fanno un plateale materialismo […]. Insomma persuada che ciò che v’è di più positivo per noi è il pensiero, lo spirito» (cit. in R. Ardigò, P. Villari, Carteggio 1868-1916, a cura di W. Büttemeyer, 1973, p. 41). Del resto, la spinta all’indagine positiva, su base storica, che avrebbe dovuto condurre alla scoperta delle leggi «inviolabili» (La filosofia, cit., p. 135) della società non era alimentata, nel Villari teorico e politico, da inclinazioni in senso lato deterministiche. Concludendo uno dei suoi scritti politici più celebri, la ‘lettera meridionale’ dedicata alla camorra, Villari esplicitava il proprio attivismo etico e politico:
E voi, mi si dirà, avete la ingenuità di credere che in questo modo rimedierete a mali così gravi e profondi? Non vedete che ci vuole un secolo? Sì, lo vedo, ma vedo ancora che se cominceremo domani, ci vorrà un secolo ed un giorno (La camorra, 1875, in Id., Le lettere meridionali, cit., rist. anast. 1991, p. 18).
Di politica, letteratura, scuola, questioni storiografiche e metodologiche Villari avrebbe continuato a occuparsi in forma militante, specie nella sua collaborazione, fra il 1878 e il 1881, alla «Rassegna settimanale»; fra i contributi da menzionare un tentativo di rivedere alcuni postulati dell’economia politica classica, con un altro intervento a sfondo milliano – anche se a Villari Mill appariva «molto ardito in tutti i suoi scritti» (L’economia politica e il metodo storico, 1879, in Id., Teoria e filosofia della storia, cit., p. 184).
Ma a partire dalla prima metà degli anni Ottanta si registrano, nell’opera villariana, chiari segni di una revisione, che se per alcuni versi costituisce un approfondimento, come nel caso del pensiero storico, segna anche, e non solo sul terreno politico, un ripiegamento. Nel 1883 pubblicò un saggio sulla storiografia di Buckle (Tommaso Enrico Buckle e la sua storia della civiltà), nel quale criticava, anche sulla base di preoccupazioni etiche e politiche, il tentativo di dare alla storia una forma scientifica su base materiale, geografica e statistica, accostandosi alle negative reazioni contro quella forma di positivismo storiografico maturate all’interno della cultura storicistica tedesca, da Johann Gustav Droysen a Wilhelm Dilthey.
La morte di De Sanctis offrì a Villari, nel 1884, l’occasione di ripercorrere un itinerario critico complesso (Francesco De Sanctis e la critica in Italia), e di prendere le distanze da un certo unilateralismo erudito ben vivo all’interno della ‘scuola storica’, e sul quale avrebbe ironizzato ancora nel 1891. Erano le premesse al rilevante saggio La storia è una scienza?, di recente al centro di più mature attenzioni critiche, e del quale si è scritto che documenta l’«incontro, all’apparenza singolare, con i grandi protagonisti dello storicismo critico anti-monistico e anti-hegeliano» (F.Tessitore, Introduzione allo storicismo, 1991, p. 153). Anche in questo testo era evidente la larghezza dell’informazione e della riflessione di Villari – basterà ricordare la ripresa di motivi nietzschiani –, accanto al suo tipico trascorrere dalla storia della storiografia all’indagine sul metodo storico. E vi si avverte, come nel coevo intervento di Gabelli, anche l’esigenza, duplice, di stilare il bilancio di una stagione intellettuale, e di misurarsi con i segnali di un trapasso.
Il Villari che riprendeva la parola per ridefinire e ribadire il profilo della propria identità teorica avrebbe recuperato e riproposto, negli stessi anni, i propri studi sulla Firenze medievale; in un caso e nell’altro, si trattasse della reazione filosofica del giovane Croce, o di quella storiografica di Salvemini, seppe ancora porsi come interlocutore, e fungere da stimolo, pur nella inevitabile asprezza di alcune polemiche. Altri aspetti della più matura operosità villariana meriterebbero illustrazione; ad es., l’attenzione per le dottrine politiche e la loro storia, già esercitata attorno a Machiavelli, ma che si applicò anche a importanti autori contemporanei, come James Bryce. Ma bisognerà concludere dicendo della profonda inquietudine, etica e politica oltre che teorica, che traspare da alcuni discorsi, come la conferenza del 1893 La storia, la scienza e la coscienza, e l’intervento al Congresso storico internazionale di Roma del 1903, dove si sottolineavano i meriti acquisiti dal «metodo storico» nel «far trovare le prime radici dei fatti, non più alla superficie, ma assai al di sotto di essa», sullo sfondo, però, dei «grandi problemi che il nuovo secolo ci presenta» (Il Congresso storico internazionale in Roma, 1903, in Id., Teoria e filosofia della storia, cit., pp. 291, 293).
La più ampia bibliografia delle opere di Villari è quella curata da A. Panella (Bibliografia degli scritti di Pasquale Villari, «Archivio storico italiano», 1918, 76, pp. 37-83).
I saggi di metodo sono disponibili in due edizioni recenti, delle quali vanno tenuti presenti i contributi introduttivi:
Teoria e filosofia della storia, a cura di M. Martirano, introduzione di G. Cacciatore, Roma 1999.
La storia è una scienza?, a cura di M. Martirano, presentazione di F. Tessitore, Soveria Mannelli 1999.
Si vedano poi alcune raccolte edite dallo stesso Villari:
Saggi di storia, di critica e di politica, Firenze 1868.
Scritti pedagogici, Torino 1868.
Arte, storia e filosofia: saggi critici, Firenze 1884.
Saggi storici e critici, Bologna 1890.
Nuovi scritti pedagogici, Firenze 1891.
Scritti vari, Bologna 1912.
Storia, politica e istruzione: saggi critici, Milano 1914.
Per la prima edizione delle maggiori opere storiche, tutte in seguito riedite, si veda:
La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, 2 voll., Firenze 1859-1861.
Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, 3 voll., Firenze 1877-1882.
I primi due secoli della storia di Firenze, 2 voll., Firenze 1893-1894.
I principali scritti politici sono:
Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze 1878 (rist. anast. Firenze 1991), Torino 18852.
Scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze 1902.
Scritti sulla emigrazione e sopra altri argomenti vari, Bologna 1909.
Si veda inoltre:
R. Ardigò, P. Villari, Carteggio 1868-1916, a cura di W. Büttemeyer, Firenze 1973.
M. Moretti, Preliminari ad uno studio su Pasquale Villari, «Giornale critico della filosofia italiana», 1980, 59, pp. 190-232.
M. Moretti, La storiografia italiana e la cultura del secondo Ottocento: preliminari ad uno studio su Pasquale Villari, «Giornale critico della filosofia italiana», 1981, 60, pp. 300-72.
E. Garin, Il positivismo come metodo e come concezione del mondo, 1981, in Id., Tra due secoli: socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari 1983, pp. 65-89.
F. Tessitore, La storiografia come scienza, 1982, in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, 3º vol., Roma 1997, pp. 141-87.
M.L. Cicalese, Dai carteggi di Pasquale Villari: corrispondenze con: Capponi, Mill, Fiorentino, Chamberlain, Roma 1984.
F. Restaino, Note sul positivismo in Italia (1865-1908), «Giornale critico della filosofia italiana», 1985, 64, pp. 65-96, 264-97, 461-506.
E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli 1990.
N. Urbinati, Le civili libertà: positivismo e liberalismo nell’Italia unita, Venezia 1990.
G. Lissa, Percorsi e sviluppi del positivismo italiano, in I progressi della filosofia nell’Italia del Novecento, Napoli 1992, pp. 117-97.
G. Cacciatore, La lancia di Odino: teorie e metodi della scienza storica tra Ottocento e Novecento, Milano 1994.
«Rassegna storica toscana», 1998, 46, 1, nr. monografico: Pasquale Villari nella cultura, nella politica e negli studi storici, Atti del Convegno, Firenze 1997.
M. Donzelli, Origini e declino del positivismo. Saggio su Auguste Comte e l’Italia, Napoli 1999.
M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico, con una nota di F. Tessitore, Napoli 2005.
‘Un anello ideale’ fra Germania e Italia. Corrispondenze di Pasquale Villari con storici tedeschi, a cura di A.M. Voci, Roma 2006.
M. Moretti, La Normale di Pasquale Villari (1862-1865), in La storia della Scuola Normale Superiore in una prospettiva comparata, a cura di D. Menozzi, M. Rosa, Pisa 2008, pp. 45-67.