Pasquale Villari
Il rinnovamento storiografico operato da Pasquale Villari nel nome del ‘metodo positivo’ nelle scienze sociali deve ritenersi lo sforzo di maggiore profondità e coerenza compiuto dalla cultura storica italiana per allinearsi, dopo l’Unità, alle correnti più vive della cultura europea. A ciò si accompagnò una battaglia intellettuale e politica per il miglioramento delle condizioni del Mezzogiorno, nella cornice di un’Italia unita capace finalmente di risolvere i grandi problemi della propria struttura sociale e civile, che fa di lui la prima figura, e per lungo tempo il modello, del meridionalismo unitario.
Pasquale Villari nasce in una casa della vecchia Napoli (via Sette Dolori) il 3 ottobre 1826. A dieci anni rimane orfano del padre, Matteo, e viene successivamente indirizzato dalla famiglia agli studi di avvocatura, ai quali si prepara frequentando, prima, il celebre studio privato di Basilio Puoti e, successivamente (sicuramente a partire dal 1846, forse già dal 1844), quello del suo allievo più illustre, Francesco De Sanctis.
Basterebbero questi rapidi accenni biografici a lasciar intendere quanto sia stato originario e profondo il radicamento di Villari nella tradizione culturale napoletana e, ancor più, nel determinante rinnovamento che quella cultura cominciò a vivere, già prima dei moti del Quarantotto, grazie alle fresche correnti intellettuali che una nuova generazione – De Sanctis ovviamente tra i primi – provava a far circolare nell’attardato contesto della Napoli della Restaurazione borbonica. E, del resto, come non ricordare che proprio Villari fu – su sollecitazione della vedova di De Sanctis – il curatore, nel 1889, di quel «frammento autobiografico» divenuto poi noto come La giovinezza, nel quale il critico irpino provò a ricordare quegli anni, appunto, di formazione sua e di un’agguerrita generazione di suoi studenti.
Tributo, l’edizione villariana, a una stagione giovanile e tuttavia rilevantissima della sua vita, così come tributo era stato, un quarto di secolo prima, nel 1863, la prefazione scritta in occasione della pubblicazione delle Memorie e scritti di Luigi La Vista, l’amico più autentico, forse, di quella stagione, allievo anche lui nella scuola di De Sanctis, morto nell’insurrezione del 15 maggio 1848 alla quale anche Villari aveva preso parte con convinto slancio antiborbonico.
La repressione di quei moti e le misure poliziesche che seguirono rappresentarono la svolta fondamentale della sua vita. Il congedo da Napoli, nell’agosto 1849, non avvenne in senso stretto – come talvolta si ripete – per specifici provvedimenti adottati nei suoi confronti, quanto piuttosto per una più generale, ma non meno stringente e persuasiva percezione, che né lo svolgimento della sua attività di studioso, né tanto meno le sue aspirazioni politiche avrebbero potuto trovare uno spazio, anche piccolo, nella soffocante atmosfera della capitale borbonica.
Difficile dire con esattezza se l’approdo a Firenze fosse inizialmente immaginato come provvisorio o se già in quella scelta egli non avesse in animo una definitiva separazione dai propri luoghi di formazione per valutazioni più impegnative, le quali toccavano anche gli indirizzi che avrebbe dovuto assumere il suo lavoro intellettuale. Certo Firenze non tardò a presentarsi ai suoi occhi come «la città di elezione», complici – probabilmente – gli studi su Girolamo Savonarola, già avviati negli anni napoletani, e il rapido inserimento negli ambienti più fertili della cultura cittadina, allora raccolti ancora intorno alla figura di Giovan Pietro Vieusseux e del suo Gabinetto scientifico-letterario. Maturano in questo contesto i primi lavori di impianto decisamente storico, tra i quali spicca già il saggio intitolato Introduzione alla storia d’Italia (novembre 1849), mentre prende corpo il disegno della grande opera dedicata a Savonarola. Nel 1859 insegna storia all’Università di Pisa prima di assumere, dal 1865, l’insegnamento presso l’Istituto di studi superiori di Firenze che conserverà fino al 1913.
Si apre così, all’indomani dell’unificazione, uno dei momenti più ricchi, sotto il profilo intellettuale, della vita di Villari. Sono anni scanditi dalla pubblicazione, presso l’editore fiorentino Le Monnier, della sua prima, grande opera storica, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi (1859-1861), del saggio L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica (1861) e, soprattutto, di quel testo, La filosofia positiva e il metodo storico, preparato come prolusione al corso di storia aperto – si è detto – nel 1865 presso l’Istituto superiore di Firenze e pubblicato, nel successivo gennaio 1866, su «Il Politecnico», che parve allora annunciare un deciso riorientamento nel lavoro di Villari rispetto alla formazione hegeliana degli anni napoletani e la nascita in Italia di una scuola storica più rispondente agli indirizzi che il positivismo veniva affermando nella cultura europea.
Ma furono anche anni nei quali, a partire dalla collaborazione (1861) con il quotidiano milanese «La perseveranza» (al quale egli inviava da Napoli una serie di corrispondenze che già affrontavano i temi dell’arretratezza dell’antico Regno borbonico cui egli avrebbe dedicato, molti anni più tardi, le sue celebri Lettere meridionali), Villari si presenta come un intellettuale profondamente legato ai problemi e alle battaglie, anche politiche, della nuova Italia.
Nel dicembre 1870 venne eletto alla Camera dei deputati per il collegio di Guastalla nelle file della Destra storica e vi rimase fino alle elezioni dell’ottobre 1876 quando la Sinistra, da poco giunta al governo del Paese, conquistò una larghissima vittoria. Fu nuovamente deputato tra il maggio 1880 e il settembre 1882 e venne poi nominato, nel novembre 1884, senatore del Regno. All’impegno per la risoluzione dei problemi del Mezzogiorno, che ne fecero uno dei primi, grandi protagonisti del meridionalismo ‘classico’, Villari accompagnò, soprattutto a partire dagli anni Settanta, una spiccata attenzione a un’altra delle grandi questioni legate alla costruzione dello Stato unitario: la scuola. È l’esigenza di un rapido avvicinamento dell’Italia ai livelli di istruzione raggiunti già da tempo dalle principali nazioni europee che ispira il suo scritto Di chi la colpa?, apparso sul «Politecnico» all’indomani della sconfitta di Lissa e che ritrova nell’arretratezza culturale del giovane Stato unitario la ragione profonda delle disfatte patite nel corso della Terza guerra d’indipendenza. Il problema della scuola ritorna, peraltro, con insistenza nella sua collaborazione alla «Rassegna settimanale» (1878-82) e nel volume del 1872, La scuola e la questione sociale in Italia, nel quale veniva affermato con particolare nettezza il legame tra il ritardo nell’affermazione di una diffusa scolarizzazione e il malessere sociale del Paese e del Mezzogiorno in modo particolare.
Ministro della Pubblica istruzione nel primo gabinetto presieduto dal conservatore Antonio Starabba marchese di Rudinì (febbraio 1891-maggio 1892), durante il quale egli favorì la nascita degli Uffici regionali per la conservazione dei monumenti, Villari ricoprì poi per sette anni la carica di presidente della Società Dante Alighieri e in quella posizione ebbe modo di sviluppare una convinta ed efficace azione di tutela e diffusione della cultura italiana all’estero e soprattutto nelle terre già toccate dall’emigrazione, una questione che non mancò in quegli anni di aggiungersi al ventaglio già ampio delle sue battaglie politiche.
A Firenze proseguiva intanto la sua ricerca sulle origini e i caratteri della Rinascenza fiorentina come elementi fondativi della civiltà italiana di cui la pubblicazione, tra il 1877 e il 1882, dei tre volumi dedicati a Niccolò Machiavelli e i suoi tempi rappresenta il momento peculiare, vuoi come chiarimento propriamente storico di una fase cruciale della storia nazionale, vuoi come individuazione di un tema morale e politico non meno decisivo per i futuri destini della nazione appena divenuta tale.
Le preoccupazioni per la fragilità delle basi sociali, ma ancor più etiche, sulle quali si stava costruendo lo Stato unitario si fanno in Villari sempre più vive con la crisi di fine secolo e l’assassinio di Umberto I. Nei primi anni del Novecento, durante la sua collaborazione al «Corriere della sera» e posto di fronte alle novità indotte dall’azione governativa di Giovanni Giolitti, egli parve riavvicinarsi a Sidney Sonnino con il quale aveva diviso l’esperienza della «Rassegna settimanale» e al quale lo legavano il comune interesse per la questione meridionale e l’ispirazione di un conservatorismo riformatore che non si negava a un confronto con la forza nascente del socialismo organizzato. Appartiene a questa fase anche l’accettazione della presidenza onoraria, nel 1910, della neonata Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno che lo tenne in contatto, ormai ottantenne, con i nuovi protagonisti della battaglia meridionalista, da Gaetano Salvemini a Umberto Zanotti Bianco.
L’offuscarsi del panorama internazionale, nel quale si delineava la crescente rivalità tra Inghilterra e Germania, non fece che rendere più acute, negli ultimi tempi della vita, le sue ansie per un’Europa sull’orlo di una crisi irreparabile, nella quale l’Italia non potrà, peraltro, che rivelare tutte le sue irrisolte e pericolosissime fragilità. «L’Europa si è così trasformata – scrive sulla «Nuova antologia» nei primi mesi del 1914 – in un vero campo militare, nel quale si profondono miliardi per essere pronti ad una prossima guerra che per ora è solo ipotetica, ma che col continuo pensarci e continuo apparecchiarcisi, può divenire una realtà. È inutile farsi illusioni».
All’età di novantuno anni Villari morì, a Firenze, il 17 dicembre 1917. Nei tributi che gli vennero resi in questa circostanza, nell’accostamento che fu allora proposto della sua figura e della sua opera a quella dei maggiori storici europei del suo tempo, fu chiara la dimensione internazionale che egli aveva assunto nel corso della sua carriera, confermata anche dalle numerose traduzioni dei suoi testi.
Senza voler trascurare l’importanza degli scritti giovanili nati nell’ambiente napoletano alla vigilia del 1848, è tuttavia solo dopo quella, e soprattutto all’indomani del suo arrivo a Firenze, che prendono corpo i primi, maturi lavori di Villari, a cominciare da La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, che rimane non solo la sua prima grande opera storica, ma anche una delle sue maggiori e più originali e che contiene in sé tutto intero il senso del rapporto instaurato con la tradizione culturale toscana. Se è vero, infatti, che la genesi dell’opera sul frate domenicano apparteneva già agli anni napoletani, non è meno vero che fu – come egli stesso racconta – con l’arrivo nella capitale granducale, «facendo nuove ricerche nelle biblioteche, negli archivi e nel Convento di San Marco», che il lavoro cominciò a prendere una sua precisa fisionomia. Da qui, anche, il senso che il lavoro – una volta pubblicato – ebbe di commiato da una precedente esperienza intellettuale e di approdo a un ambiente profondamente diverso per tradizione, lessico, indirizzi. È questa la tesi notissima formulata da Giovanni Gentile del «Villari piagnone», che nei colloqui con il «domenicano di San Marco» Vincenzo Marchese abbandona l’hegelismo tutto laico appreso a Napoli alla scuola di De Sanctis e di Bertrando Spaventa, per approdare a un modo «affatto diverso […] religioso e liberale insieme di concepire la vita» (Gentile 19733, p. 298).
La tesi, oggi largamente ridiscussa, sembrava trovare un’immediata conferma nella celebre prolusione al primo corso di storia tenuto presso l’Istituto di studi superiori di Firenze, La filosofia positiva e il metodo storico, che era stata, peraltro, preceduta, nel 1864, da un saggio non meno eloquente, occasionato da un discorso tenuto a Pisa nel terzo centenario della nascita di Galileo Galilei e intitolato Galileo, Bacone e il metodo storico. Era, infatti, in queste occasioni che Villari trovava modo di manifestare il proprio interesse per il ruolo che la scienza moderna e il metodo sperimentale avevano avuto nell’avvicinamento a una conoscenza che non fosse più finalizzata all’individuazione della verità come essenza, ma della verità come legge, accertamento delle relazioni tra cose o fatti. Alla storia spettava, dunque, il compito di riconoscere il valore del contributo alla modernità offerto dalla scienza sperimentale e di adeguare a esso i propri metodi, le proprie finalità. La distinzione che egli si affrettava a fare – «il positivismo è quindi un nuovo metodo, non già un nuovo sistema» – lasciava, tuttavia, intravedere una matrice vichiana (una rinnovata formulazione, cioè, del verum factum) derivata sicuramente dalla lezione della scuola napoletana e tale, quindi, da rendere il giudizio sulla sua ‘conversione’ fiorentina al positivismo meno netto ed esclusivo di quanto, nella lettura tutta idealista di Gentile, è possibile cogliere.
L’interesse di ricerca per la tradizione civile toscana conosce, dopo l’opera su Savonarola, un’altra, decisiva tappa con la pubblicazione dei tre volumi di Niccolò Machiavelli e i suoi tempi. La distanza etica e politica che separa Villari dal segretario fiorentino e che rende, come in buona misura la critica ha sempre riconosciuto, quest’opera meno originale e felice del Savonarola, è ampiamente compensata dall’adesione che, al contrario, l’autore esibisce per il contesto storico – e qui si ritrovano insieme Savonarola e Niccolò Machiavelli – nel quale, a suo giudizio, germinano, in maniera tragica e allo stesso tempo fertile, la decadenza italiana e il suo futuro risorgimento. Villari può così presentare Machiavelli come un profeta dell’Italia restituita a vita civile e unitaria proprio perché egli ha attraversato in profondità la crisi morale e politica che investe l’Italia proprio nel momento di suo maggiore splendore artistico ed economico. Di quello splendore Firenze è, senza alcun dubbio, il luogo centrale e, dunque, più controverso, anche in ragione – ma questo Villari lo aveva già osservato nei saggi degli anni Sessanta poi rifusi nella terza opera dedicata alla storia della città, I primi due secoli della storia di Firenze, apparso in prima edizione nel 1893 – di un rinnovamento della sua vita civile ed economica imperniata sull’esperienza comunale del tardo Medioevo.
Il confronto con la storia fiorentina e toscana dal Medioevo alla Rinascenza non è che il frammento più significativo di un raffronto con le origini e i caratteri della storia italiana che Villari aveva iniziato già negli anni giovanili pubblicando una Introduzione alla storia d’Italia. Dal cominciamento delle Repubbliche del Medio-Evo fino alla riforma del Savonarola. L’ampiezza dei riferimenti di questo lavoro, nel quale è dato ritrovare l’intero panorama della grande storiografia europea della prima metà del 19° sec. con una particolare predilezione per gli autori della scuola francese, lascia già intendere l’ambizione di un testo che punta a definire, all’indomani dell’unificazione nazionale, i caratteri, per dir così, originari di una comunità storica che nel suo costituirsi a Stato trova non già il momento di partenza, ma il gesto conclusivo di una lunga, illustre vicenda di vita collettiva. Il perno di questa plurisecolare esperienza è, per Villari, la civiltà comunale. Civiltà comunale – è stato osservato – equivale per Villari a civiltà italiana: è intorno a essa che si costruisce un’identità storica della nazione italiana nel passaggio alla modernità. E ciò rappresenta il patrimonio più solido e genuino sul quale poggiare la fondazione della politica e dell’ethos della nazione unita.
Appartiene, ovviamente, a questa attitudine, precocemente sviluppatasi in Villari, a una ricerca dei caratteri originali della storia italiana, il saggio del 1861, breve ma assai denso, L’Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica. In esso il tema si slarga assai rispetto alla cornice, sostanzialmente toscana, dentro la quale il problema era affrontato nello studio precedente appena ricordato. Il ricorso, anche in questo caso, alla migliore storiografia europea, aiuta Villari a immettere nel suo ragionamento le questioni concernenti la persistenza del mondo classico e la sua ‘traduzione’ nella storia italiana attraverso il papato romano, ma, all’opposto, contribuisce a far emergere la distanza che rispetto a questo processo si instaura in quella parte dell’Europa «germanica», o forse meglio «romano-barbarica», nella quale il diritto di conquista genera l’impianto feudale della sua specifica identità sociale e politica. Il filo di questo ragionamento finisce, così, per approdare nuovamente alla nascita dei Comuni italiani come tratto distintivo della storia nazionale, tratto rispetto a cui la Toscana e, più in particolare, la vita del Comune di Firenze assumono un ruolo e una funzione paradigmatici che sarebbe difficile poter negare.
È stato già notato nella letteratura meridionalista quanto, nella nascita di una sensibilità delle classi intellettuali e politiche postunitarie nei confronti dei problemi del Mezzogiorno concorra, nel corso del decennio Settanta, la partecipazione di un mondo culturale toscano, da Renato Fucini a Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, sul quale agì la posizione assunta in quegli anni da Villari e riassunta, poi, nelle sue celebri Lettere meridionali. A questa constatazione si può aggiungere che il meridionalismo di Villari, indubbiamente nutrito di una forte dimensione analitica, di uno scandaglio dei problemi concreti in cui non è difficile scorgere la lezione del metodo positivo delle scienze sociali, si alimentava anche della lezione che maturava negli stessi anni dal suo lavoro di ricerca. Via via, cioè, che l’esperienza dei Comuni gli si veniva chiarendo come l’elemento distintivo della storia nazionale, gli appariva evidente il distacco rispetto a questa esperienza che segnava la storia di altre realtà della penisola: Venezia, il papato e soprattutto il Mezzogiorno.
Da qui, nei suoi scritti meridionalistici, la convinzione, per un verso, che l’arretratezza di quella parte del Paese fosse – diversamente da come immaginava in quello stesso tempo un uomo come Giustino Fortunato – un esito del processo sociale, e più largamente storico che vi aveva avuto luogo. Questa convinzione si rende, peraltro, sempre più evidente nel progressivo sviluppo del suo lavoro di storico e trova, non a caso, in una delle sue opere ultime, L’Italia da Carlo Magno alla morte di Arrigo VII, apparsa nel 1910, una delle sue formulazioni più nitide e impegnative. Per altro verso egli ritiene, così, che proprio in virtù del carattere eminentemente storico della «questione meridionale» fosse legittimo attendersi dal nuovo soggetto politico e sociale rappresentato dallo Stato unitario un’azione coerentemente rivolta alla soluzione dei mali del passato. Da qui lo strettissimo legame che corre tra gli scritti propriamente meridionalistici e quelli che mettono al centro la scuola e il problema dell’istruzione, scritti che trovano anch’essi in un volume – La scuola e la questione sociale – il loro momento riassuntivo e mai esaustivo. Anche, e forse a maggior ragione per questi ultimi, che – è bene ripeterlo – si distribuiscono con regolarità nel corso della sua vita intellettuale e politica, si può osservare quanto su di essi agisca la riflessione del Villari storico intorno ai momenti di crisi, degenerativi della civiltà italiana, in termini ancor prima etici, che sociali o economici.
Nel 1891, con il saggio La storia è una scienza?, Villari ritorna per l’ultima volta in maniera espressa sulla concezione della storia e sulle questioni di metodo storico. La sua affermazione «lo storico partendo dai fatti particolari, scopre in essi le idee, che sole valgono a fargliele conoscere. Il reale e l’ideale sono nella storia confusi perché nel fatto è sempre immanente l’idea» (Scritti vari, 1911, p. 13) può essere assunta come una conferma di quanto il suo positivismo si fosse fondato su un impianto storicistico che si negava, conseguentemente a una posizione angustamente scientista. In questo senso, il saggio non rappresentava solo la conclusione ideale di un percorso biografico, ma si offriva – come puntualmente accadde – alla discussione delle nuove leve di storici, in particolare Salvemini, che si venivano formando all’alba del 20° secolo.
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