Passione
Il termine passione, in rapporto al significato fondamentale del verbo latino pati, "patire, soffrire" da cui deriva, si contrappone ad azione e indica la condizione di passività da parte del soggetto che si trova sottoposto a un'azione o impressione esterna e ne 'patisce' l'effetto sul piano sia fisico sia psichico. Nella psicologia, il concetto è stato risolto nei significati più specifici di affezione, emozione e pulsione (erotica e aggressiva); in effetti esso va inteso quale principio di attivazione di un'emotività che investe con forza l'intera personalità dell'individuo al quale conferisce una specifica identità.
Il primo equivoco che occorre chiarire per affrontare un discorso sulla passione riguarda la confusione tra passione ed emozione. Esso rinvia a un uso etimologico del termine quale 'affezione' o 'patimento del soggetto', ed è appunto in questo senso che, intorno alla metà del Seicento, R. Descartes parla delle 'passioni dell'anima' (Les passions de l'âme, 1649) e Ch. Le Brun ne illustra l'espressione facciale. È chiaro che ogni passione comporta una ricchezza e un'intensità emotive non comuni, ma non è riconducibile a esse; le emozioni sarebbero piuttosto un ingrediente della passione, come nel caso della gelosia che, per quanto intensa, andrebbe considerata non una passione a sé, ma soltanto un fattore emotivo della passione amorosa. In effetti, si deve giungere a I. Kant (Antropologia pragmatica, 1798) per trovare una prima chiara differenziazione tra emozione e passione. L'emozione è infatti riportata a esperienze di piacere e dispiacere che impediscono al soggetto di riflettere e, in tal senso, rientra nella sfera del sentimento; la passione, viceversa, è da ascrivere alla facoltà di desiderare, in quanto rinvia alle inclinazioni o ai desideri sensibili naturali, nella misura in cui una singola inclinazione acquista forza sufficiente a esercitare un dominio totale e profondo su tutta la personalità dell'individuo (Abbagnano 1998). Quest'ultima precisazione può ingenerare un ulteriore equivoco, in quanto porta ad attribuire al solo fattore quantitativo, e cioè alla forza o all'intensità del desiderio, la specificità del vissuto passionale. Tuttavia, "un grande desiderio non è una passione se non nell'ideologia corrente" e la passione amorosa va tenuta "distinta dal desiderio amoroso di cui non è semplicemente una forma più intensa" (Mannoni 1987, p. 82).
Con riferimento sia all'emozione sia alla 'tendenza', si è visto che a essere enfatizzato è l'aspetto quantitativo e cioè l'intensità di questi due fattori; in effetti esiste un ampio consenso sul dato di eccedenza, di eccesso della passione, che rimanda al carattere totalizzante e globale di tale esperienza. La vera passione organizza la vita di un individuo, i suoi pensieri e comportamenti in funzione di un oggetto desiderato o aborrito, di un 'altro da sé' che diventa il tema essenziale e unificante della persona, di cui definisce non solo l'identità ma la stessa visione del mondo. Nella passione, la spinta dominante della pulsione (erotica o aggressiva) attiva un'emotività sfaccettata e ricca di fantasie, contraddistinta dalla sua intensità e dal suo alto grado di eccitazione; in virtù di tale intensità essa diventa il fulcro e l'organizzatore della vita dell'individuo, alla quale conferisce un senso di pienezza e di esuberanza.
È rispetto a un simile quadro fenomenologico che si deve valutare il pensiero di quegli autori che hanno cercato di concettualizzare questa forma di esperienza umana. Per G.W.F. Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817, parr. 473-74) nella passione "l'intera soggettività dell'individuo" viene limitata a un'unica determinazione del volere, "quale che sia il contenuto di questa determinazione", per cui la passione deve essere considerata come "la totalità dello spirito pratico in quanto si pone in una delle molte determinazioni limitate che sono fra loro in contrasto".
Su questa stessa linea, A. Renda, nella sua opera giovanile Le passioni (1906), individua due categorie di manifestazioni psichiche: i fatti o singoli avvenimenti psichici (desideri, emozioni, immagini, concetti) e gli stati psichici, fra cui va annoverata la passione, che costituiscono la forma nella quale i primi si compongono in unità. Se "l'emozione è un avvenimento della coscienza, la passione è la coscienza medesima in quanto assume una forma ed ha un contenuto ed espressioni speciali"; essa, cioè, rappresenta un "sistema pieno, coerente, sempre attivo, di rappresentazioni e di percezioni vivaci, di sentimenti e di emozioni molteplici e intense, di conazioni [...] orientate così come è orientata l'intera coscienza" (p. 27), dove la specificità non risiede in alcuno di questi elementi e neppure nel loro coesistere, bensì "in un segreto legame che ne fa un sistema" (p. 43). Avendo distinto, al pari di Renda, due tipi di unità psichica, da un lato le 'unità elementari isolate per astrazione', dall'altro le 'unità concrete di esperienza vissuta' (come un'amicizia o un amore), anche lo psicoanalista D. Lagache (1936) rimarca che "la passione non è certamente un'unità psichica elementare e [che] le difficoltà incontrate dagli psicologi nel tentativo di definirla sono dipese dall'averla concepita come un fatto [...] della stessa dimensione della tendenza e dell'emozione" (p. 13); Lagache ne individua la sostanza fenomenologica in una relazione specifica, sui generis, fra soggetto e oggetto, nella quale si riassume la totalità dell'individuo e che si costituisce quale "categoria speciale e irriducibile di esperienze vissute" (pp. 16-17). S. Moravia (1996) sottolinea che si tratta di esperienze la cui carica di eccedenza non va considerata quale "espressione immediata dell'organismo somatico, dei suoi appetiti e dei suoi bisogni istintuali" ma, al contrario, "il prodotto di una complessa elaborazione: l'elaborazione di un desiderio che tende a un certo fine riconoscendolo (e riconoscendosi) entro una gamma estremamente ampia di valori possibili" (p. 171).
In verità, ancora recentemente (Storia delle passioni 1995), con il termine passione continuano a essere indicate condizioni psicoaffettive di ordine emotivo, appetitivo o comportamentale (dalla competitività all'ira, dal dolore alla gioia, dalla paura al desiderio); di qui la necessità di un discorso che inquadri e descriva le singole passioni in termini non di stati affettivi o comportamenti del soggetto ma di relazione specifica fra soggetto e oggetto, di nuova e complessa organizzazione dell'esperienza, a carattere totalizzante e capace di dare nuovo significato all'esistenza, che si realizza attorno a un'ardente emotività suscitata dall'oggetto del desiderio. Al riguardo è opportuno fare ancora riferimento al pensiero di Kant, allorché scrive che "siccome le passioni non possono che essere inclinazioni reciproche degli uomini, diverse a seconda che essi si volgano a fini convergenti o contrapposti, esse sono di amore e di odio [...]; l'odio che nasce da un torto subito, e cioè il desiderio di vendetta, è una passione che scaturisce irresistibilmente dalla natura umana" (Antropologia pragmatica, 1798, par. 83 B 233).
Appunto sulla base di questa polarità, distingueremo due passioni fondamentali, e precisamente quella amorosa e quella vendicativa, delle quali indagheremo le caratteristiche, la genesi e le eventuali trasformazioni sulla scorta di un pensiero mitico capace di coglierne il valore esistenziale e la natura più intima.
Nella passione amorosa, motore dell'esperienza è un intenso desiderio erotico; ma da dove questo desiderio trae la forza e la capacità di trasformare o sovvertire precedenti legami, di unire ciò che prima era diviso, di fondere, al calore di un'intensa affettività, realtà diverse come quelle dell'amante e dell'amato senza annullarne le rispettive individualità? Ripercorrendo i miti e le narrazioni il cui tema dominante è la passione amorosa, si vede come il desiderio erotico che muove i protagonisti di queste storie affondi di regola le sue radici in eventi o fantasmi incestuosi più o meno espliciti; e, in effetti, la figurazione letteraria maggiormente indicativa della passione amorosa è rappresentata dall'amore fra matrigna e figliastro: dalla Fedra (1° secolo d.C.) di Seneca al Filippo (1776) di V. Alfieri sino al recente Elogio della matrigna (1988) di M. Vargas Llosa. Naturale sembrerebbe quindi il rimando all'unione incestuosa fra Edipo e Giocasta nell'Edipo re (5° secolo a.C.) di Sofocle. Ma la tragedia sofoclea, dove il rigore conoscitivo ed etico di Edipo non lascia spazio ad alcun moto passionale amoroso, indica, secondo la costante lezione freudiana, un ben altro destino del desiderio incestuoso: quello di essere rimosso, spostato e dilazionato nel tempo, dando origine a un desiderio umano capace di realizzarsi in accordo con i criteri della realtà e della norma, in modo da integrare anche la dimensione frustrante e aggressiva (parricida) del rapporto.
Viceversa, è proprio l'impulso parricida a essere estromesso dall'esperienza passionale, secondo quanto ci mostrano i relativi miti, dove l'atteggiamento dei due amanti nei confronti del rispettivo sposo e genitore è sempre improntato a lealtà e rispetto. Si possono pertanto considerare questi miti come degli indicatori di un destino del desiderio incestuoso diverso da quello edipico. Si tratta dello sviluppo passionale, dove un conflitto consapevole (preconscio) fra erotismo trasgressivo e divieto normativo si fa carico dell'intera esperienza conflittuale del soggetto pretendendo di risolverla, tutta e subito, all'insegna di un erotismo non ambivalente e grazie all'organizzarsi di specifiche strutture di comportamento (le figure della passione amorosa), per la cui realizzazione è indispensabile la partecipazione attiva di un altro.
Naturalmente, le componenti aggressive (frustranti) non integrate si esprimeranno in modo altrettanto immediato e totalizzante: o come improvvisa e incontrollabile precarietà della relazione; o come spinta a eliminare qualunque elemento possa configurarsi come terzo (gelosia); o come senso di colpa ineludibile nei confronti del rivale; oppure, infine, come comportamento distruttivo di questo terzo contro la coppia degli innamorati (rappresentato dalla figura retorica della morte degli amanti). Questo destino si concretizza appunto nell'esperienza passionale, in cui un desiderio incestuoso allo stato latente, con la sua elevata conflittualità e turbolenza affettiva, si salda direttamente a una situazione attuale fortemente critica e contraddittoria, fornendo l'energia necessaria a scompaginarla e a ricostruire una nuova organizzazione che chiama necessariamente in causa il desiderio di un altro (l'amato), e nella quale sembrano ricomporsi tutte quelle esperienze discordanti che non trovano più un'adeguata sistemazione nel precedente modo di esistere.
Mentre dunque il desiderio che trae le sue radici dallo sviluppo edipico è tenuto a confrontarsi con la realtà e con la norma e, quindi, a integrare le componenti aggressive della relazione, il desiderio passionale si confronta con il desiderio dell'altro nel tentativo di sovvertire norma e realtà senza farsi carico di tali componenti. Diverso è di conseguenza, nelle due situazioni, lo statuto del soggetto e dell'oggetto. Nello sviluppo edipico il soggetto desiderante preesiste infatti alla relazione ed è la sua capacità di assumere un proprio desiderio e di farsi carico della propria aggressività a costituire l'oggetto quale oggetto desiderato (come nella fiaba La Bella e la Bestia dove è l'assunzione da parte della Bella di un proprio desiderio autonomo a trasformare la Bestia in oggetto desiderabile; e dove l'aggressività, dapprima rappresentata dall'aspetto minaccioso della Bestia, viene anch'essa assunta dalla Bella sotto forma di responsabilità per il destino dell'altro). Viceversa, nell'esperienza passionale il soggetto consiste nella relazione, si realizza in essa e per mezzo di essa, mentre l'altro assume simultaneamente il valore di oggetto del desiderio, di oggetto stabilizzante e di soggetto partner in una situazione di sostanziale reciprocità. Sembrerebbe quindi impossibile non concordare con Kant quando afferma che la passione è sempre un desiderio che va "dall'uomo all'uomo, mai dall'uomo alle cose" (Antropologia pragmatica, 1798, par. 81). Ci si può allora chiedere come valutare situazioni quali la 'passione conoscitiva', la 'passione politica', la 'passione per la libertà' o, al limite, la 'passione di vivere', che il linguaggio comune definisce appunto in termini di passione. Bisogna anzitutto notare che è ancora l'uso linguistico a confrontarci con ulteriori comportamenti anch'essi qualificati come passioni: quella della tavola, del bere, del gioco, del denaro; comportamenti per la verità definibili altrettanto bene in termini di vizi (gola, vizio del gioco, avarizia) o, con linguaggio medico, di perversioni. Ci si può inoltre domandare cosa può indurre a denominare allo stesso modo l'innamoramento passionale e l'inclinazione incoercibile al gioco, o a definire il medesimo comportamento con termini per altro verso così dissimili come passione e vizio (o perversione), o a usare il concetto di 'passione-perversione' per indicare le passioni "il cui oggetto non è un individuo ma piuttosto una categoria, una specie di oggetti" (Lagache 1936, p. 11). È lo statuto esperienziale e relazionale di questi oggetti o di queste attività a offrirci la risposta.
Si è visto che nell'esperienza passionale l'oggetto del desiderio deve potersi configurare anche come soggetto desiderante della relazione. Di conseguenza, un oggetto inanimato o un'attività del soggetto potranno prendere il posto del partner umano in una situazione passionale solo nella misura in cui il soggetto appassionato sarà in grado di riconoscere a queste entità una loro autonomia con loro esigenze e una sorta di loro intenzionalità da rispettare; vale a dire sarà in grado di trasformarle da strumento con cui soddisfare le proprie esigenze in altro-da-sé, in soggetto-altro, a cui rispondere. In breve, l'oggetto di una passione, anche se inanimato, deve potersi configurare sempre e simultaneamente quale soggetto della relazione. È quanto può realizzarsi con molte delle attività o degli oggetti cui si è fatto cenno (dalla politica alla libertà o all'arte), ma anche con entità culturali immaginarie come nella 'passione mistica'. Altrimenti, la relazione desiderante con un oggetto da cui non è possibile prescindere, umano o inanimato o immaginario che sia, finirà inevitabilmente per declinarsi nel registro della perversione o del vizio.
La sostituzione del partner umano con entità diverse non sembra invece realizzabile nell'ambito della seconda passione fondamentale, la vendetta, dove vale pienamente la massima kantiana che la passione va sempre "dall'uomo all'uomo, mai dall'uomo alle cose". In altre parole, mentre la pulsione o desiderio erotico si organizza a livello passionale sotto forma non solo di passione amorosa ma anche di suoi derivati, l'inclinazione o la tendenza opposta, e cioè l'aggressività, nella sua organizzazione passionale si configura unicamente come esperienza vendicativa. Si tratta di una forma specifica di reazione aggressiva a una grave ferita narcisistica e cioè a un danno nella sfera della sicurezza esistenziale.
In tale forma, una ricca tavolozza emotiva (che va dall'orgoglio ferito alla collera, dalla vergogna al rancore, dall'abbattimento alla ribellione, dal dolore all'esaltazione) risulta unificata da un sentimento di fondo, l'odio, che non lascia spazio ad alcuna traccia di amore o benevolenza. Nella vendetta è solo questo sentimento a legare, con la sua estrema intensità, il soggetto alla sua vittima: legame indissolubile raffigurato miticamente dal destino che accomuna, nel romanzo Moby Dick (1851) di H. Melville, il capitano Achab e la Balena Bianca; o dalla trasmissione della spinta vendicativa, di generazione in generazione, nel ciclo degli Atridi. In questo legame o relazione sui generis, la cui estensione non oltrepassa di regola i confini familiari, si riassume la totalità del soggetto che ne riceve una specifica impronta con un'altrettanto specifica identità: quella del vendicatore.
Per quanto concerne lo statuto dell'oggetto della vendetta, è necessario poi osservare che, a differenza del semplice odio, dove il destinatario di questo sentimento è connotato in senso fortemente negativo, con esclusiva accentuazione dei suoi aspetti nocivi, pericolosi, detestabili e spregevoli, in una parola odiosi, nella vendetta l'immagine della vittima risulta per così dire sdoppiata: da un lato, la persona completamente svalorizzata dell'offensore, irrigidita nella sua azione lesiva e oggetto di un odio inestinguibile; dall'altro, una figura facilmente valorizzabile e unita affettivamente alla prima, destinata a essere soppressa per infliggere all'offensore una sofferenza ancora più grande. È questo secondo personaggio, del tutto innocente ed estraneo all'evento che ha provocato la reazione vendicativa, la vera vittima sacrificale. Nei principali miti sulla vendetta, la vittima è rappresentata da una figura infantile con caratteristiche filiali: così, nel Tieste (43 d.C.) di Seneca, i figli di Tieste, fatti a pezzi dallo zio Atreo per vendetta contro il fratello al quale aveva imbandito un pasto con le loro carni; o, nella Medea (44 d.C.), i figli di Medea e Giasone, uccisi dalla madre per vendicarsi dell'abbandono dello sposo. Entrambe le situazioni, in effetti, non fanno che riproporre un precedente infanticidio: quello di Pelope, genitore di Atreo e Tieste, smembrato dal padre Tantalo e offerto in pasto agli dei che ne ricomposero il corpo resuscitandolo; e quello del piccolo Apsirto, fratellastro di Medea, ucciso e fatto a pezzi dalla maga che ne aveva sparso in mare i brandelli per rallentare l'inseguimento del padre. In quest'ultimo caso vi era stato anche un parricidio, quello di Pelia, squartato e bollito in un calderone dalle figlie ingannate da Medea, che le aveva illuse di poterlo in tal modo ringiovanire.
Sembra chiaro che esperienze così distruttive non possono essere tenute insieme che da un sentimento altrettanto distruttivo: l'odio; conseguentemente, si può dire che il vendicatore è un individuo così carico di odio da essere costretto a esprimere attraverso questo sentimento, e attraverso la relativa aggressività, anche i suoi bisogni di amore e di dipendenza libidica. In effetti, nella struttura della relazione vendicativa, così come l'abbiamo individuata (vendicatore, offensore, vittima), troviamo rielaborate e drammatizzate tutte quelle esperienze precoci e contraddittorie a cui sembrano alludere gli episodi di smembramento e di cannibalismo; ci si riferisce a esperienze arcaiche di gravi frustrazioni orali accompagnate da una condizione interiore di annichilimento e frammentazione.
Nella fase edipica, l'eccesso di violenza subita potrà essere rielaborato in modo attivo solo in una dimensione di pura ostilità: dove le componenti libidiche amorose risulteranno condensate nella figura della vittima innocente (l'antico bambino traumatizzato); dove l'offesa iniziale non rappresenterà la causa ma solo il movente, l'occasione capace di innescare la successiva catena di vendette (con il suo carattere di reciprocità); dove l'intensità pulsionale aggressiva, che si esprime nell'eccedenza della passione ("Non lo vendichi, un delitto, se non lo superi", dice Atreo nel Tieste per giustificare il proprio crimine), costituisce la fonte energetica necessaria a riorganizzare l'intera esperienza del soggetto nel contesto di una struttura relazionale vendicativa.
N. Abbagnano, Passione, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1998, pp. 796-98.
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Storia delle passioni, a cura di S. Vegetti Finzi, Roma-Bari, Laterza, 1995.