Patrimonium Sancti Petri
La definizione di Patrimonium sancti (o beati) Petri per i possessi temporali della Chiesa si diffuse nelle fonti pontificie del XII sec. e dei primi decenni del XIII, affiancandosi e sostituendosi a espressioni anteriori, come quella di Terra sancti Petri, in uso fin dall'età carolingia. La storiografia sullo Stato della Chiesa nel Medioevo ha in genere fatto propria questa definizione, senza peraltro tenere conto che essa ebbe un carattere impreciso e transitorio: infatti convisse sempre con altre espressioni e venne sorpassata già nella tarda età federiciana.
Se ad esempio si esaminano l'epistolario e i Gesta di Innocenzo III, il termine principale per indicare i domini temporali risulta quello di Patrimonium, al singolare e con variate qualifiche. Accanto a Patrimonium beati Petri, il papa e la cancelleria utilizzarono anche definizioni in precedenza assenti o molto rare, come Patrimonium apostolicum, Patrimonium sedis apostolice, oppure Patrimonium Ecclesie. Con una frequenza ancora maggiore, Innocenzo III ricorse poi ad altre espressioni, come dominium o come pertinere ad ius et proprietatem Ecclesie romane, ad ius et dominium apostolice sedis, in un caso anche ad demanium nostrum. È incerto se queste novità lessicali, e in particolare il riferimento alla Ecclesia e alla sedes apostolica, derivassero dalla volontà innocenziana di ricondurre direttamente a Dio, il fondatore della Chiesa, l'origine dei possessi temporali (Maccarrone, 1972, p. 13), oppure se nascessero dalla concezione del papa come vicario di Cristo (Carocci, 2003, p. 676). In ogni caso, per il termine Patrimonium come per le altre espressioni la scelta lessicale in primo luogo dipendeva da una perdurante rappresentazione patrimoniale delle prerogative temporali della Chiesa romana, che induceva a ricorrere al linguaggio del possesso e della proprietà, oppure a quello, strettamente parallelo, del dominium signorile su un possesso diretto. La terminologia utilizzata aveva inoltre il vantaggio dell'ambiguità. Espressioni come pertinere ad ius et proprietatem beati Petri, almeno a partire dall'XI sec., facevano parte del formulario che i pontefici applicavano a tutte le chiese, gli istituti religiosi e gli stessi Regni e principati che fossero beneficiati da una concessione di protectio o tutio papale.
Proprio per l'attitudine a esprimere una speciale subordinazione alla suprema potestà della Chiesa romana, e proprio perché all'epoca ovunque operavano ampiamente nozioni patrimoniali della sovranità, queste espressioni formulari potevano quindi sostenere l'affermazione di una generica superiorità pontificia, oppure anche la rivendicazione di più concreti diritti e prerogative. Innocenzo III, infatti, rivendicò spazi vastissimi al Patrimonium beati Petri e allo ius et proprietas della Chiesa: i Regni d'Inghilterra e Irlanda e altre remote aree della cristianità, il Meridione italiano, la Sardegna, la Corsica e la Toscana, nonché, ovviamente, l'Esarcato, le Marche, l'Umbria e il Lazio.
Ancora nei primi decenni del Duecento, in realtà, il papato non aveva elaborato una terminologia atta a distinguere le terre sotto la sua potestà temporale da quelle dove vantava solo altissimi diritti di sovranità feudale o di protettorato, e questa ambiguità coinvolgeva appieno anche la nozione di Patrimonium sancti Petri. Sotto Innocenzo III e i suoi due immediati successori, solo saltuariamente affiora a livello terminologico l'idea di una dominazione temporale come principio organizzatore di società che iniziavano a definirsi in senso territoriale. Espressioni come terre temporaliter subiecte o come uomini temporaliter nostre iurisdictioni subiecti, che a differenza di termini come patrimonium o proprietas rinviano con chiarezza all'esercizio di un potere politico-amministrativo, restarono sporadiche. Un chiarimento concettuale e terminologico doveva essere avviato solo in seguito, in particolare a partire dal pontificato di Innocenzo IV. Mentre infatti Onorio III e Gregorio IX continuarono a utilizzare ampiamente l'espressione Patrimonium Ecclesie o beati Petri, dal quinto decennio del Duecento il termine Patrimonium venne di massima riservato a una singola provincia dello Stato, il Patrimonium sancti Petri in Tuscia. Per definire l'insieme dei domini temporali sempre più spesso la cancelleria pontificia preferiva ricorrere alla qualificazione Terre o Terra Ecclesie, non di rado articolata più o meno variamente attraverso riferimenti alle provincie et terre Ecclesie o, più tardi, anche alle provincie pleno iure Ecclesie Romane subiecte, alle terre que Romane Ecclesie quoad spiritualiter et temporaliter sunt subiecte e ad altre analoghe parafrasi. In un quadro di crescente autocoscienza della potestà temporale, trovava così finalmente sanzione lessicale la distinzione fra le regioni sottoposte all'alta sovranità del papato e il vero e proprio territorio dello Stato, legato all'istituzione pontificia da rapporti di natura diversa e ben più stringenti.
Nella lunga storia dei domini temporali, che può essere indagata a partire già dal VII sec., l'età federiciana segna una svolta epocale, al punto che una tradizione di studi molto radicata considera gli ultimissimi anni del XII sec. e i primi lustri del successivo come l'epoca della vera e propria 'fondazione' dello Stato della Chiesa.
Lo sforzo di dare concretezza alle teoriche rivendicazioni dei papi altomedievali e di costituire un'autonoma base territoriale di potere risulta evidente, in realtà, quantomeno dall'epoca della riforma gregoriana. Mossi dall'impellente bisogno di garantire l'indipendenza della Chiesa riformata anche attraverso un nuovo atteggiamento nei confronti della base territoriale della cattedra di s. Pietro, i papi della seconda metà dell'XI sec. cercarono di garantirsi in modo stabile l'esercizio di diritti pubblici. Sia pure in misura ancora modesta (e oggetto di valutazioni discordanti fra gli storici), riuscirono a costituire un'autonoma base di potere nel Lazio meridionale e in Sabina. Una serie di innovazioni sostenne questo tentativo: la totale riorganizzazione delle strutture burocratiche condotta svuotando di funzioni il patriarchium lateranense, monopolizzato dall'aristocrazia romana, a vantaggio di altri istituti, che finirono per formare la Curia pontificia; le relazioni garantite ai pontefici dai membri della Curia provenienti da altre città laziali, e in primo luogo dai cardinali e dalle loro famiglie; l'acquisizione del diretto dominio o comunque del controllo di una serie di castelli e altri centri fortificati (i cosiddetti castra specialia Ecclesiae Romanae); infine la costituzione, nella parte meridionale del Lazio dove più antica e consistente era la presenza papale, di un rudimentale organo di governo del territorio, la curia Campanie, affidata a un ufficiale chiamato rettore. Dopo la crisi causata dallo scisma di Anacleto II, questa politica venne molto ampliata, in particolare da Eugenio III (1145-1153) e Adriano IV (1154-1159), che provvidero alla conquista di una ventina di castelli e obbligarono alcune delle maggiori stirpi della regione a stabilire legami di dipendenza personale con il papato. Vennero allora pretesi giuramenti di vassallaggio che vincolavano queste famiglie a fornire aiuti militari, a muovere guerra e stipulare pace su mandato del papa e ad altri obblighi, variabili a seconda dei casi.
Proprio da quest'epoca, d'altra parte, i progressi compiuti dai papi della riforma e della prima metà del XII sec. per affermare una propria autorità temporale furono spesso minacciati, e talora vanificati, da due nuovi antagonisti: il comune capitolino e l'Impero. I contrasti con il comune romano riguardavano la tutela degli ingenti possessi fondiari delle chiese cittadine, oggetto in questo periodo di ampie usurpazioni da parte del gruppo dirigente comunale; le richieste finanziarie connesse all'antica consuetudine di elargizioni papali alla cittadinanza, al rimborso delle spese belliche ai cavalieri cittadini e alla restituzione dei prestiti richiesti dal papato ai settori finanziariamente più dinamici del ceto dominante; infine, e soprattutto, il problema costituito dall'espansionismo romano nella regione, causa scatenante dei maggiori conflitti. Lo scontro con Federico I nasceva dalla sua energica politica di affermazione della supremazia imperiale, che da un lato indusse i comuni del Nord a cercare un avvicinamento con il papato, dall'altro spinse l'imperatore a occupare ampia parte dei possessi papali nel Lazio e a rafforzare le proprie strutture di governo in altre aree, come il ducato di Spoleto e la Marca di Ancona, su cui i papi avanzavano da tempo rivendicazioni temporali. Per alcuni decenni, la politica antipapale del comune capitolino e la contrapposizione con l'Impero determinarono un gravissimo indebolimento della posizione pontificia e il collasso di ogni sua capacità di governo.
Il maggiore risultato della politica pontificia in questo periodo fu di tipo giuridico: la capacità di tenere vive le rivendicazioni sul Lazio e l'Italia centrale, ottenendone il riconoscimento formale dal Barbarossa negli accordi di Anagni del 1176 e nella pace di Venezia del 1177. Un modesto recupero delle posizioni perdute poté cominciare solo dopo la pace del 1188 con Roma e un ulteriore accordo con l'imperatore nel 1189. Il potere pontificio, peraltro, restava nei fatti debole e contrastato, al punto che ignoriamo in che misura Enrico VI abbia realizzato la promessa restituzione del Lazio meridionale e di una serie di città della Tuscia e della bassa Umbria (Viterbo, Orvieto, Corneto, Vetralla, Orte, Narni e Amelia).
Un dominio temporale più concreto e, soprattutto, di carattere sovraregionale nacque soltanto un decennio dopo, con il vuoto di potere creatosi in Italia centrale all'improvvisa morte dell'imperatore Enrico VI, nel settembre 1197. Il papato ne seppe profittare con tempestività ed energia. Appellandosi alle donazioni carolingie e imperiali, l'anziano Celestino III si affrettò a inviare un legato, Gregorio cardinale di S. Maria in Porticu, per ottenere la sottomissione di Perugia e altre città del ducato di Spoleto, mentre altri rappresentanti papali erano mandati nelle Marche con il compito di ottenere giuramenti di obbedienza dai comuni. L'iniziativa, interrotta all'inizio di gennaio dalla sua morte, fu ripresa con maggiore slancio da Innocenzo III e proseguita durante tutto il suo pontificato. Non a caso, è appunto in questo papa che la maggioranza degli storici riconosce il vero 'fondatore' dello Stato della Chiesa.
Appena consacrato, nel febbraio 1198 Innocenzo III ottenne l'omaggio ligio dal prefetto Pietro di Vico e la nomina di un nuovo senatore di Roma, a lui favorevole. Nel contempo, inviò nel Lazio settentrionale alcuni suoi rappresentanti, che si fecero giurare fedeltà da tutte le città (la sola reale opposizione venne da Narni e Orvieto) e dai principali nobili. Nel ducato di Spoleto e nelle Marche l'affermazione dell'autorità papale era contrastata dalla presenza di due feudatari e ufficiali dell'imperatore, Corrado di Urslingen e Marcovaldo di Annweiler. Contro questi potenti amministratori degli Hohenstaufen e, più in generale, contro ogni rivendicazione imperiale, Innocenzo III si mosse con decisione, integrando un'accorta politica di alleanze con una formidabile opera di propaganda, dove l'enfasi sui vantaggi assicurati dal governo pontificio sfruttava abilmente i sentimenti antitedeschi creati dal pesante dominio degli imperiali.
Privo del sostegno imperiale, indebolito dalla rivolta di alcuni centri e scomunicato in quanto invasore dei territori papali, Corrado si offrì di tenere il ducato come vassallo del papa, in cambio di una forte somma di denaro (10.000 lire) e di un contingente annuale di duecento cavalieri. Al rifiuto di Innocenzo III, decise di assoggettarsi senza condizioni, consegnando già a metà aprile le poche città ancora nelle sue mani e rinunciando in favore del papa a tutti i giuramenti di fedeltà ottenuti. Nei mesi successivi, mentre le città umbre andavano giurando sottomissione, Innocenzo III effettuò un viaggio attraverso i nuovi territori (luglio-ottobre 1198), rafforzando l'autorità papale con la sua diretta presenza e la stipula di patti con i comuni. La rapidità e la consistenza delle conquiste erano sorprendenti. Nella Marca di Ancona, invece, l'avanzata pontificia fu più lenta e contrastata. Anche Marcovaldo di Annweiler si trovava in una posizione di debolezza dovuta all'assenza di sostegni esterni, alla ribellione di alcuni comuni e all'avversa politica del papa che, fallito un tentativo di accordo, lo scomunicò e durante l'estate promosse contro il suo governo il rinnovo di una lega di città (le principali erano Ferrara, Rimini, Ancona e Fermo) che si era costituita già a febbraio. Ambizioso, intraprendente e sostenuto da buona parte della folta aristocrazia signorile marchigiana, Marcovaldo nel 1199 attaccò e invase il Lazio meridionale; anche le città che si erano ribellate al governo del tedesco, del resto, stentarono a lungo a riconoscere l'autorità del papato, e appaiono impegnate in guerre interne. La pacificazione della Marca e il riconoscimento del dominio pontificio avvennero soltanto fra la fine del 1201 e l'inizio dell'anno seguente.
Le rivendicazioni territoriali di Innocenzo III, in una prima fase, si estesero anche ad altre regioni che erano state incluse nelle donazioni alla Chiesa dei re carolingi e degli imperatori: la Toscana, dove rovesciò la politica di appoggio alla Lega di Tuscia intrapresa dai legati inviati da Celestino III; la Romagna, dove s'inserì nella rivolta scoppiata contro Marcovaldo di Annweiler che nel 1194 aveva ricevuto in feudo la regione da Enrico VI; e infine la Sardegna. Per la Toscana e la Romagna, il tentativo di ottenere il riconoscimento della sovranità pontificia si rivelò subito irrealizzabile e venne abbandonato nel giro di pochi mesi; per la Sardegna venne portato avanti con maggiore ampiezza e più a lungo, fino al 1206 e oltre, ma senza riuscire a vincere l'opposizione di Pisa.
Nel giro di pochissimi anni Innocenzo III aveva realizzato ampliamenti territoriali impressionanti. La contesa per il trono imperiale fra Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick gli consentì inoltre di ottenere da quest'ultimo il riconoscimento dell'autorità pontificia sul territorio conquistato (e anche su parte dell'Esarcato e della Romagna) con la 'promessa di Neuss' del giugno 1201: essa rappresenta, è stato detto, "il certificato di nascita dello Stato Pontificio" (Waley, 1961, p. 44).
Negli anni successivi, i risultati raggiunti furono limitati da un contrasto scoppiato con i romani nel 1203-1204, e poi (fra la fine del 1204 e l'autunno dell'anno successivo) dal tentativo di un inviato di Filippo di Svevia, il vescovo di Worms Liupoldo, di sottrarre la Marca al potere papale. Negli anni 1206-1208, di relativa quiete, Innocenzo III poté provvedere a rafforzare e organizzare il suo potere. Il consolidamento dell'autorità pontificia proseguì anche in seguito, sebbene nel 1209-1211 la presenza nei territori pontifici dapprima del legato imperiale in Italia, il patriarca di Aquileia, e poi dello stesso Ottone di Brunswick determinasse una notevole crisi.
Le regioni che entravano a far parte dei domini temporali erano molto diverse per storia e caratteristiche. I principali elementi di differenziazione erano rappresentati dallo sviluppo delle città e dell'economia, dal livello di diffusione della nobiltà signorile, e dalle forme di diretta presenza patrimoniale e politica del papato. Nel Lazio settentrionale, nell'Umbria centrale e meridionale e lungo la costa adriatica il dinamismo urbano era molto accentuato. La crescita demografica ed economica di Viterbo, Orvieto, Perugia, Ancona, Fermo, Assisi, Spoleto, Narni, Terni e di molte altre città di minori dimensioni si accompagnava allo sviluppo delle istituzioni e delle rivendicazioni comunali. I più evidenti punti di frizione con le pretese papali riguardavano, oltre alla questione della nomina degli ufficiali comunali, l'attacco mosso dai comuni ai privilegi e ai possessi degli enti ecclesiastici locali, le competenze dei tribunali cittadini e, in primo luogo, lo sforzo, comune a tutte le città ma sempre causa di gravi contrasti con la Chiesa, di creare un contado, assoggettando signori e comunità rurali, e talora scontrandosi con i centri urbani vicini. Nelle aree interne delle Marche, nell'Appennino umbro-marchigiano e nel Lazio centrale e meridionale l'organizzazione del territorio era invece connotata soprattutto dalla massiccia presenza delle signorie rurali appartenenti a famiglie nobili.
In tutte queste aree, il radicamento signorile si accompagnava alla debolezza delle città, che erano di solito di modeste dimensioni e apparivano comunque incapaci di realizzare vaste espansioni nel territorio. Quanto poi ai demani pontifici, cioè ai domini territoriali diretti del papato, in tutte le regioni dello Stato la loro consistenza era, in definitiva, modesta. La situazione appariva peraltro migliore nel Lazio meridionale e nella Sabina, dove dall'epoca della riforma i pontefici erano andati acquisendo la proprietà o il controllo diretto di una serie di castelli e di aree rurali, mentre nelle altre regioni il demanio pontificio dovette essere costituito ex novo, tentando di incamerare i possessi del fisco imperiale. L'operazione riuscì in misura diversa a seconda dei casi, e sempre in modo parziale: il risultato più rilevante fu la costituzione di una serie di territori di amministrazione diretta, affidati a funzionari di nomina papale e gelosamente tutelati dalle mire della nobiltà signorile e dei comuni (i principali furono in Umbria la Terra degli Arnolfi, la Normandia, il vicecomitato di Balciano e Val Topina, e nelle Marche Collicillo e la Valle di S. Clemente; inoltre vanno ricordati sia i castelli acquistati da Innocenzo III nel Lazio settentrionale, sia Massa Trabaria, Terra di S. Agata e Montefeltro, territori questi ultimi peraltro caratterizzati da uno statuto intermedio fra quello di possesso demaniale e quello di sottoprovincia).
Nel contempo, veniva avviata una completa riorganizzazione degli apparati di governo, che condusse alla creazione di un sistema istituzionale destinato a durare, con pochi cambiamenti, fino al XVI secolo. La storiografia, in prevalenza, ha insistito sul ruolo giocato da Innocenzo III nell'introduzione di nuovi ordinamenti, e sull'importanza delle norme stabilite durante il primo parlamento generale dei domini pontifici svoltosi a Viterbo nel 1207. È invece forte il sospetto che a Innocenzo III siano state attribuite innovazioni amministrative e concettuali che hanno in realtà avuto una cronologia più distesa, trovando realizzazione soltanto nei decenni successivi al suo pontificato.
Questa tendenza appare particolarmente evidente per quel che riguarda la concezione stessa della sovranità pontificia. Riprendendo orientamenti sviluppati dai papi durante la seconda metà del XII sec., nonché imitando il vicino Regno di Sicilia e le stesse forme assunte nei decenni precedenti dal dominio imperiale su Umbria e Marche, Innocenzo III propose una rappresentazione eminentemente feudale del suo potere di sovrano: ai suoi occhi, la fedeltà giurata in forme vassallatiche sembra la più importante delle prerogative della sovranità pontificia, premessa per ogni ulteriore richiesta. Contrariamente a quanto viene ripetuto dagli storici, il giuramento non fu imposto solo ai nobili titolari di giurisdizioni signorili e ai rappresentanti delle città, ma singolarmente a tutti gli abitanti dello Stato. Tutti vennero qualificati genericamente come fideles nostri, fideleset vassalli domini pape, fideles et vassalli de Patrimonio Ecclesie, mentre nei documenti papali relativi allo Stato della Chiesa il termine infideles finì per indicare, un po' paradossalmente, personaggi dei quali il papa riconosceva la devotio verso la S. Sede, ma che restavano tuttavia extranei et infideles in quanto risiedevano fuori dai domini temporali ed erano esterni al reticolo delle fedeltà pontificie. Massima fu poi la connotazione in senso feudale dei rapporti con le aristocrazie locali, dimostrata, oltre che dalla moltiplicazione dei legami vassallatico-beneficiari con le grandi stirpi signorili (giurarono anche i conti di Ceccano e gli Aldobrandeschi), dall'istituzione di curie feudali, dalle visite effettuate dal pontefice ai castelli dei nobili vassalli e dalla sua partecipazione a banchetti, evoluzioni di cavalieri e tornei.
L'imposizione anche agli abitanti dei contadi comunali (e forse delle stesse signorie laiche) del giuramento di vassallaggio direttamente ‒ si noti ‒ al papa attesta la pulsione, e insieme la difficoltà, a definire in termini esclusivamente territoriali la sovranità pontificia. Nel contempo mostra come fosse ancora incerta la distinzione, che è invece costantemente attribuita dalla storiografia proprio a Innocenzo III, fra terre immediate subiecte, cioè soggette per via diretta alla S. Sede, e terre mediate subiecte, vale a dire sottoposte all'autorità di comuni maggiori o di signori laici ed ecclesiastici. Secondo questa distinzione, destinata a caratterizzare fino al XVI sec. la sovranità pontificia, sudditi diretti del papato erano soltanto le stirpi nobili dotate di possessi signorili, le grandi istituzioni religiose e i comuni urbani, nonché alcune aree demaniali (v. sopra); i sudditi diretti avevano propri sottoposti (i contadini di una signoria, gli abitanti del territorio monastico, i residenti nel contado cittadino), sui quali esercitavano un'autorità molto estesa, che li rendeva soltanto mediate subiecti alla Chiesa. All'inizio del XIII sec., la distinzione fra soggezione diretta e indiretta doveva naturalmente già essere ben nota alla Curia, sia in seguito all'imitazione dell'Impero, sia soprattutto per influsso delle strutture ecclesiastiche, poiché la concessione della protezione pontificia a monasteri e chiese comportava da tempo la dipendenza immediata dalla Sede Apostolica. E tuttavia mancano ancora sotto Innocenzo III non solo la teorizzazione, ma altresì l'esplicita attestazione della subiectio mediate. La spiegazione di questo ritardo sembra vada attribuita alla contingenza politica: nel momento di acquisizione di nuovi domini, troppo urgente doveva essere per l'autorità papale il bisogno di un riconoscimento generale e, soprattutto, diretto perché fosse possibile sanzionare apertamente un rapporto di dipendenza soltanto indiretto (subiectio mediate), e dunque anche teorizzare le due diverse forme di sovranità.
Il superamento della concezione feudale della sovranità e la netta chiarificazione della distinzione fra terre mediate e terre immediate soggette al potere pontificio furono compiuti fra il secondo e il quinto decennio del secolo. Allorché il vassallaggio personalmente giurato diveniva un obbligo di tutti i residenti nei domini temporali, esprimeva una relazione che proprio per la sua generalità perdeva quelle caratteristiche di legame personale e bilaterale tipiche del nesso feudale, trasformandosi in un rapporto che di fatto costituiva una soggezione di natura pubblica e territoriale. Da Onorio III in poi, le fedeltà vassallatiche furono richieste, di norma, non più alla totalità degli abitanti, ma solo ai rappresentanti dei comuni e ai nobili che esercitavano diritti di giurisdizione. Si giurava ormai in quanto titolari di poteri di comando all'interno di un organismo politico definito in senso territoriale. I giuramenti, poi, si caricarono di una nuova serie di obbligazioni: la fedeltà diveniva un presupposto scontato, poiché l'elemento sostanziale del giuramento era il rispetto di una serie crescente di prescrizioni fiscali, giudiziarie e militari. In questa evoluzione verso una concezione della sovranità e un'organizzazione del potere più efficaci e complesse venne meno lo spazio per le stesse concessioni pontificie di feudi: dal pieno Duecento, non soltanto cessarono le nuove investiture, ma spesso cadde in oblio anche il carattere originariamente beneficiario di alcune signorie laiche, che furono in tutto assimilate ai possessi allodiali (da sempre prevalenti) dell'aristocrazia signorile.
Una concezione del potere con molti tratti patrimoniali, e connotata da una strutturale difficoltà a definirsi in senso territoriale, cedeva il passo a un'interpretazione diversa. Dal quarto-quinto decennio del XIII sec., prevalsero così altre forme di rappresentazione e sanzione della sovranità pontificia, che portarono ad abolire "ogni frontiera teorica fra sottomissione vassallatica e soggezione pubblica" (Toubert, 1973, p. 1188). L'elemento principale diveniva il generale rapporto di soggezione e obbedienza che univa ormai al sovrano tutti i sudditi, e che gradualmente smetteva di trarre legittimazione e riconoscimento dalla richiesta di giuramenti di fedeltà. Era appunto in questo quadro che poteva trovare reale sviluppo la distinzione fra sudditi mediate o immediate subiecti.
La struttura amministrativa provinciale, dopo una fase di definizione sia delle funzioni del rettore che dei limiti delle circoscrizioni, finì per articolarsi in quattro grandi circoscrizioni: la provincia di Campagna e Marittima, nel Lazio meridionale, riprendeva una creazione dei papi del XII sec.; il ducato di Spoleto e la Marca di Ancona derivavano dal precedente governo imperiale e si estendevano rispettivamente a buona parte delle attuali Umbria e Marche; nel Lazio settentrionale e nella bassa Umbria venne costituita, ex novo, la provincia del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia. I confini provinciali variarono frequentemente, soprattutto nel caso della nuova provincia del Patrimonio, e talvolta ai quattro distretti maggiori si aggiunsero, già nella prima metà del secolo, le circoscrizioni minori di Massa Trabaria e della Sabina. Nei momenti di più forte crisi politico-militare, inoltre, l'intera struttura provinciale fu abbandonata, come avvenne ad esempio nel 1244-1252, all'apice degli attacchi mossi da Federico II, allorché dapprima il cardinale Raniero Capocci da Viterbo e poi il cardinale romano Pietro Capocci governarono contemporaneamente il Patrimonio di Tuscia, il ducato di Spoleto e la Marca di Ancona, unendovi anche per minor tempo la Campagna-Marittima e la Sabina.
Ogni provincia era affidata a un rettore di diretta designazione papale, che restava in carica per uno o più anni. Innocenzo III, che al pari di Onorio III alternò in realtà spesso l'invio di legati a quello di rettori, divise abbastanza equamente le sue nomine fra laici, scelti fra i parenti o fra i maggiori esponenti della nobiltà filopapale, e cardinali; fino a dopo la metà del secolo, le designazioni dei suoi successori s'indirizzarono in grande maggioranza verso ecclesiastici titolari di un'alta dignità, ma non necessariamente membri del Sacro Collegio. La presenza di rettori o vicari in spiritualibus, abituale a partire dagli anni Sessanta del Duecento, è in precedenza del tutto eccezionale; la nomina di tesorieri provinciali direttamente dipendenti dal papa è anch'essa un'innovazione successiva all'età federiciana (in precedenza, peraltro, alla guida delle finanze provinciali, ma subordinato al rettore, è attestato talora un camerarius). Rappresentante del papa nella provincia, il rettore cercava di contenere le autonomie comunali e la turbolenza nobiliare; esercitava facoltà giudiziarie, convocava il parlamentum dei sudditi, provvedeva ad alcuni prelievi fiscali e raccoglieva se necessario aiuti militari da nobili e comuni. Nelle loro funzioni giudiziarie i rettori erano assistiti da giudici, la cui presenza, dopo alcune attestazioni relative già al pontificato di Innocenzo III, risulta stabile almeno a partire da Gregorio IX. Quanto al parlamentum, che per ogni provincia prevedeva la partecipazione dei signori territoriali, dei dignitari ecclesiastici e dei rappresentanti delle città, la sua convocazione appare episodica e le sue decisioni risultano essere state in più casi oggetto della contestazione dei sudditi.
Fino agli anni Sessanta, il funzionamento e la forza dell'apparato statale dipesero molto dai rapporti con l'imperatore, a loro volta condizionati dal problema del definitivo riconoscimento imperiale dei nuovi domini papali e dalla questione dell'unione del Regno di Sicilia all'Impero. Nonostante Federico II avesse due volte confermato, nel 1219 e nel 1221, le anteriori donazioni ai pontefici (aggiungendovi anzi, nel 1219, la zona appenninica di Massa Trabaria), già sotto Onorio III appariva chiaro che il ritiro svevo dall'Italia centrale era solo provvisorio. Il conflitto scoppiò com'è noto con Gregorio IX, a partire soprattutto dal 1239, quando Federico II invase il ducato e la Marca. Durante la lotta, Chiesa e Impero seguirono di necessità una politica contraddittoria, cercando da un lato di rendere più forti e funzionali i propri strumenti di controllo e di governo, dall'altro di vincolare a sé comuni e signori attraverso concessioni che finivano talora per limitare la loro stessa sovranità. Le vicende politiche e militari portarono a una vera e propria alternanza fra dominazione pontificia e dominazione imperiale, al punto che secondo alcuni studiosi la prima metà del Duecento non sarebbe l'epoca dei "recuperi" pontifici, ma il "periodo svevo-papale" (Waley, 1983, p. 190), l'epoca cioè di un governo alternato fra le due forze. Nella Marca di Ancona, ad esempio, nel 1229 la campagna condotta dalle truppe pontificie contro il rappresentante imperiale Rainaldo di Urslingen e poi, nel 1230, la pace di San Germano, con la quale Federico II rinunciava esplicitamente a ogni diritto sulla regione, diedero inizio a un periodo di effettiva dominazione pontificia, destinato a durare circa un decennio. Nel 1239, con le guerre successive alla seconda scomunica di Federico, l'apparato imperiale riuscì a sostituirsi pressoché in tutto a quello pontificio. La ripresa del potere papale si verificò nel 1248-1249, grazie alle offensive condotte dal cardinale Raniero Capocci. A sua volta, questo secondo periodo di dominazione pontificia terminò nel 1258, quando le vittorie di Manfredi riportarono la Marca sotto il dominio svevo. Solo nel 1264, alla vigilia della definitiva sconfitta sveva, la Chiesa recuperò infine stabilmente la regione.
Il reale potere dei rettori mutò molto a seconda della forza dei soggetti e della contingenza politico-militare. Dobbiamo comunque astenerci dal valutare le concrete prerogative dei rettori (e dunque dello stesso pontefice) in modo anacronistico, paragonandole alle competenze dei funzionari provinciali di epoche successive. Come in tutti i grandi organismi politico-territoriali del tardo Medioevo, la sovranità statale non soltanto accettava, ma anzi per certi versi si fondava sul riconoscimento ai sudditi di vaste sfere di autonomia tanto in campo fiscale e di governo, quanto in quello giudiziario, politico e persino militare.
Sul piano ideologico, certo, esisteva una divergenza strutturale tra un programma papale talora d'intransigente affer-mazione della sovranità della Chiesa e, all'opposto, l'orien-tamento dei comuni e delle grandi stirpi nobili a considerare la superiorità pontificia come del tutto eminente e teorica. Ne derivarono tensioni, contrasti e anche aperte ribellioni, e una situazione di continua instabilità accentuata dall'aggressiva turbolenza della nobiltà signorile e, per le città, dalla lunga tradizione di autonomia e dalla forte spinta all'autogoverno tipica dei comuni maggiori. Ma non va mai dimenticato che sul concreto piano della pratica di governo questa divergenza fra le rivendicazioni intransigenti del papato e la tendenza all'autonomia delle forze locali fu risolta tramite il ricorso a soluzioni e mediazioni di ogni tipo. Come in tutti gli stati dell'epoca, si realizzò un 'dualismo' fra potere centrale e poteri periferici.
Questo assetto dualistico dei poteri venne in parte istituzionalmente riconosciuto e in parte fu una realtà di fatto, a un tempo accettata e ignorata dal papato. Il riconoscimento istituzionale fu dovuto alla ricordata affermazione della distinzione fra territori mediate o immediate subiecti. Gli stessi sudditi immediate, direttamente sottoposti alla giurisdizione dei rettori, si vedevano riconosciuti amplissimi margini di autonomia e di autogoverno: nessun pontefice ritenne ad esempio che fra le sue prerogative vi fosse l'intervento nel sistema fiscale dei comuni, o nei loro apparati istituzionali, o nel loro diritto di amministrare la giustizia di prima istanza o, ancora, in molteplici altri settori lasciati al più libero autogoverno. Per quel che riguarda i comuni, peraltro, la piena accettazione pontificia e la realizzazione di un assetto dei poteri di tipo diarchico, in cui il governo locale veniva condiviso da rappresentanti del pontefice e da esponenti delle comunità locali, si concretizzarono soltanto nel XV sec., in un contesto di grande rafforzamento dei poteri papali. Innocenzo III e i suoi successori, invece, immaginarono una forma di governo diversa, che riprendeva il modello degli ordinamenti municipali del Regno di Sicilia: "un governo unitario al cui vertice si trovasse un magistrato di nomina papale" (Caravale, 1994, p. 499). Nei fatti, tuttavia, solo in via eccezionale (e in linea di massima solo per i comuni minori) la Chiesa e i rettori riuscirono realmente a nominare i maggiori magistrati cittadini.
Nel contempo, si realizzò anche un dualismo di fatto: perché i comuni cittadini, le stirpi nobili titolari di poteri signorili sulla popolazione rurale e, in minore misura, alcuni grandi monasteri rurali non soltanto si videro riconosciuti questi amplissimi margini di autonomia e le aree a loro direttamente soggette (e quindi sottratte ad ogni rapporto di sovranità immediata con il papato), ma riuscirono anche a impedire o limitare l'estendersi dell'autorità papale su settori che pure essa sosteneva essere di propria competenza. I contrasti riguardarono la nomina dei podestà e dei maggiori magistrati comunali, così come ogni altro elemento della sovranità papale. A seconda dei rapporti di forza, della convenienza e della contingenza, il diritto dei rettori provinciali a giudicare le cause di appello veniva contestato, rifiutato, forzatamente accolto; il pagamento di un'imposta era effettuato con tempestività e completezza, procrastinato, limitato, del tutto eluso; oppure poteva avvenire che la richiesta di fornire contingenti di truppe ai rettori venisse soddisfatta in pieno o in parte, o fosse invece rifiutata.
Per una valutazione complessiva del Patrimonium sancti Petri in età federiciana (e oltre), bisogna in primo luogo osservare che rispetto ai contemporanei organismi statali italiani ed europei, lo Stato della Chiesa presentava alcuni strutturali elementi di debolezza. Al contrario di quanto avveniva nelle costruzioni politico-territoriali dei comuni italiani e, in minor misura, negli stati monarchici, nei domini pontifici era ridottissima la saldatura fra gli interessi economici e politici di vasti settori sociali, da un lato, e il processo di costruzione statale e territoriale, dall'altro. La possibilità di fusione dei ceti dirigenti delle diverse regioni dello Stato della Chiesa con il personale burocratico preposto agli uffici centrali della Chiesa e all'amministrazione dei suoi domini temporali era limitata in partenza dalla condizione chiericale della maggioranza dei funzionari e degli ufficiali papali.
Ma soprattutto, per la nobiltà signorile e i gruppi sociali al potere nelle città i vantaggi ritraibili da un'espansione della potenza statale erano di gran lunga inferiori ai danni arrecati dal parallelo scemare dei loro margini di autonomia. Il paragone con le coeve costruzioni politiche delle dinastie regie e principesche evidenzia poi un altro elemento di debolezza. Anche il papato era una sorta di monarchia: ma elettiva, senescente, e per certi aspetti anche collegiale. Il sovrano, nominato di norma ormai in età avanzata, restava di solito in carica solo pochi anni. Di volta in volta, inoltre, mutava la sua provenienza geografica e familiare, tanto più che non veniva eletto da un'aristocrazia od oligarchia interna allo Stato, ma da un collegio, quello cardinalizio, anch'esso continuamente rinnovato e largamente condizionato da membri spesso estranei ai domini temporali. Così, mentre in un regime monarchico o principesco la famiglia del sovrano era legata organicamente allo stato, nei domini della Chiesa fra parenti del papa e stato non v'era un legame organico, ma anzi un antagonismo destinato a rimanere latente durante la vita del pontefice di famiglia, e pronto a manifestarsi all'indomani della sua scomparsa. Pur se relativamente frequente, la morte del papa rappresentava inoltre, per l'autorità temporale, una soluzione di continuità ben più profonda che la scomparsa del sovrano in altri stati.
Sulla base di queste constatazioni, il processo di costruzione statale condotto dai papi è stato giudicato negativamente, come "un sostanziale fallimento" (Waley, 1961, p. XIII). È un giudizio eccessivo, da chiarire e sfumare. Ha soprattutto il limite di fondarsi su un'immagine alta e forte dello stato, qualificato in termini di centralismo, sovranità assoluta e progresso, e dunque su un implicito paragone con forme statali posteriori, con lo 'stato moderno'. Collocando invece l'organismo politico-territoriale costruito dai papi nel complessivo panorama politico e istituzionale del tempo, esso spicca per l'ampiezza geografica (in Italia seconda solo al Regno di Sicilia), la capacità di conservare una stabile organizzazione provinciale, il permanere di alcune fondamentali prerogative (soprattutto giudiziarie e fiscali) e altre importanti acquisizioni.
fonti e bibliografia
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