PAUPERISMO
. Il fenomeno del pauperismo è dovuto a fatti economici e sociali della più complessa natura, dalla vitalità e spirito d'intraprendenza economica del popolo allo stato di sufficienza relativa delle risorse naturali, alla quantità di terre libere e di capitali disponibili a basso interesse, all'altezza relativa del reddito (quando il reddito è estremamente ridotto nei bassi strati della popolazione, la vasta e profonda disintegrazione morale e sociale che spesso ne deriva, aggrava lo stato di povertà), alla disuguaglianza naturale e sociale, per cui gl'individui nascono con un diverso grado di salute fisica, mentale e morale, con diversa volontà e carattere e con differente grado di agiatezza, sicché una parte di essi ha un insieme di probabilità e di opportunità d'una vita migliore di gran lunga inferiori a quelle dell'altra parte, oltre, naturalmente, a quelle differenze che si vanno immancabilmente formando nel corso della vita. Accanto a questi fattori del pauperismo, che si possono dire permanenti, altri ve ne sono con effetti di durata variabile, per cui il pauperismo presenta in certe epoche un eccezionale grado di sviluppo, per la sproporzione fra domanda e offerta di lavoro. Tra queste ultime cause vanno menzionate per l'intensità dei loro effetti, le guerre e le crisi capitalistiche, accompagnate o seguite dal ridursi dell'attività commerciale e industriale onde si forma rapidamente una grande massa di disoccupati.
Porre riparo al pauperismo significa rimuovere le sue cause e attenuarne le conseguenze più gravi; e questo per la maggior parte non è problema che possa essere abbandonato all'iniziativa e alle forze dei singoli, ma dipende dall'ulteriore progresso della tecnica della produzione e della distribuzione e può essere risolto solo dallo stato. Il raggiungimento di una maggiore giustizia sociale è infatti uno degli scopi cui mira lo stato fascista.
Due grandi inchieste sulle cause della povertà sono da ricordare. Una, che fu condotta nel 1892 da C. Booth, provò come le cause di povertà di 1610 famiglie londinesi classificate in "grande povertà" si dovessero per il 43% agli effetti del lavoro non regolare; per il 9% a bassa paga; per il 3% a piccoli profitti; per il 9% al vizio del bere del marito o dei coniugi; per il 5% a un tale vizio da parte della moglie; per l'8% a famiglie numerose; per il 9% a malattie; per il 4% a pigrizia, e per il resto a cause varie. Per altre 2466 famiglie, pure rilevate dal Booth, ma classificate come "povere", i rapporti corrispondenti alle categorie suddette erano rispettivamente: 0%; 63%; 5%; 7%; 6%; 9%; 10%; 0%. La seconda inchiesta, dovuta a S. Rowntree, diede risultati diversi; le differenze sono però in gran parte di classificazione. Così, di 1465 casi esaminati alla fine del secolo XIX il 15,63% era dovuto a morte del capo famiglia; il 5,11% a malattie o a età avanzata; il 2,31% a disoccupazione; il 2,83% a irregolarità di lavoro; il 22,16% a famiglia numerosa; il 51,96% a bassa paga. È poi interessante vedere come si presentano le varie età di povertà per i singoli. Se si traccia una linea della "povertà sopportabile" per tutti gli anni di vita, lo stato economico del povero è sotto questa linea dall'età di 5 ai 15 anni; sopra questa linea dai 15 ai 30 anni (periodo in cui il povero trova lavoro); ritorna sotto dai 30 ai 40 anni, per risalire ancora sopra da questa età fino ai 60-65 anni, periodo in cui i figli aiutano i genitori; e infine ritorna sotto la linea della povertà sopportabile quando i figli abbandonano la casa paterna e i genitori hanno superato l'età lavorativa.
I dati sopra riportati mostrano dunque che l'importanza dei difetti personali, come l'ubriachezza, l'ozio, l'amoralità, sia stata esagerata quale causa principale della povertà; né il provare, come fece il Salter nel 1926, che gran parte del reddito operaio è speso in birra e liquori significa senz'altro che le famiglie classificate come "povere per impiego irregolare" debbano tale loro stato al vizio del bere, giacché la povertà dipende soprattutto da fatti connessi con questioni di impiego. Prima della guerra mondiale erano infatti generalmente poveri coloro che esercitavano, o avevano esercitato, le professioni più basse (facchini, spazzacamini, servi, ciabattini, ecc.), mentre i casi di povertà volontaria contavano per pochissimo. Nel dopoguerra, la maggior causa di povertà è nettamente ascrivibile alla disoccupazione, con la differenza però che il povero oggi proviene anche da categorie di lavoratori più elevati (operai quasi qualificati e qualificati e impiegati).
Sull'intervento dello stato a favore dei poveri nell'età antica, medievale e moderna e sulla legislazione in materia e, in particolare sull'assistenza fascista, che ha carattere di solidarietà nazionale e non di elemosina, v. beneficenza e assistenza, VI, p. 618 segg. e App.
Storia. - Se il problema della povertà è vecchio quanto l'uomo civile, di una questione del pauperismo non si è cominciato a parlare con insistenza che in epoca assai recente, e si può dire che solo eccezionalmente essa si fosse affacciata, in alcuni casi particolari, nei tempi più lontani da noi. Mentre infatti la povertà, come contrapposto della ricchezza, come fenomeno prevalentemente subiettivo di squilibrio fra mezzi e bisogni, o come fenomeno individuale d'indigenza totale di ammalati, di vecchi, di bimbi abbandonati, rientra, in un certo senso, nella fisiologia della società umana e, se non può essere eliminata, trova il suo correttivo nell'opera di assistenza pubblica e privata, il pauperismo invece, come fenomeno collettivo, il quale colpisce larghi strati della popolazione atta al lavoro, mettendola nell'impossibilità di procurarsi l'indispensabile, è un caso di patologia sociale, e come tale esso interessa da un lato tutti gli apostoli delle riforme o della rivoluzione, e dall'altro, per una necessità elementare di conservazione, lo stato e i suoi organi.
Il problema non si presenta nelle piccole comunità, sia del mondo antico sia del Medioevo, che si possono considerare come una grande famiglia, entro la quale si applicano spontaneamente i principî della collaborazione e del mutuo soccorso, e in cui la possibilità di disporre dei diritti di pesca, di caccia, di pascolo, di legnatico, di raccolta su vastissime estensioni di terre di proprietà collettiva offre anche ai membri più miseri delle collettività il mezzo di tirare avanti la vita. Nei grandi imperi del mondo antico, dove la conquista e la spogliazione dei vinti creano grandi masse di diseredati, il problema è risolto facilmente con la loro riduzione in schiavitù, e si può dire anzi che esso non sia quasi avvertito. La sua gravità urgente è sentita soltanto in alcune metropoli, e non per le classi diseredate nel senso più vero e più ampio della parola, ma soltanto per la parte più misera dei cittadini liberi. Così ad Atene, al tempo di Pericle, si ha un esempio di assistenza di stato, in obbedienza al principio che ogni cittadino libero, che fosse inabile al lavoro e non possedesse un patrimonio sufficiente ad assicurargli i mezzi di sussistenza, dovesse ricevere per questo un soccorso dallo stato. Allo stesso principio s'informano, nel mondo romano, le distribuzioni di grano a prezzo ridotto e poi anche gratuite, limitate alla sola popolazione libera della capitale, e ispirate non tanto da un criterio economico o caritativo, quanto da una necessità politica. Dove la finalità politica e militare sembra conciliarsi con quella economica di trovare una soluzione, almeno parziale, al problema del pauperismo è nell'opera di colonizzazione, che in molti casi assume in prima linea il carattere di un mezzo per allontanare da Roma o dall'Italia gruppi di sfaccendati senza mezzi di sussistenza e di assicurare loro il lavoro e la sicurezza del domani.
Nel Medioevo il ritorno alle piccole comunità del villaggio o della signoria fondiaria, allargatesi più tardi nelle sempre ristrette comunità cittadine, ristabilisce quelle condizioni di equilibrio per cui raramente si dovette presentare il problema del pauperismo, e non mai in forma di gravità urgente. Il contadino, legato alla terra da vincoli consuetudinarî, deve condurre una vita assai grama, ma è sicuro del domani, non è esposto all'alea d'essere arbitrariamente scacciato dalla sua capanna e dal suo appezzamento. Se questo diventa troppo piccolo per la sua famiglia, fattasi troppo numerosa, egli ha il mezzo di arrotondare il troppo magro bilancio con i diritti d'uso su prati e boschi, con l'esercizio dell'industria domestica, con i servigi prestati alla corte del signore. Non mancarono periodi in cui l'equilibrio fu rotto dal troppo rapido aumento della popolazione, manifestatosi specialmente nel sec. XI e XII, ma esso poté essere ristabilito dall'opera di colonizzazione, dal dissodamento di terre incolte, dallo sviluppo della vita cittadina. Nelle città poi l'equilibrio è mantenuto dal regime corporativistico, che assicura ad artigiani e piccoli mercanti la tranquillità della loro mediocre esistenza, liberandoli dai pericoli della concorrenza e della disoccupazione e garantendo l'aiuto della corporazione ai membri inabili al lavoro per infermità o per vecchiaia.
In questa situazione di equilibrio il problema del pauperismo, fatta eccezione per i maggiori centri dove esiste una massa di operai salariati, veri servi delle maestranze, non assume mai tali proporzioni da destare la preoccupazione degli organi statali. A sovvenire ai bisogni dell'infanzia abbandonata, degli ammalati, dei vecchi si ritiene sufficiente l'assistenza privata e in particolare quella della Chiesa, nelle sue varie e numerose istituzioni di beneficenza e di educazione, a cui lo stato si limita a contribuire con agevolazioni fiscali e con sussidî.
La situazione si modifica profondamente agl'inizî dell'età moderna e allora si può dire che il problema del pauperismo si presenti in tutta la sua gravità. Lo sviluppo sempre maggiore dell'economia di scambio e la tendenza che ne deriva in molti stati dell'Europa centrale e occidentale a rompere i vincoli consuetudinarî che ostacolavano il libero sfruttamento della proprietà, in un momento in cui la popolazione rurale era in aumento, determinano il distacco dalla terra di grosse masse di coltivatori, costretti a scegliere tra l'emigrazione in città, il bracciantato rurale, o la disoccupazione. È questo il periodo delle rivolte violente dei contadini e del vagabondaggio dei mendicanti, spesso violenti e riottosi; e il problema che si presenta gravissimo anche dal punto di vista politico è reso anche più difficile dal fatto che appunto nei paesi in cui esso si era presentato con maggiore gravità la Riforma aveva portato alla soppressione di tutte quelle fondazioni religiose, che avrebbero potuto, sebbene in misura insufficiente, portarvi un rimedio. Da ciò la necessità per lo stato d'intervenire direttamente, sia in forma negativa per reprimere la mendicità e il vagabondaggio, sia in forma positiva prendendo sopra di sé quei provvedimenti di assistenza e di educazione al lavoro che mirassero a colpire il male alle sue radici. Mentre nei paesi cattolici, dove tuttavia si erano avuti fino dal sec. XV i primi accenni di un'azione statale contro il pauperismo, l'assistenza ecclesiastica riprende, dopo il concilio di Trento, il suo pieno e assoluto predominio, nei paesi protestanti si afferma decisamente l'azione statale.
Chi fa il passo più ardito su questa via, dopo qualche tentativo delle città renane e fiamminghe, è la monarchia inglese. Secondo numerose testimonianze contemporanee, ufficiali e private, il vagabondaggio vi aveva assunto nella seconda metà del Cinquecento i caratteri e le proporzioni d'un vero pericolo sociale. Si volle riparare ad esso reprimendolo con pene d'una severità estrema e decretando l'obbligo del lavoro per tutti.
Secondo uno statuto del 1598 i vagabondi devono essere frustati a sangue e poi condotti di parrocchia in parrocchia fino a quella in cui sono nati, e qui, se non ritrovano la loro precedente occupazione, saranno accolti in una casa di correzione, di cui la legge contempla la fondazione, e che è una casa di lavoro obbligatorio, dove essi resteranno, finché si trovi loro un'occupazione presso un privato.
Ma poiché non tutti gl'indigenti sono validi al lavoro, la repressione del vagabondaggio sarebbe riuscita inefficace o iniqua, se non fosse stata accompagnata da un'opera di assistenza agl'infermi e ai vecchi. Mancato a questi il soccorso dei monasteri, lo stato incomincia a intervenire con la legge del 1536, che impone alle singole parrocchie l'obbligo di soccorrere i loro poveri, valendosi per questo delle oblazioni spontanee dei fedeli. Ma poiché queste si rivelarono insufficienti, si concesse nel 1572 ai giudici di pace la facoltà di stabilire una tassa dei poveri, a cui fossero soggetti tutti i parrocchiani, e si diede finalmente, nel 1597 e nel 1601, una forma definitiva alla legge dei poveri, rimasta poi in vigore fino ai nostri giorni. In essa si riassunsero tutte le disposizioni sul garzonato obbligatorio dei ragazzi poveri, sull'assegnazione dei mezzi di lavoro agli adulti disoccupati, sulla creazione di ospizî per gl'impotenti, e si confermarono, aggravandole, le pene contro i mendicanti vagabondi. La legge inglese si può considerare perciò come la manifestazione più tipica della soluzione del problema del pauperismo prevalente nel mondo protestante, nel quale al vecchio concetto dell'assistenza dei benefattori, si sostituisce quello della rieducazione al lavoro, considerato come un dovere.
Il problema del pauperismo, che si era presentato con tanta gravità nei primi decennî del secolo XVI, si riaffaccia in forme diverse, ma con gravità assai maggiore, due secoli più tardi. La gravità del tutto nuova del problema è determinata in prima linea dal rapido incremento della popolazione che si manifesta nella seconda metà del Settecento in tutta l'Europa, e particolarmente nelle grandi città degli stati occidentali: incremento a cui si riteneva allora che non corrispondesse l'aumento della produzione delle derrate alimentari, e che sembrava perciò giustificare la teoria pessimistica di Malthus (per la critica di questa teoria, v. malthus). Dopo la fine del secolo il problema assume una gravità preoccupante in seguito al trionfo della grande industria e all'agglomeramento di grandi masse di salariati, del tutto indifesi ed esposti al pericolo delle crisi periodiche, della disoccupazione e della fame.
A far considerare il problema anche nei paesi cattolici, con criterî diversi da quelli dei secoli precedenti, concorrono i mutati rapporti fra Stato e Chiesa, il trionfo dell'assolutismo illuminato, e la decadenza o la totale scomparsa delle corporazioni artigiane. L'assistenza dei poveri finisce con l'essere considerata dovunque come una funzione dello stato, esercitata da questo indirettamente con l'unificazione, il controllo, la disciplina delle opere pie, oppure con l'azione diretta, mirante a integrare quella dell'iniziativa privata e religiosa per mezzo di case di lavoro, di scuole pratiche per l'istruzione professionale, di stimolo e aiuto alla creazione di istituti di previdenza, come le casse di risparmio e le società di mutuo soccorso.
Mentre l'emigrazione in America, offrendo nuove possibilità di lavoro, costituiva un rimedio contro la piaga dilagante del pauperismo, il sindacalismo operaio, che si estendeva, di pari passo col trionfo della grande industria, esercitando una pressione indiretta sempre più forte sullo stato, lo spingeva alla creazione d'una legislazione sociale sempre più vasta e complessa, che non mirava soltanto alla tutela del lavoratore occupato, ma anche di quelli che per ragioni accidentali o costituzionali fossero condannati all'inabilità temporanea o permanente al lavoro. Sono soprattutto le assicurazioni sociali nelle loro forme molteplici (contro le malattie, contro gl'infortunî, contro la disoccupazione, per l'invalidità e la vecchiaia, ecc.), le quali senza sostituirsi alle vecchie forme di assistenza, si aggiungono ad esse, raggiungendo un'efficacia molto maggiore. Su questa via cammina, con ferma energia, l'Italia, che, costituita in stato corporativo fascista, può, meglio di qualsiasi altro paese, affrontare e risolvere in pieno il problema del pauperismo.
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