Fenomeno economico e sociale per cui in determinati periodi larghi strati della popolazione sono colpiti dalla miseria in conseguenza di un complesso di fattori di varia natura (quali penuria di risorse naturali e di capitali, scarso spirito di intraprendenza, cattiva distribuzione della ricchezza ecc.) o anche di fatti eccezionali (guerra, carestia, crisi economica, inflazione acuta ecc.), che possono suscitare gravi situazioni di depressione economica e di disoccupazione, o accentuare squilibri già esistenti. Il problema del p., benché di povertà come fenomeno collettivo si possa parlare anche in epoche precedenti, si è imposto all’attenzione di studiosi e di governi soltanto agli inizi dell’età moderna, quando lo sviluppo sempre maggiore dell’economia di scambio determinò il progressivo distacco dalla terra di grosse masse di coltivatori costretti a scegliere tra l’emigrazione in città, il bracciantato agricolo e la disoccupazione.
Dal punto di vista teorico, il p. è stato affrontato specialmente nel quadro delle analisi sullo sviluppo del capitalismo: per K. Marx e F. Engels la pauperizzazione di settori sempre più vasti di popolazione doveva considerarsi la conseguenza necessaria della caduta tendenziale dei saggi di profitto, che avrebbe indotto i capitalisti a comprimere costantemente i salari a livello di sussistenza per assicurarsi margini costanti di plusvalore. Questa previsione del marxismo, insieme alle altre che formano il nucleo del ‘socialismo scientifico’, fu contestata da E. Bernstein e successivamente da J. Schumpeter, sulla base della constatazione di evidenza empirica secondo la quale non il p., ma il benessere e l’arricchimento diffusi sono stati gli effetti più rilevanti dello sviluppo capitalistico.