PENA DI MORTE
Lo scenario internazionale: Paesi abolizionisti e Paesi mantenitori. – La p. di m. è stata abolita, de iure o de facto, in 140 Paesi. Erano infatti 98, alla fine del 2014, gli Stati abolizionisti per tutti i reati, 7 gli Stati che mantenevano la
p. di m. solo per reati ‘eccezionali’ (quali, per es., quelli previsti da codici militari di guerra) e 35 gli Stati che potevano considerarsi abolizionisti di fatto, non avendo eseguito condanne a morte da almeno 10 anni. Erano invece 58 gli Stati il cui ordinamento giuridico prevedeva ancora la pena capitale. Di questi 58 Stati, solo 22 hanno eseguito condanne a morte nel 2014. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo, in ordine descrescente, nei seguenti Paesi: Cina, Irān, Arabia Saudita, ῾Irāq, Stati Uniti, Sudan, Yemen, Egitto e Somalia. Si segnala infine come, nel 2014, in tutto il continente americano gli Stati Uniti siano stati l’unico Paese ad avere eseguito condanne a morte, mentre, in Europa, la Bielorussia, unico Paese mantenitore del continente, ha ripreso le esecuzioni dopo un’interruzione di circa due anni.
Se continua a progredire la tendenza verso l’abolizione, la comunità internazionale rimane profondamente divisa fra Stati per i quali la p. di m. è una violazione dei diritti umani, alla quale va prestata la dovuta attenzione in sede internazionale, e Stati che invece difendono la liceità internazionale della scelta di mantenerla e, al tempo stesso, la natura esclusivamente ‘domestica’ di tale scelta.
Tale contrapposizione condiziona, frenandolo, lo sviluppo di norme internazionali in materia. I quattro accordi internazionali che riconoscono il diritto specifico a non essere condannati a morte vietando la pena capitale in tempo di pace o in ogni circostanza – Secondo Protocollo al Patto internazionale sui diritti civili e politici, Sesto e Tredicesimo Protocollo alla Convenzione europea dei diritti umani, Protocollo alla Convenzione americana sui diritti umani – sono stati ratificati, com’è logico, solo da Stati che hanno già abolito la pena di morte. E l’interpretazione in senso abolizionista del diritto alla vita e/o del diritto a non essere sottoposti a tortura o trattamenti o punizioni inumani o degradanti è condivisa solo dagli Stati contrari alla pena di morte.
Il movimento abolizionista. – In tale contesto, il movimento abolizionista ha scelto di portare avanti una strategia di avvicinamento graduale all’obiettivo finale dell’abolizione totale della p. di m., attraverso una limitazione progressiva di quest’ultima. Tale impostazione trova fondamento nell’art. 6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che riconosce il diritto alla vita e, pur non vietando la p. di m., lascia intendere in più passaggi come la sua abolizione sia un obiettivo auspicabile e meritevole di essere perseguito; e che, allo stesso tempo, contempla alcuni limiti specifici al ricorso alla pena di morte.
Il cosiddetto abolizionismo programmatico è portato avanti soprattutto dagli organi politici della Nazioni Unite: in particolare, l’Assemblea generale, grazie anche all’efficace azione dell’Unione Europea e dell’Italia in particolare, ha adottato una serie di risoluzioni in cui si invita a introdurre una moratoria delle esecuzioni capitali, intesa come primo passo in direzione dell’abolizione de jure.
Quanto ai limiti all’uso della p. di m., questi si sono consolidati ed estesi attraverso la prassi interpretativa e applicativa del Patto sui diritti civili e politici e di altre convenzioni sui diritti umani, nonché attraverso l’adozione di atti internazionali di cosiddetta soft law. Tali limiti appartengono a tre categorie: limiti soggettivi, relativi alle persone (a cominciare dai minori al momento del reato e dai malati di mente) che si ritiene debbano essere escluse dall’ambito di applicazione della p. di m.; limiti oggettivi, relativi al tipo di reato per cui tale pena può essere inflitta (l’obiettivo essendo quello di restringere l’applicabilità della p. di m. a un numero sempre più esiguo di reati particolarmente gravi); e limiti procedurali, relativi alla celebrazione dei processi che possono concludersi con una condanna a morte, essendo i diritti della difesa e il diritto di appello ancora più fondamentali laddove esiste la possibilità che a essere applicata sia una pena irreversibile.
Oltre che dal punto di vista del diritto alla vita, la p. di m. è stata affrontata anche con riferimento al diritto a non subire torture o trattamenti analoghi. Ciò è avvenuto in un primo momento nell’ambito regionale europeo, a partire dalla sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Soering contro Regno Unito, che ha giudicato contraria all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo l’estradizione negli Stati Uniti di una persona accusata di un reato punibile con la p. di m. in quel Paese (in particolare in ragione di certe «circumstances surrounding the death pen al ty» nello Stato americano della Virginia). In seguito, anche in ambito universale la p. di m. è stata presa in considerazione nella prospettiva ulteriore del divieto di tortura, soprattutto con riferimento ai metodi di esecuzione impiegati.
Infine, la p. di m. ha assunto rilievo internazionale anche nelle due cornici della collaborazione fra Stati in materia penale – una richiesta di estradizione per un reato punibile con la p. di m. non viene accolta dagli Stati abolizionisti o viene da questi accolta solo a condizione che tale pena non sia applicata nel caso specifico – e dell’attività dei tribunali penali internazionali, quali i tribunali ad hoc per la ex Iugoslavia e per il Ruanda e la Corte penale internazionale, i cui statuti non prevedono, nonostante la gravità dei crimini, che possa essere inflitta la pena di morte.
Bibliografia: A. Marchesi, La pena di morte. Una questione di principio, Roma-Bari 2004; R. Hood, C. Hoyle, The death penalty: a worldwide perspective, Oxford 2008; Il diritto di uccidere. L’enigma della pena di morte, a cura di P. Costa, Milano 2010; Amnesty international, Death sentences and executions 2014, London 2015.