Pena
di Massimo Pavarini
Pena
Una nozione sociologica di pena che si limiti a coglierne i profili descrittivi si articola su alcuni attributi essenziali: la natura afflittiva, programmatica, espressiva e strategica della reazione punitiva. La natura afflittiva si riferisce all'effetto di produzione di deficit nei confronti del punito, come riduzione di diritti e/o del soddisfacimento di bisogni; nel contempo l'azione repressiva deve apparire intenzionale al fine di determinare una relazione di senso - come riprovazione e censura - tra la pena e il soggetto passivo. La natura espressiva della pena coglie invece la dimensione simbolica della reazione punitiva volta a esprimere la pretesa di autorità di chi punisce; essa, infine, si sviluppa in un contesto situazionale come funzione volta alla conservazione di determinati rapporti di potere. Solo la presenza di tutti questi attributi conferisce natura di penalità alla reazione sociale.
Le pene legali agli attributi fattuali sopra indicati ne aggiungono uno normativo, che come tale non è un nuovo elemento di riconoscibilità, ma di attribuzione: se la reazione punitiva appartiene legittimamente allo Stato, si definisce appunto come legale. La qualifica normativa della pena si specifica poi storicamente in una pluralità di 'dover essere' del castigo: elementi quali la legalità, la proporzionalità tra azione delittuosa e reazione punitiva, la predeterminazione tassativa delle procedure formali di inflizione del castigo si iscrivono tutti all'interno di una strategia politica di contenimento della funzione punitiva statuale che appartiene all'imporsi, in era moderna e nella civiltà occidentale, di un modello funzionale di Stato di diritto (v. Weber, 1922).
Il diritto penale moderno, avanzando nel processo di laicizzazione, è sempre meno in grado di esprimere universali di giustizia e può solo giustificarsi in quanto orientato a fini di utilità; ma se la pena si giustifica ormai finalisticamente, sottostà alle possibilità di critica offerte dalle sue funzioni reali. Nella costante verifica di 'dover essere' ed 'essere' della pena moderna, la riflessione sociologica si chiede che cosa essa effettivamente sia, operando così una critica costante delle ideologie penali, cioè delle teorie che giustificano la sofferenza legale (v. Robert, 1984). Alla domanda 'perché punire?' la filosofia offre una risposta assiologica, la sociologia una spiegazione (v. Johnston e altri, 1962²).
La letteratura sulla pena ha per lo più come oggetto il 'dover essere' dei castighi legali (v. Honderich, 1969; v. Acton, 1969; v. Porzio, 1965): ne consegue che la stessa storiografia penale è prevalentemente costituita dalle idee che filosofi e giuristi, dalla civiltà greca a oggi, hanno espresso rispondendo al quesito 'perché punire?'.
A questa letteratura delle ideologie penali si contrappone una sociologia che prende a oggetto di indagine i sistemi punitivi come fenomeni, interpretando le funzioni reali da essi esercitate (tra le opere classiche v. Durkheim, 1901; v. Mead, 1918; v. Rusche, 1933).
Cercando di rispondere alla questione del perché si affermano particolari modalità punitive, si è così prodotta una storiografia revisionista dei sistemi punitivi: dall'opera pionieristica di Georg Rusche e Otto Kirchheimer (v., 1939) sui rapporti tra sistemi punitivi e struttura economica, alle tesi di Michael Ignatieff (v., 1978) sulla pena carceraria asservita alla produzione della forza lavoro salariata nell'Inghilterra della rivoluzione industriale; dalle opere di David Rothman (v., 1971 e 1980) sui nessi tra crisi sociopolitiche e riforma carceraria negli Stati Uniti d'America, alla suggestiva lettura di Michel Foucault (v., 1975) secondo il quale la categoria della disciplina ha avuto un ruolo centrale nell''invenzione' del penitenziario in epoca moderna; dalle recenti analisi di David Garland (v., 1985 e 1990) sulle ragioni dell'imporsi dei modelli di giustizia correzionale all'interno dei sistemi sociali di Welfare, alle ricostruzioni storiche delle connessioni tra esperienza conventuale e pratiche punitive nel Medioevo di Hubert Treiber e Heinz Steinert (v., 1980); insieme ad altri (v. Sellin, 1944; v. Melossi e Pavarini, 1977; v. Melossi, 1990) questi studi costituiscono un patrimonio di conoscenze storiche capace di rivelare come le pene legali siano state nei fatti altra cosa da quanto pretendevano di essere nelle riflessioni di filosofi e giuristi.
Nella ricerca di una fondazione finalistica della pena si impegna, per primo, il pensiero filosofico utilitarista del Settecento (v. Beccaria, 1764; v. Bentham, 1789). Suo merito è di aver distinto tra giustificazione della 'pena in astratto' e giustificazione della 'pena in concreto'. La forza di questa distinzione risiede nell'aver chiarito come la finalità che l'ordinamento giuridico persegue attraverso il sistema penale, se può giustificare la pena, non è però in grado di determinare i limiti entro cui la vita, la proprietà e la libertà del reo possono essere sacrificati (v. Hart, 1968).
Per la filosofia politica utilitaristica dei Lumi attribuire alla pena in astratto un fine di utilità sociale significa che lo Stato garantisce l'ordine sociale anche attraverso la minaccia di un male. La pena in astratto persegue quindi lo scopo di dissuadere i potenziali violatori della legge: il suo fine è di 'prevenzione generale'.
Il potere di punire è deducibile dalla fondazione contrattuale del rapporto tra Principe e società civile; l'origine pattizia di questo rapporto determina il contenuto degli interessi generali da proteggere e la loro gerarchia, e nello stesso tempo indica anche i beni sacrificabili per l'interesse generale.Diversa è la situazione per la 'pena in concreto'. Se la prevenzione generale giustifica il diritto di punire (perché lo Stato ha il diritto di punire gli illeciti penali), questo scopo non è invece in grado di esprimersi nella 'commisurazione' della pena al caso concreto (quanto si può punire per un determinato illecito commesso).
È ancora lo schema contrattuale a determinare i criteri di commisurazione della pena in concreto, interpretando la reazione punitiva sul modello privatistico di una prestazione post factum: al factum del reato deve conseguire una pena equivalente al valore di quello (principio della retribuzione legale nella commisurazione della pena) (v. Pašukanis, 1927³).Pertanto lo scopo di utilità può soddisfarsi solo nella legge penale in astratto; nella sua applicazione in concreto, la pena è giusta perché proporzionata (un male equivalente al male del reato) e non deve giustificarsi finalisticamente.
La teoria giustificativa della pena finisce per avere un ambito più ristretto nel pensiero idealista che, attraverso la concezione dialettica della libertà del volere (v. Hegel, 1821), è in grado di dare un nuovo fondamento al problema della pena in concreto, mentre tace sulla giustificazione del diritto di punire in astratto, ovvero dà a quest'ultimo una legittimazione solo formale (v. Hart, 1963 e 1968; v. Ross, 1970). Infatti, svanito ogni riferimento contrattuale alla legittimità del potere dello Stato, gli scopi verso i quali il sistema penale si orienta cessano di essere oggetto di negoziazione.
La razionalizzazione del principio della retribuzione legale è pertanto condotta sul piano della pena in concreto e trova la sua fondazione nella volontà colpevole. Il paradigma della pena meritata viene quindi declinato non più solo oggettivamente, ma anche soggettivamente.
Riconoscere che i limiti della pena in concreto sono fissati anche dal grado della colpa determina un livello avanzato nel processo di formalizzazione del diritto penale, in cui situazioni uguali - non solo sul piano della condotta materiale, ma anche della colpevolezza - devono trovare uguale esito sanzionatorio. Affermazione importante, ma irrilevante per quanto concerne la legittimazione della pena in astratto. Affermare che lo Stato punisce perché attraverso il male della pena si riaffermi dialetticamente il bene della legge violata, in sostanza dice solo che la pena deve seguire la violazione della norma, ma lascia irrisolta la questione del suo fine.
Questa fase del processo di fondazione utilitaristica della pena moderna, con l'affermazione della insindacabilità del fine ultimo del sistema penale e della necessaria proporzionalità nella commisurazione della pena in concreto, si protrarrà per molto tempo ancora. Una tradizione certo prestigiosa, ma alla fine perdente: il dibattito penale che seguirà tenderà infatti a qualificarsi sempre più come contestazione della distinzione tra pena in astratto e pena in concreto (v. Listz, 1905).
La rottura del limite retributivo nella commisurazione della pena in concreto segna la seconda fase della concezione moderna della pena.È dato ora assistere sulla scena più ridotta della commisurazione della pena in concreto a quanto si era già osservato in tema di giustificazione della pena in astratto, cioè alla caduta di ogni criterio oggettivo. Con l'infrangersi anche di quest'ultima barriera, lo Stato è libero di punire per scopi non più sindacabili, e non soffre di alcun limite predeterminato nella punizione in concreto.
Per comprendere questo passaggio nodale è necessario tener presente che la riflessione penologica è stata compiuta, già dalla metà del secolo passato, con riferimento quasi assoluto alla modalità punitiva che si era venuta imponendo come dominante, se non esclusiva: la pena carceraria.
Questa particolare modalità di infliggere i castighi legali si era progressivamente imposta nei sistemi di giustizia penale come esito finale di un processo storico di lungo periodo, che aveva visto la diffusione di pratiche di sequestro in istituzioni segreganti delle diverse figure sociali del disagio: folli, mendicanti, infermi e infine anche criminali. Se pertanto l'invenzione' del carcere non è da attribuire in termini di dipendenza causale al pensiero giuridico, ma la sua origine risiede nelle nuove esigenze di disciplinare e controllare le marginalità sociali, la modalità particolare di questa penalità consente che la sua esecuzione sia volta a scopi di utilità. Nel tempo di libertà coattivamente sottratto al condannato e gestito in cattività si può sperimentare un progetto pedagogico: trasformare attraverso la disciplina il criminale in un onesto e laborioso cittadino (v. Costa, 1974). Nella fase di esecuzione della pena - il cui contenuto nella pena privativa della libertà è il trattamento carcerario - il reo è pertanto oggetto di un utile investimento pedagogico.
La pena privativa della libertà finisce per determinare storicamente l'ibridazione tra due elementi distinti: essa consente, nella sua commisurazione al caso concreto, di esaltare il criterio della pena-contratto, in quanto più di ogni altra favorisce il realizzarsi del principio di uguaglianza (la libertà è un bene di tutti e per tutti di uguale valore); nel contempo, nella sua fase esecutiva, è la condizione essenziale che consente al sistema di rivolgersi a scopi pedagogici, di essere cioè un sistema di pene utili. Insomma: una pena giusta con contenuti di utilità. La compresenza di elementi così contrastanti ci permette di comprendere perché il limite contrattuale nella determinazione della pena, secondo il criterio della retribuzione legale, appaia presto come insensato: se la pena ha già raggiunto nella sua fase esecutiva il fine pedagogico della correzione, che senso ha protrarla fino al limite imposto dalla retribuzione? se invece il tempo della pena meritata secondo il criterio retributivo non è risultato nella sua fase esecutiva sufficiente alla correzione, perché mai sospendere la pena?
Dal momento in cui la società avverte la mancanza di senso del limite retributivo, gli esiti sono presto segnati: la progressiva crisi del limite contrattuale della pena consente alle necessità disciplinari di imporsi al punto di fare dello scopo di prevenzione speciale il fine ultimo della pena.In questa progressiva affermazione delle ragioni special-preventive - sia nella fase esecutiva che, di conseguenza, nella stessa commisurazione della pena in concreto - un ruolo fondamentale fu certo giocato dal pensiero positivista che, per quanto concerne le scienze criminologiche, fino agli anni trenta di questo secolo fu di stretta formazione medico-psichiatrica. Si può così osservare come le stesse prassi del trattamento vengano direttamente mutuate da quelle medico-psichiatriche: osservazione, diagnosi e cura. La pena in concreto sfugge sempre più a ogni riferimento alla volontà colpevole, per fondarsi invece su valutazioni della pericolosità che intendono pronosticare la condotta futura del condannato.
L'egemonia culturale della prevenzione speciale accompagna l'affermarsi del modello correzionale di giustizia penale (v. Fogel, 1975). Con esso si intende il sistema delle pene legali finalisticamente orientato alla rieducazione, nelle forme in cui si viene storicamente imponendo nelle democrazie occidentali di sviluppato Welfare. Lo scopo special-preventivo nel modello correzionale favorisce l'espandersi di nuove modalità punitive, in tutto o in parte alternative alla pena privativa della libertà (misure alternative e pene sostitutive): la sofferta constatazione del fallimento del trattamento in carcere nel perseguimento dello scopo correzionale suggerisce la sperimentazione di modalità di trattamento al di fuori del carcere (v. Davis, 1973; v. Padovani, 1981). La pena carceraria perde progressivamente la propria centralità, per trasformarsi, nelle nuove politiche del controllo sociale di tipo penale, nel segmento di un continuum disciplinare. Le pene sostitutive e le misure alternative alla pena privativa della libertà, se da un lato segnano la crisi irreversibile del carcere, dall'altro esaltano la fede correzionalistica della risposta punitiva al delitto. L'imporsi del modello correzionale della giustizia penale rappresenta l'esito estremo, ma coerente, della ricerca di un fondamento utilitaristico alla pena moderna.
Questo modello si svilupperà storicamente col prevalere di una ragione utilitaristica nelle politiche di controllo sociale e rappresenta uno dei punti più avanzati del processo di laicizzazione del diritto penale, che si trasforma con esso in uno strumento di disciplina sociale. Esiste pertanto un nesso strutturale che lega sistemi di Welfare e modello correzionale della giustizia penale; ne consegue che, con la crisi di quei sistemi, anche il modello correzionale e le finalità special-preventive finiranno per soffrirne irrimediabilmente (v. Scull, 1977).
La pena moderna, come pena utile, si giustifica in quanto persegue finalità di prevenzione. In ragione dei suoi destinatari essa può essere di 'prevenzione generale', se si rivolge alla generalità dei consociati, o di 'prevenzione speciale', se si indirizza al solo trasgressore. In ambedue i casi il fine ultimo è pur sempre la 'difesa sociale' dal delitto, solo che nell'ipotesi della prevenzione generale si persegue il fine di trattenere la collettività dal delinquere, mentre nella prevenzione speciale si vuole che chi ha trasgredito la legge non recidivi.L'approccio sociologico al sistema delle pene legali prende come oggetto della propria critica queste finalità preventive, cui contrappone le funzioni materiali e latenti effettivamente realizzate dal sistema delle pene. La sociologia penale ruota prevalentemente intorno a questo decisivo problema: se e in che misura le finalità preventive delle pene siano confermate dalle loro funzioni, ovvero contraddette. C'è o non c'è congruenza tra 'dover essere' ed 'essere' delle pene?
Le risposte offerte dall'analisi sociologica sono diverse a seconda di come si intendono le finalità manifeste della prevenzione.
1. Se la finalità è la dissuasione attraverso la deterrenza. - Alla radice della fiducia nelle capacità dissuasive della pena c'è una lettura economicistica dell'agire umano: il costo della scelta illegale elevato mediante il prezzo negativo della pena dovrebbe convincere un idealtipo di homo penalis - per nulla dissimile dall'analoga finzione dell'homo economicus, attento calcolatore dei vantaggi e degli svantaggi del proprio agire - della convenienza della scelta legale (v. Becker, 1968; v. Rottenberg, 1973). L'esito obbligato di questa semplificazione della psicologia umana è un terrorismo sanzionatorio (v. Zimring e Hawkins, 1973; v. Gibbs, 1975): pene sempre più severe per elevare i costi della scelta criminale.
Se la finalità del sistema delle pene legali è di 'prevenzione generale negativa' (v. Andenaes, 1974) - cioè si vogliono dissuadere, attraverso la deterrenza dei castighi, i potenziali violatori della legge penale dall'infrangerla - il risultato delle ricerche sociologiche dirette alla verifica empirica degli effetti della pena è che la realizzazione della funzione dissuasiva è in alcune ipotesi indimostrabile, in altre difficilmente dimostrabile (v. Chambliss, 1966; v. Martin e Gray, 1974). Lo studio dei rapporti tra severità delle pene e tassi della criminalità nel suo complesso non è in grado di offrire una verifica empirica convincente di una significativa correlazione tra i due termini (v. Tittle, 1969; v. Beyleveld, 1980).
2. Se la finalità è la reintegrazione sociale del condannato. - Diversamente evocata nel tempo e nelle culture come emenda, correzione, rieducazione, risocializzazione, la finalità 'special-preventiva positiva' (v. Eriksson, 1976; v. Rose, 1961) nasce da questa ipotesi: chi delinque appartiene a una minoranza fortemente segnata da attributi di negatività sociale. Deficit economici, culturali, intellettivi definiscono i criminali come appartenenti a una classe socialmente svantaggiata. La suggestione positivistica di un homo criminalis determinato all'agire, unitamente all'ottimismo riformatore convinto che anche il delitto sia una questione sociale risolvibile, dà forza alla progettualità correzionalistica: anche attraverso la pena si deve operare per colmare i deficit al fine di restituire alla società libera un essere determinato alla legalità.
La finalità terapeutica della pena è da sempre oggetto privilegiato di molta critica filosofica, che ha contestato l'inconciliabilità tra necessità di giustizia e volontà di aiuto sociale, cioè tra voler 'fare del bene' e intenzionalmente 'fare del male', tra libertà e coazione alla virtù. La pretesa della prevenzione speciale è stata respinta come inaccettabile perché illiberale nel riproporre la confusione tra etica e diritto (v. Ferrajoli, 1989), ovvero perché impraticabile in una società pluralista e conflittuale (v. American Friends Service Committee, 1971), e inoltre temibile, perché capace di evocare fantasmi orwelliani e da Arancia meccanica (v. Cohen, 1985). Le critiche filosofiche alla finalità special-preventiva positiva sono poi state puntualmente rivolte ai diversi modi in cui si può intendere lo scopo della risocializzazione: sia come ri-educazione alla moralità media, sia come educazione alla legalità, sia ancora come educazione all'autodeterminazione.
Il confronto con la critica sociologica è giunto per ultimo, quando il modello correzionale era già entrato in crisi, seguendo la crisi dei sistemi di Welfare che l'avevano compiutamente realizzato. Alla verifica empirica - in particolare operata in quei paesi che con più decisione avevano investito risorse nei programmi di trattamento - la finalità special-preventiva della reintegrazione sociale del deviante è risultata fallimentare (v. Lipton e altri, 1975; v. Morris, 1974). Non esistono prove che dimostrino una qualche efficacia positiva dei programmi di rieducazione sull'andamento della recidiva.
1. Se la finalità è la neutralizzazione del condannato. - Variante negativa della prevenzione speciale, la 'incapacitazione' o 'neutralizzazione' si propone di sconfiggere la recidiva impedendo materialmente che il condannato commetta nuovi reati. Invece di operare per la reintegrazione sociale del deviante, opera nel senso della sua più accentuata o definitiva esclusione. I mezzi operativi attraverso cui si può perseguire questa finalità sono vari: dall'eliminazione fisica del condannato (non quindi per ragioni di deterrenza, come normalmente è sempre stata intesa la pena di morte) alla segregazione a vita in un carcere di massima sicurezza, dal controllo elettronico a distanza alla castrazione dei rei di reati sessuali, ecc.
La verifica empirica delle funzioni latenti è in grado di confermare solo in parte gli scopi della neutralizzazione (v. Van Dine e altri, 1977). Si può, se si vuole, incapacitare i condannati, ma nei termini imposti da un controllo situazionale limitato nel tempo, cessato il quale i rischi di recidiva non sono più neutralizzabili (v. Blumstein e altri, 1977; v. Greenberg, 1977). Tuttavia la critica alle teorie della neutralizzazione non può consistere unicamente nella contestazione dello scopo dal punto di vista della realtà; questa finalità è soprattutto criticata da un punto di vista etico-politico perché inaccettabile in un sistema penale liberal-democratico.
2. Se la finalità è l'integrazione della società. - Questa teoria - altrimenti conosciuta come 'prevenzione-integrazione' o 'prevenzione generale positiva' (v. Roxin, 1973; v. Jakobs, 1976 e 1983) - utilizza per la giustificazione della pena legale la concezione del diritto come strumento di stabilizzazione del sistema sociale, di orientamento dell'azione e di istituzionalizzazione delle aspettative, secondo le tesi del sociologo del diritto Niklas Luhmann. Al centro dell'attenzione è in particolare il concetto di fiducia istituzionale, intesa come forma di integrazione sociale che, nei sistemi complessi, sostituisce le forme spontanee di affidamento reciproco degli individui, presenti nelle comunità elementari. La cosa fondamentale è che questa funzione di orientamento e stabilizzazione svolta dal sistema giuridico è indipendente dal contenuto specifico delle norme.
Si assiste così a un significativo ribaltamento del centro della soggettività del sistema sociale, che passa dall'individuo al sistema stesso: la teoria sistemica conduce infatti ad attribuire più valore, per la stabilità del sistema sociale, alla produzione del consenso che al principio della valutazione politica degli individui. Ne consegue che la violazione della norma è socialmente disfunzionale non perché vengano lesi determinati interessi da essa protetti, ma perché viene messa in discussione la norma stessa e di conseguenza è minacciata la fiducia dei consociati.
La reazione punitiva alla violazione della norma ha la funzione di ristabilire la fiducia e di prevenire gli effetti negativi per l'integrazione sociale prodotti dalla violazione stessa. Si punisce, quindi, perché attraverso la pena si esercita la funzione primaria di produrre il riconoscimento delle norme e la fedeltà nei confronti del diritto da parte della maggioranza dei consociati. Se il reato è in sé - a prescindere dall'interesse protetto dalla norma violata - una minaccia all'integrità e alla stabilità sociale in quanto espressione simbolica di una mancanza di fedeltà, la pena deve essere un'espressione simbolica contraddittoria rispetto a quella rappresentata dal reato.
La teoria della prevenzione-integrazione del sistema delle pene legali si fonda su una originaria intuizione sociologica: essa, infatti, fa tesoro delle teorie espressive della pena e in ultima istanza della teoria funzionalistica del reato e della pena di Durkheim (v., 1895 e 1901). Ciò che comunque preme sottolineare in questo contesto è che lo scopo della prevenzione generale positiva trova conferma nell'analisi delle funzioni della pena: il sistema delle pene legali effettivamente può produrre stabilizzazione sociale.
La pena utile si è storicamente affermata essenzialmente come prevenzione speciale positiva nei modelli correzionali di giustizia. Nella crisi dei sistemi di Welfare la pena correzionale si mostra progressivamente sempre più inadeguata alla soluzione dei problemi per cui era stata pensata e realizzata: non difende socialmente dal delitto perché non rieduca (v. Strichombe, 1980). Constatato il suo fallimento, il modello correzionale di giustizia viene sottoposto alle critiche degli avversari da diversi punti di vista. In quanto incapace di raggiungere pienamente gli scopi prefissati, il sistema correzionale viene denunciato come eccessivamente costoso; in quanto capace di favorire strategie di controllo sociale sempre più pervasive, viene contestato come politicamente inaccettabile. Lo stesso ottimismo riformatore nei confronti di una soluzione razionale della questione criminale viene liquidato come utopico o mistificatorio, perché occulta intenti di omogeneizzazione sociale. Così, da un lato si denuncia la pietosa bugia di un possibile recupero sociale del criminale, dall'altro si contesta un apparato di controllo che, sotto le parvenze paternalistiche della prevenzione speciale, ha progressivamente compresso gli spazi di libertà e autonomia. Il disincanto nei confronti del mito della risocializzazione si esprime pertanto contraddittoriamente: fa parte del patrimonio culturale della ideologia neoliberista nelle teorizzazioni di un nuovo realismo penologico di destra (v. Hirsch, 1976; v. Van Den Haag, 1975); sorregge, nel contempo, le posizioni del garantismo giuridico penale (v. Clarke, 1982; v. Ferrajoli, 1989).
Nel denunciare l'inconciliabilità tra sviluppo economico e riformismo sociale, il nuovo realismo penologico di destra recide il cordone ombelicale tra difesa sociale dalla criminalità e prevenzione speciale. Esso afferma che l'andamento della criminalità dipende in misura limitata dalla situazione economica: infatti negli anni in cui fu massimo l'impegno sociale nell'aiuto della marginalità le statistiche denunciarono un aumento degli indici di criminalità. Ne consegue che l'aumento della criminalità deve ricondursi fondamentalmente a un declino dell'attività punitiva (v. Fattah, 1978).
A giustificazione della nuova istanza punitiva viene riproposto il vecchio argomento della 'pena giusta' (v. Singer, 1979; v. Dreshowitz, 1976), ma in forma stravolta rispetto all'originario modello della retribuzione: il referente in base al quale determinare la pena meritata è il comune sentire della gente, con riferimento al quale è possibile commisurare la pena in concreto come quella che l'opinione pubblica avverte come giusta. Il riferimento al concetto di meritevolezza non opera più nella prospettiva di porre dei limiti al potere discrezionale nella commisurazione della pena, quanto per agganciare questa all'allarme sociale.La riproposizione delle teorie della meritevolezza della pena come criterio di commisurazione della pena in concreto, per quanto spesso venga giustificata come un ritorno alle concezioni non utilitaristiche del castigo legale e non manchino riferimenti alla stessa teorizzazione hegeliana della retribuzione legale (v. Murphy, 1970 e 1979; v. Cooper, 1971; v. Mathieu, 1978), finisce, nei fatti, per auspicare uno scopo di deterrenza per la pena in concreto, una volta che la necessaria proporzionalità venga riferita alla domanda di sicurezza della società civile, che soffre per il dilagare della criminalità.
La cultura della prevenzione speciale e delle prassi trattamentali aveva storicamente inferto una ferita mortale ai principî classici dell'uguaglianza di fronte alla pena. La pena correzionale è per sua natura una pena sostanzialmente disuguale, perché fondata sulla valutazione delle persone. È una pena disuguale quanto sono disuguali per condizioni economiche, sociali, culturali coloro che sono puniti. Se la pena deve risocializzare, non può che essere individualizzata, quindi disuguale: a fatti di reato uguali per la gravità dell'interesse protetto leso e per il grado della colpa degli autori, possono conseguire anche pene diverse, perché diversa è la prognosi di non recidività. A essere compromesso è il valore stesso della certezza formale del diritto penale.
Le denunzie contro gli abusi perpetrati dal modello correzionale di giustizia nei confronti dei principî formali dell'uguaglianza e della certezza del diritto sono quindi fondate (v. Paternoster e Bynum, 1982; v. Morris e Hawkins, 1969). La critica alla prevenzione speciale da parte della cultura garantista del diritto penale rilegittima quindi il ruolo formale della legge uguale, della certezza del diritto e della centralità dell'azione criminale piuttosto che dell'attore criminale (v. Ferrajoli, 1989). Ma il riferimento costante all'interesse generale, al solo contenuto lesivo delle condotte nei confronti degli interessi protetti, la riproposizione dello schema contrattuale nella commisurazione della pena, il ritorno del formalismo giuridico, tutto questo spesso contribuisce a celare la natura fortemente selettiva, e quindi riproduttrice di disuguaglianze, del sistema della giustizia penale.
Il disincanto di fronte al fallimento della pena utile ha determinato un pessimismo segnato al suo interno da tendenze opposte: l'una, con riferimento alle funzioni materiali, riconosce al sistema delle pene legali un ruolo fondamentale e pertanto insopprimibile nella conservazione della realtà sociale disuguale; l'altra, non riconoscendo funzione alcuna alle pene, chiede l'abolizione del sistema penale. Ambedue le tendenze - per quanto così distanti - condividono il medesimo pessimismo penologico: il sistema delle pene legali è tanto ideologicamente ingiustificabile quanto politicamente irriformabile.
Dalla sociologia radicale del diritto penale (v. Peters, 1973) l'istituzione del sistema delle pene legali in una società disuguale viene considerata, accanto alle altre istituzioni della socializzazione, come l'istanza decisiva nell'assicurazione della realtà sociale.La pena realizza, all'estremo inferiore del continuum, ciò che altre istituzioni realizzano nella zona media e superiore: differenziare lo status dei soggetti. Nella zona più bassa della scala sociale la funzione selezionatrice del sistema si trasforma in funzione emarginatrice. La linea di confine fra gli strati più bassi e le zone di emarginazione segna infatti un punto permanentemente critico nel quale all'azione regolatrice del meccanismo generale del mercato del lavoro si aggiunge in certi casi l'azione dei meccanismi regolatori e sanzionatori del diritto. Ciò si determina nella creazione e gestione di quel particolare settore dell'emarginazione che è la popolazione criminale. Non solo le norme del diritto penale si applicano selettivamente, rispecchiando i rapporti disuguali esistenti, ma il sistema delle pene esercita inoltre una funzione attiva di produzione dei rapporti di disuguaglianza (v. Steinert, 1973).
L'applicazione selettiva delle pene legali, per la loro natura stigmatizzante nel processo di criminalizzazione, è un momento sovrastrutturale essenziale per il mantenimento della configurazione verticale della società: incidendo negativamente soprattutto sullo status sociale degli individui più deboli, la sanzione penale agisce in modo da contrastare la loro ascesa sociale.In secondo luogo - e questa è una delle funzioni simboliche della pena, oggi riscoperta dall'analisi foucaultiana, ma patrimonio da tempo acquisito della criminologia - la punizione di determinati comportamenti illegali serve a coprire un numero più ampio di altri comportamenti illegali che restano pertanto immuni dal processo di criminalizzazione. In tal modo l'applicazione selettiva delle pene ha come risultato collaterale la copertura di un'ampia illegalità impunita.
Questa lettura pessimistica delle pene legali individua nella sanzione penale la punta dell'iceberg dell'intero sistema di controllo sociale, il momento culminante della costruzione sociale di una selezione che incomincia ancor prima dell'intervento penale, con la discriminazione scolastica, con l'intervento delle agenzie di controllo della devianza minorile e dell'assistenza sociale, ecc. Anziché essere la risposta della società onesta a una minoranza criminale, la pena legale è lo strumento essenziale per la creazione di un universo sociale criminale reclutato esclusivamente nelle file della popolazione marginale.
Questo approccio radicale riconferma in negativo la necessità delle pene per la conservazione di rapporti sociali disuguali; il sistema delle pene legali è così strutturalmente essenziale alla conservazione della realtà sociale esistente che solo nella determinazione storica di una società alternativa di uomini uguali sarebbe possibile liberarsene.
La ragione ispiratrice del movimento abolizionista (v. Mathiesen, 1974; v. Christie, 1981; v. Hulsman e Bernat de Celis, 1982; v. Scheerer, 1983; v. Bianchi, 1985) va cercata in un moto irrefrenabile di indignazione morale nei confronti della barbarie del sistema delle pene.
La critica abolizionista al sistema delle pene non sempre è scientificamente coerente, affannata com'è a cogliere ogni argomentazione per delegittimare sia le finalità che le funzioni utilitaristiche della pena; ciononostante essa è spesso assai convincente.
Per quanto concerne la critica alle funzioni ideologiche del sistema penale, le teorie abolizioniste convengono con le posizioni già acquisite dall'analisi sociologica: il sistema penale si è mostrato inadeguato nel perseguimento dei fini utilitaristici che si era prefissato.Il sistema penale non solo va denunciato come fallimentare rispetto ai fini manifesti, ma nelle società avanzate va anche riconosciuto come inutile nelle sue funzioni. Osservare la selettività del sistema della giustizia penale nel reclutamento della sua 'clientela' e notare come essa si rivolga principalmente agli strati sociali più bassi non significa per gli abolizionisti che il sistema delle pene legali sia l'istanza decisiva nella produzione e nel mantenimento della realtà sociale. La selettività del sistema penale ha un indice talmente elevato di arbitrarietà che è più saggio pensare a una sofferenza irrogata insensatamente che a una funzione nascosta di conservazione della realtà sociale.
Gli argomenti portati da molti in favore della ineludibilità delle pene, in quanto sempre e ovunque è dato ravvisare nelle organizzazioni sociali, dalle più semplici alle più complesse, fenomeni di punizione nei confronti di chi viola determinate norme, agli occhi degli abolizionisti si rivelano inconsistenti. Affermare che le società puniscono chi viola determinati precetti sociali non è antropologicamente e storicamente rispondente al vero, nel senso che lo è solo nella maggioranza dei casi. Comunque è cosa assai diversa riconoscere la presenza di istanze punitive nelle società e affermare che ogni consorzio sociale ha conosciuto un sistema di pene irrogate da organi burocratici attraverso procedure formalizzate.
In particolare, il sistema penale nella sua complessità - come oggi lo conosciamo - non rappresenta la forma più avanzata e sviluppata di originari e primitivi sistemi di penalità: il nostro sistema penale, infatti, è assolutamente altro, qualche cosa che trova la sua genesi e la sua ragione nella formazione dello Stato moderno. Esso è, in primo luogo, un apparato burocratico e formalizzato attraverso il quale determinate situazioni problematiche prodotte dall'azione di alcuni attori sociali vengono forzatamente espropriate a coloro che sono direttamente coinvolti; questo processo di espropriazione si realizza attraverso procedure formali messe in opera da organi burocratici e destinate a dare risposte assolutamente insoddisfacenti per i bisogni della difesa sociale.
Neppure le funzioni simboliche delle pene possono essere correttamente addotte a giustificazione dei sistemi penali moderni. Al contrario, la dimensione simbolica della pena era evidente nei sistemi sociali premoderni (v. Pugh, 1970), in cui la reazione punitiva era ancora direttamente messa in atto dai soggetti coinvolti nella situazione problematica apertasi o svelatasi con l'azione delittuosa. La riaffermazione dell'essenzialità del valore leso con l'atto criminoso, la coesione della comunità onesta nei confronti del deviante messa in luce dalle teorie antropologiche del 'capro espiatorio' (v. Reiwalt, 1948) e della 'società punitiva' (v. Alexander e Staub, 1929), la reintegrazione sociale attraverso la produzione del sentimento della 'vergogna' (v. Braithwaite, 1989) colgono appunto effetti possibili e anche auspicabili di un sistema delle pene non ancora definitivamente burocratizzato; certo ciò non può darsi oggi, quando la funzione punitiva è stata definitivamente espropriata alla società civile per far parte monopolisticamente delle funzioni di agenzie statuali.
Contestato anche questo argomento giustificativo, agli abolizionisti non resta che negare l'ineludibilità delle pene come strumento di controllo sociale. Da questo punto di vista il sistema delle pene si palesa agli abolizionisti come uno strumento assolutamente inadeguato o addirittura avverso al raggiungimento di una finalità di disciplina sociale. Infatti il sistema penale non può perseguire finalità di controllo sociale non solo perché incapace di dare una risoluzione soddisfacente ai problemi, ma anche perché portato a creare nuovi problemi o a esasperare quelli che vorrebbe risolvere. La pena non può essere un mezzo per risolvere problemi sociali, perché essa stessa è un problema sociale. Possiamo quindi liberarci dalla necessità delle pene, semplicemente perché esse non sono affatto necessarie.
Il discorso abolizionista offre però il fianco ad alcune critiche di fondo.
La prima è che la contestazione delle funzioni materiali del sistema legale è di natura ideologica e ci costringe a immaginare cosa potrebbe succedere di significativo nelle nostre società una volta che ci fossimo liberati dal sistema delle pene legali; dobbiamo cioè correre il rischio proprio delle teorie utopiche in cui l'istanza fideistica ha il sopravvento sull'argomentazione razionale.
La seconda osservazione è invece di natura politica. Se la critica mossa al processo di burocratizzazione del sistema penale moderno riguarda l'espropriazione operata dallo Stato, nei confronti della società civile, dell'originario potere di trovare una soluzione ai problemi, dobbiamo ricordare che questo processo di avocazione fu perseguito in quanto condizione necessaria alla tutela delle libertà individuali dal rischio di sopraffazione da parte degli attori sociali più forti. Il monopolio punitivo da parte dello Stato fu legittimato come necessario rimedio alle faide e alle vendette dei soggetti socialmente, economicamente e politicamente più avvantaggiati.Infine, la critica abolizionista al processo di formalizzazione del diritto penale moderno nega apoditticamente che i principî della terzietà del giudice, della riserva di legge, della tassatività dei reati e delle pene, della proporzionalità tra reato e pena possano avere la funzione di limitare il potere punitivo. La questione che non viene risolta però è se non convenga operare perché il diritto penale si adegui a questi criteri di autolimitazione, piuttosto che correre il rischio, sopprimendo il diritto penale, di dover confidare solo in un sistema di controllo sociale di fatto.
Spesso il lessico tecnico di chi ha responsabilità nell'amministrazione dei castighi legali rispecchia rilevanti mutamenti nelle prassi: oggi non si parla più di soggetti bisognosi di trattamento e di aiuto, ma piuttosto della giustizia penale come sistema che persegue obiettivi di efficienza quali, ad esempio, differenziare la risposta per livelli di pericolosità e implementare strategie di controllo sui gruppi sociali.La retorica del trattamento viene progressivamente rimpiazzata da quella del calcolo probabilistico e della distribuzione statistica utilizzati nell'analisi delle popolazioni che creano problemi sociali (v. Simon, 1987).
Non molto diversamente da quanto accade per le tecniche assicurative, il linguaggio dell'utilità sociale e del governo dei rischi sociali prende progressivamente il posto di quello della responsabilità individuale e della prevenzione speciale nelle politiche di controllo sociale. Il linguaggio della penologia tecnocratica è pertanto caratterizzato dal risalto dato alla razionalità sistemica e formale.Il governo amministrativo del controllo penale tende pertanto a costruirsi intorno a obiettivi sistemici che divergono radicalmente dall'uso politico-simbolico della penalità: infatti mentre quest'ultimo risponde socialmente al sentimento diffuso di insicurezza, al bisogno di giustizia all'interno di una costruzione sociale ove sono fondanti i valori del castigo e della censura (v. Sumner, 1990), la gestione amministrativa della penalità risponde oramai solo a una sua logica interna, svincolata da finalità extrasistemiche, ove sempre più perde di significato il punire stesso.
Da questa 'immagine' del presente è possibile tracciare una 'visione' del controllo sociale della criminalità nel prossimo futuro, nel quale la gestione amministrativa delle pene non sarà più lo strumento coerente del mandato sociale di punire, perché ormai al di fuori della cultura della pena.
Ancora di più: l'amministrazione delle pene ribalterà i paradigmi stessi dell'uso politico-simbolico della sofferenza legale. Mentre la versione simbolica del sistema della giustizia penale utilizza un vocabolario in cui i termini più ricorrenti sono imputazione, responsabilità personale, meritevolezza del castigo, esemplarità della pena, ecc. - insomma le molte espressioni che definiscono la riduzione individuale della dimensione sociale dei problemi - la gestione amministrativa delle pene già comincia ormai a parlare un'altra lingua, proponendosi non di punire gli individui, ma di gestire gruppi sociali in ragione del rischio criminale; non più la lingua correzionalistica, ma quella burocratica del modo di ottimizzare le risorse scarse, in cui l'efficacia dell'azione punitiva non è più in ragione degli scopi esterni al sistema (educare, intimidire) ma in ragione di esigenze intrasistemiche (ridurre i rischi).
Se nella sua versione politico-simbolica il sistema delle pene si propone come strumento di lotta al crimine per la sua eliminazione (e il linguaggio è sempre quello della guerra), in quella amministrativa si accontenta di governarlo e di renderlo compatibile con le condizioni sistemiche date.
Tutto l'arsenale correzionalistico subisce un radicale ribaltamento di funzione e di senso: il trattamento e la terapia, come l'aiuto, perdono ogni riferibilità al fine special-preventivo, e diventano risorse utili per garantire il governo della questione criminale ai livelli di compatibilità del sistema della giustizia penale: risorse utili per differenziare le popolazioni devianti in ragione del rischio criminale, per articolare lo spettro della custodia, per economizzare risorse (v. Feeley e Simon, 1982).
Un tempo, sotto l'egemonia del modello correzionale, la recidiva segnava l'insuccesso dell'investimento educativo in carcere. Nella stagione delle misure alternative la revoca delle stesse definiva come illusoria la speranza della reintegrazione sociale. Oggi, al di fuori di ogni filosofia special-preventiva, i parametri che segnavano l'insuccesso vengono invece interpretati come utili indicatori dell'efficienza del sistema penale nel suo complesso. Gli indici di recidività mostrano sia che il sistema penale ha fin dall'inizio selezionato efficacemente la propria clientela, sia che, sulla base dell'interpretazione per gruppi sociali dell'esposizione alla ricaduta nel delitto, è possibile definire predittivamente le categorie a rischio e di conseguenza diversificare la risposta punitiva.Lo stesso dicasi per le revoche delle misure alternative: la loro distribuzione differenziata per diversi gruppi sociali diventa un criterio decisivo di correzione delle politiche penitenziarie e giudiziarie, nel senso che suggerisce alle amministrazioni i 'nuovi' criteri statistici su cui vincolare la discrezionalità.
Una discrezionalità, quindi, che non si fonda più sull'osservazione scientifica della personalità, ma lega sempre più la propria decisione a un calcolo statistico dei rischi per popolazioni criminali e gruppi sociali devianti, piuttosto che affidarsi alla sorte 'scommettendo sull'uomo'.
Lo stesso processo di differenziazione del trattamento nel carcere non risponde più al bisogno di individualizzare l'esecuzione per finalità special-preventive, ma si piega sempre più alla necessità di usare anche il carcere come variabile dipendente in ragione di una diversa distribuzione del rischio. Così lo strumento del carcere di massima sicurezza non è più legato a una logica di incapacitazione dell'individuo, per cui esso è l'estrema risposta per i colpevoli di reati particolarmente gravi o per i detenuti 'soggettivamente' pericolosi, ma diventa un contenitore per tutti coloro che, in una logica di incapacitazione selettiva, risultano appartenenti a gruppi sociali a elevato rischio criminale.Il sistema del controllo sociale di tipo penale mantiene pertanto un ampio ventaglio di modalità esecutive; solo che questo continuum - un tempo di tipo correzionale, in quanto ritenuto in grado di rispondere meglio ai diversi bisogni riabilitativi del condannato - oggi diventa sempre più di tipo custodiale, per meglio rispondere alle necessità di controllo sociale in ragione della variabile del rischio.
Questo approccio sistemico al governo dei criminali riflette una nuova concezione del crimine stesso e del ruolo del sistema penale. La questione in gioco non è più quella - pretenziosa quanto ingenua - di sconfiggere il crimine, ma semplicemente di razionalizzare l'operatività dei sistemi che consentono di 'gestire' la criminalità.
Alle soglie del nuovo millennio l'avventura della pena moderna - cioè della pena legale che si giustifica solo per ragioni di utilità sociale - si può dire definitivamente conclusa. Di una cosa siamo ormai certi: la pena legale non è stata, non è, né potrà mai essere utile. Di essa, possiamo dire a posteriori che, pur consapevoli che si tratta di un veleno, ci siamo illusi che fosse anche un farmacum (v. Resta, 1992), un rimedio estremo in grado di guarire. Oggi sappiamo che è solo un male, che oltre a uccidere il corpo sofferente del condannato, non è in grado di arrestare l'epidemia criminale.
Che si debba cercare qualche cosa di meglio delle pene legali, piuttosto che renderle migliori è una buona raccomandazione da tempo espressa, ma inascoltata. Tuttavia non c'è dubbio che questa sia la grande sfida che ci attende, anche se si deve essere coscienti della sua estrema difficoltà, dato che le tendenze attuali delle politiche criminali sono per un ulteriore ricorso alla risorsa penale.Per il resto, fino a che non saremo capaci di liberarci dalla necessità di punire, conviene agire, in una strategia riduzionista - cioè attraverso l'operatività dei criteri garantistici intrasistemici ed extrasistemici del minimo intervento penale (v. Baratta, 1985) -, per limitare il danno delle sofferenze legali.
(V. anche Controllo sociale; Criminologia; Devianza).
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