Pena
In senso generale, il termine pena può indicare patimento, afflizione, dolore, dispiacere, anche quando non siano o non appaiano punizione di una colpa. Con riferimento alla giustizia umana pena è invece la sanzione afflittiva comminata dall'autorità giudiziaria a chi abbia commesso un reato. Negli ordinamenti giuridici moderni la pena è strettamente personale; può essere inflitta solo se prevista da una legge anteriore al momento in cui è stato commesso il fatto e deve essere finalizzata alla rieducazione del condannato.
Nelle società evolute e politicamente organizzate "la ragione elaboratrice di norme, oltre ad imporre divieti e comandi, precostituisce anche un congegno per retribuire le trasgressioni" (Cordero 1967, p. 61): ogni violazione a condotte prescritte deve ricevere una risposta idonea a reprimere i comportamenti vietati. Tale risposta può essere individuata nella pena, ossia in un meccanismo repressivo personale. L'origine etimologica del sostantivo pena può essere individuata nel termine greco ποινή, da cui deriva il vocabolo latino poena, che, tuttavia, come espressione di un concetto per così dire definito, entrò nel lessico giuridico solamente in un periodo già avanzato dell'evoluzione del diritto romano, laddove nelle fonti del periodo più antico compaiono espressioni quali coercere, animadvertere in, multare che, in mancanza di una concettualizzazione ed elaborazione della materia, esprimono esclusivamente l'attività materiale del 'colpire'. Nell'antichità, le accezioni del termine si moltiplicano ed è interessante notare come ruotino intorno a tre differenti aspetti tutti ugualmente sanzionatori, legati tra loro da osmosi concettuale: al sostantivo pena, inteso nelle lingue neolatine come punizione, afflizione, si affianca infatti la forma linguistica maturata presso le popolazioni slave e baltiche, cena o kaina, cui può essere ricondotta l'idea del prezzo, mentre, nella terminologia anglosassone, penal e penalty tradiscono affinità etimologiche con pain, "dolore".
Nella loro pluralità e diversità tutti questi significati colgono degli aspetti che, in periodi storici differenti e all'interno di diversi sistemi, si sono tra loro intersecati e talvolta sovrapposti. Il concetto di pena non presenta, e non ha mai presentato, infatti, un unico significato, ma un'intera sintesi di significati, in cui i vari aspetti si sono sempre combinati tra loro con la prevalenza ora dell'uno ora dell'altro: alla medesima procedura infatti corrispondono utilizzazioni, interpretazioni e propositi radicalmente diversi tra loro, non suscettibili di reductio ad unum. Tale fluidità di significati, resa evidente dalle stesse differenze etimologiche, che, se possono dar conto dell'origine del concetto di pena, non ne mettono in risalto lo scopo (problemi, questi, tra loro dissociati), non impedisce di evidenziare come ognuno di essi ruoti intorno a un'idea di repressione fisico-personale oppure patrimoniale del soggetto che compie una determinata azione. È questo concetto che conduce alla comprensione dei retroscena psicologici, comuni, e uniformi, in questo caso, a qualsiasi tipo di repressione penale: l'uomo infatti, innanzi al compito di darsi una memoria, intesa come ricordo e propensione ad adempiere determinate condotte, ricorre al dolore, definito da F. Nietzsche (Genealogia della morale, 1887) il "coadiuvante più potente della mnemonica".
La pena diviene in tal modo la prova tangibile dell'adempimento di una promessa. La punizione, o meglio il supplizio pubblico, che nelle sue manifestazioni barocche raggiunge uno splendore senza precedenti, deve provocare negli spettatori aborrimento per l'atto vietato, con l'inevitabile effetto inibitorio nei confronti dell'atto stesso; equazione, questa, però da utilizzare con estrema cautela, poiché, oltre determinate soglie, si ingenerano effetti opposti: l'abitudine a esecuzioni cruente e crudeli conduce a tentazioni delittuose (Cordero 1986). Si impone così all'uomo, sensibile al dolore, al timore di essere punito e all'esecrazione del gruppo per il compimento dell'atto vietato, qualcosa che possa orientare i suoi comportamenti in una direzione, voluta dalla collettività e, nella maggior parte dei casi, opposta a quella dei suoi istinti, nei confronti dei quali la legge esercita un effetto repressivo (Cordero 1967). È stato infatti acutamente osservato, in sede antropologica, come gli illeciti legali "siano atti per i quali si ha per lo più una propensione naturale" (Frazer 1910, p. 97). Nel momento in cui emerge nell'uomo questo atteggiamento auto- e/o eterorepressivo, comincia il fenomeno normativo (Cordero 1967).
Nelle esperienze dei popoli antichi il fenomeno normativo è strettamente legato al pensiero religioso, che possiede una capacità assorbente nella comprensione e spiegazione dell'intera realtà. Il mondo infatti ruota intorno al rapporto con gli dei, capaci di influire sui destini umani e di dare risposte, benevole o colleriche, a ogni atto posto in essere dall'uomo. Le forme di repressione penale delle società primitive non possono infatti essere comprese se non si tiene conto dello strettissimo legame che, in tali culture, lega diritto e religione. Il sistema delle interdizioni rituali forma infatti "il fondo della vita morale e giuridica delle società più semplici" (Mauss 1998, p. 183): alcune cose sono interdette (tabu), chi le compie deve essere incriminato e punito con meccanismi in qualche modo simili alla pena pubblica attuale, anche se non si è ancora in presenza di un organo particolare che amministri la giustizia, bensì di una repressione diffusa (Durkheim 1893), compiuta da chiunque, sul campo e senza procedura; in tali contesti la repressione penale, fondamentalmente istintiva, è religiosa nelle motivazioni e religiosa nella forma.
Legato a tali motivazioni è anche il carattere individuale della repressione, poiché, tranne situazioni rare, "sono gli individui a infrangere le leggi religiose" (Mauss 1998, p. 183); a nulla rilevando che, proprio all'interno delle società primitive, la reazione, talvolta, si scaglia contro l'intera famiglia del colpevole o su tutti gli oggetti che gli appartengono, ma tali situazioni trovano una spiegazione in uno dei caratteri essenziali del tabu, ovverosia nel suo essere contagioso: tutto ciò che è entrato in contatto con il violatore del tabu è stato contaminato e deve conseguentemente seguire la sua stessa sorte. Appaiono allora comprensibili, come evidenziato in sede antropologica, la procedura dell'interdetto israelita e assiro, oppure alcune forme di pena capitale, come la poena cullei comminata a Roma per i rei di parricidio e di cui si hanno tracce sino al 17° secolo, o l'istituto romano della consecratio, laddove colui che viene colpito da tale atto può essere ucciso impunemente da chiunque, poiché chi omettesse di farlo incapperebbe nella collera divina. La reazione del gruppo, che assume quasi sempre la forma della pena capitale, scaturisce dal fatto che colui che viola un tabu mette in pericolo l'esistenza stessa del clan a cui appartiene, colpendolo nei suoi sentimenti religiosi e, poiché tali sentimenti formano il principio stesso della sua esistenza morale, la loro integrità esige un sistema di penalità che la difenda (Mauss 1998).
Tale sistema colpisce l'individuo per aver compiuto quell'atto contro cui la società reagisce, al di là, per dirla in termini moderni, dell'elemento psicologico che lo sorregge: l'intenzione, nel diritto primitivo, non è affatto richiesta per fare di un atto una colpa o un crimine. In tali contesti, si punisce un individuo non quale responsabile di una condotta posta in essere, e quindi al di là del presupposto che si debba punire unicamente il colpevole, ma per ira di un danno sofferto; appartengono infatti a un periodo già avanzato dello sviluppo del pensiero umano quelle distinzioni fra intenzionale, casuale e responsabile e dei loro opposti e una loro valutazione nell'attribuzione della pena. La distinzione, contenuta all'interno del Codice di Hammurabi (1792-50 a.C.), fra la figura dolosa e quella colposa dell'omicidio costituisce un esempio raffinato ed evoluto di differente valutazione di condotte che producono il medesimo evento; ciò evidenzia come vada imponendosi l'esigenza di rispettare un ordine di valori prevalente su una visione meramente fisica dell'azione (Cordero 1967). Questa visione del mondo comporta inevitabilmente il sorgere di competenze sacerdotali: dagli stregoni delle tribù primitive ai pontefici romani, protogiuristi, ai rabbini e agli auguri; 'soggetti' capaci di comprendere e interpretare i segni che gli dei mandano agli uomini e di trovare risposte idonee a tenere in equilibrio l'instabile rapporto con gli dei. È in tale composita realtà che emerge lo ius criminale.
Gli atti che, turbando e alterando l'ordine cosmico, cadono sotto segni negativi necessitano di un intervento riparatore, sui cui tempi e modalità attuative sono chiamate a esprimersi persone con cognizioni magiche e religiose: dai loro responsa nasce una vera e propria giurisprudenza, sia pure intermittente, in quanto strettamente legata alla soluzione del singolo caso. L'oracolo delfico comanda a chi gli si rivolge ciò che deve essere fatto per annientare il male commesso: Oreste riceve dall'oracolo delfico il compito di uccidere la madre al fine di vendicare la morte del padre, e nel tempio di Delfi si riparerà per sfuggire alla persecuzione delle Erinni. Allo stesso modo la scienza rabbinica interloquisce su tutte le violazioni alle prescrizioni contenute nella Torah, imponendo al singolo gli adeguati riti espiatori.
È interessante a questo punto analizzare le forme in cui si è manifestata la repressione penale nell'antichità classica, con particolare riferimento all'esperienza giuridica romana. Si può da subito evidenziare come molti degli elementi e degli aspetti che abbiamo visto caratterizzare la pena presso i popoli primitivi rimarranno presenti, quanto meno nel loro primo sviluppo, anche presso le società 'cittadine', le quali, ponendosi come garanti della convivenza civile, andranno via via avocandosi il diritto di stabilire quali comportamenti punire e in quale modo. A Roma, analogamente a quanto accadde in Grecia, con la nascita di una comunità politica organizzata, che si sovrappose ai preesistenti gruppi minori, si assiste al graduale e lento inserimento della persecuzione statale nel primitivo regime della vendetta privata, che era stato uno dei principali modi di risoluzione dei conflitti tra i gruppi familiari. La linea di demarcazione che si può in questo modo tracciare tra il periodo precivico e quello successivo non impedisce però di evidenziare una continuità nelle forme del punire.
Molte delle pene applicate in età cittadina non di rado sono il prolungamento delle diverse pratiche di morte nate in ambiente precivico (si pensi per es. alla precipitazione dalla Rupe Tarpea a Roma e nel Barathron ad Atene) e, talvolta, snaturate rispetto alla loro originaria funzione. Nel momento in cui nasce, la civitas si trova infatti a dover fare i conti con diverse pratiche di morte che sino ad allora avevano trovato applicazione e che pertanto non potevano essere ignorate. Pene che, nella maggior parte dei casi, erano espressione di un potere consolidato, come quello dei capi dei gruppi familiari, "la cui organizzazione continuava a restare uno dei fondamenti dell'ordinata vita sociale", e con il quale la nuova organizzazione politica doveva irrimediabilmente confrontarsi (Cantarella 1996, p. 121 e segg.).
Una continuità nella repressione penale è riscontrabile non solo nelle forme e nei rituali del punire, ma anche nei contenuti stessi della pena, che seguita a essere fortemente caratterizzata da elementi magico-religiosi. La nascita delle comunità organizzate non comporta infatti un'immediata laicizzazione del diritto penale, che continua al contrario a essere legato a presupposti e principi religiosi. Le fonti più antiche del diritto criminale romano, le cosiddette leges regiae, mostrano infatti ancora un sistema punitivo fondato sull'espiazione sacrale. Leggi, queste, il cui carattere normativo non può essere disconosciuto dalla circostanza che le stesse abbiano un contenuto essenzialmente religioso, trattandosi di precetti emanati da un re che cumula in sé le funzioni di sommo sacerdote e di capo politico e che, in quanto tale, si pone quale custode e garante della pax deorum, da cui deriva l'esistenza stessa della comunità (Santalucia 1982). La persecuzione statale prende così il posto dell'antica persecuzione familiare e di gruppo, sia pure non superandola ancora del tutto; basti pensare che lo ius vitae ac necis del pater familias nei confronti dei propri figli sarà abolito solo da Costantino, mentre soltanto nel 5° secolo verrà soppresso lo ius occidendi del dominus nei confronti dei propri schiavi. Spetta in tal modo alla comunità cittadina intervenire nei confronti di colui che, esponendo l'intero gruppo alla collera divina, si è reso artefice di uno scelus inexpiabile non compensabile con gesti espiatori (piacula), consistenti nel sacrificio di un animale o nella devoluzione di una somma di denaro al culto della divinità offesa.
Queste colpe infatti non ammettono espiazione, l'autore ne risponde con la sua persona e, eventualmente, con tutti i suoi beni (confisca). L'atto catartico diviene pena sacrale (supplicium), attuabile in due modi a seconda della colpa: in alcune ipotesi (il ladro notturno di messi) il colpevole è 'immolato' (dall'antico uso di versare farina, mola, lavorata dalle Vestali, sulla vittima sacrificale) alla divinità (Deo necari: nel caso delle messi è suspensus cereri, su di una forca); in altre ipotesi (per es., le violenze del figlio verso i genitori o la violazione della fede del patrono nei confronti del cliente o viceversa) è colpito da 'sacertà' (consecratio capitis et bonorum), secondo alcuni la prima pena prevista dal diritto criminale romano, e offerto al dio, alla cui vendetta è abbandonato, con conseguente esposizione alla soppressione: chiunque lo uccida infatti non commette omicidio. Ma, ove non siano colpiti interessi che riguardano l'intera comunità, permane inalterata una giustizia legata alla reazione del singolo o del gruppo gentilizio cui questo appartiene (si pensi al furto e alle lesioni corporali); anche se in tale periodo non è possibile ancora operare una netta distinzione tra pena pubblica e privata, laddove l'originaria concezione romana dell'illecito (anche quello privato) è indiscriminatamente penale (Albanese 1970), di tal che la distinzione tra le varie forme di illeciti e di pena non può fondarsi sulla qualità di reazione dell'ordinamento, originariamente tutta di contenuto afflittivo e identificabile, quanto meno nella fase più arcaica, con la pena capitale. La legislazione decemvirale segna in qualche modo una svolta e un progresso nell'evoluzione dell'illecito e della pena, con la formazione di un sistema che si manterrà intatto sino al 2° secolo a.C. Sarà infatti questo il primo tentativo normativo, con la creazione di nuove figure delittuose, di estensione della repressione pubblica e di superamento del regime della vendetta privata, a quell'epoca già in qualche modo superato dalle composizioni volontarie, a cui si unisce adesso quello delle composizioni legali.
È proprio a partire dalle XII tavole che andrà delineandosi quella fondamentale distinzione del diritto penale romano dell'età classica, tra delitti pubblici (crimina) perseguiti da organi pubblici con pena pubblica, corporale o pecuniaria (sempre fissa), e delitti privati (delicta o maleficia), perseguiti dalla persona offesa in un giudizio privato sanzionato da una pena privata, sempre pecuniaria, dovuta alla parte lesa (Santalucia 1989). La pena sia pur emersa da rituali catartici, e intesa come strumento di espiazione religiosa, va via via assumendo, nel corso dell'età repubblicana, figure laiche, anche se alcune di esse portano ancora evidenti i segni della loro origine. Emblematico il supplizio inflitto ai parricidi: cucito in una pelle bovina fresca, ermeticamente chiusa, in compagnia di un cane, un gallo, una scimmia e un serpente, il condannato in mare praecipitatus est. Ovvia la sorte, il cui senso, ove evidente è il contrappasso, viene chiarito da Cicerone in una delle orazioni giovanili (Pro Sex. Roscio Amerino): colui che ha ucciso chi l'ha generato deve essere separato dagli 'elementi che costituiscono l'origine di tutte le cose' (cielo, sole, acqua e terra) affinché con il suo corpo non li contamini. Il superamento di una rigida concezione religiosa della pena può dirsi concluso nella tarda età repubblicana; la pena prevista per i crimina publica è di regola la morte (mediante decapitazione con la scure, fustigazione sino alla morte, vivicombustione, praecipitatio e saxo), sia pure applicata assai raramente. Era invalsa infatti la consuetudine di consentire al condannato, prima della pronuncia definitiva della sentenza, di pagare una somma di denaro oppure di recarsi in esilio, cui seguiva l'aquae et ignis interdictio, che comportava la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni, consuetudine, questa, che sarà ben presto recepita in disposizioni di legge, la prima delle quali è la Lex Tullia de ambitu (63 a.C.), ove tale misura verrà comminata come pena autonoma, poena capitalis. La carcerazione avrà sempre per il sistema romano più che carattere di pena quello di misura preventiva. Ulpiano sottolinea infatti che "il carcere è destinato a custodire gli uomini, non a punirli". L'instaurarsi del principato di Augusto, con il mutamento del sistema processuale, porta a un diverso sistema di pene, non più fisse, ma articolate in un sistema graduato, di contenuto di gran lunga più afflittivo di quello tardo repubblicano.
La pena di morte, caduta in disuso nel 1° secolo a.C., trova nuovo slancio ed è applicata anche a nuove fattispecie delittuose (le fonti parlano ora di poena capitis, ove immediato è il riferimento alla capitis amputatio, quale forma ordinaria di esecuzione della pena di morte). Accanto ai summa supplicia (per es., la crocifissione, l'esposizione alle belve e la vivicombustione), intesi quali pene a sé stanti e non come forme alternative di esecuzione della pena di morte (distinzione questa che cadrà solo in epoca postclassica), le fonti menzionano altre pene che, sia pure non direttamente produttive di morte, sono a esse equiparate (dai vari tipi di damnatio ai lavori forzati, a quelli accessori ecc., alla deportatio) e unite nell'effetto di porre il condannato nella condizione di servus poenae, privo cioè di ogni capacità giuridica. Questa tendenza, nettamente repressiva, alla creazione di nuovi crimina publica e alla loro punizione con la morte è il motivo dominante di tutta la legislazione imperiale ed espressione della volontà di uno Stato assoluto di avocare soltanto a sé il potere di punire. Come riflesso di tale concezione, si generalizza la tendenza, già in qualche modo evidenziatasi durante l'epoca classica, di attrarre sempre più in un ambito pubblicistico gli illeciti di diritto privato (delicta). Viene così portato a compimento quel processo, iniziato in epoca regia, di limitazione della reazione privata e dell'autodifesa, in favore di un potere centrale che non delega più al privato l'amministrazione della giustizia.
4. La pena criminale dal Medioevo all'età contemporanea
Il crollo dell'Impero Romano conduce a un lento e inesorabile declino del sistema giuridico che lo aveva retto e che era stato uno dei prodotti più interessanti e originali della cultura romana. Le Province sono ormai territori devastati da continue e sanguinose battaglie, indebolite economicamente e dall'assetto politico pressoché inesistente. Il governo dei singoli territori conquistati è affidato interamente alle popolazioni barbariche; queste vi si insediano, affiancando le proprie tradizioni culturali e giuridiche a quelle romane, ma è un innesto spesso deleterio che trova nel caos forma compiuta (Le Goff 1967). Quel gruppo eterogeneo di genti, comunemente definite barbari, ha origini prevalentemente nomadi e trova in sé stesso il proprio completamento sociale. In un tale sistema affatto personale del diritto, dove la nazione coincide con la collettività a prescindere dallo stanziamento territoriale, l'impatto con i ruderi del fasto istituzionale dell'Impero varia a seconda del popolo: ai tentativi di integrazione di alcuni (per es. i goti) si accosta l'irrigidimento di altri, che rimangono legati alle proprie leggi e alle proprie tradizioni. Il sistema punitivo romano imperiale, che si era basato sull'attrazione in orbita pubblicistica di un numero sempre più elevato di fattispecie, viene abbandonato per un sistema repressivo strettamente ancorato alla reazione del singolo (pena privata). Lo stato di inimicizia, infatti, che nasce per l'atto criminoso tra il delinquente e la sua vittima è risolubile mediante il sistema della faida, peculiare procedimento di autotutela del gruppo, in cui è assente ogni potere pubblico e da cui scaturisce l'irrogazione di una sanzione di carattere privato. In un ordine temporale ciclico di vichiana memoria, riemerge dunque la vindicta, che costituisce presso tali popolazioni il sistema punitivo principale, nelle forme sia dell'intervento fisico diretto sulla persona del reo sia dell'intervento sul patrimonio dello stesso e del gruppo familiare cui appartiene (compositio), in una versione lievemente meno sofisticata delle obligationes romane. La perdita della libertà personale, nella forma dell'asservimento temporaneo o permanente, in realtà non assume rilevanza in questa prima fase dell'Età medievale, se non come rimedio accessorio e conseguente all'impossibilità di ottemperare alla composizione pecuniaria.
La morte, al pari delle altre sanzioni fisiche, quali la mutilazione, la marchiatura, la fustigazione e la declavazione, invece, rappresenta l'evento punitivo principale, benché l'irredimibilità della pena di morte sia legata esclusivamente alle violazioni più gravi, quelle commesse ai danni dell'autorità costituita; nelle più tenui ipotesi di reato di natura privata, infatti, è sostituibile con il versamento di una somma di denaro, il 'guidrigildo'. Ragioni legate all'onore della famiglia e della figura del guerriero rendono l'espiazione pecuniaria del tutto inadeguata alle esigenze di una parte della collettività: il colpevole minaccia la pace pubblica e della pace deve essere privato. Ogni mezzo è lecito a tal fine. La generale tendenza del diritto intermedio a esprimersi attraverso pene private prevalentemente pecuniarie è, dunque, in qualche modo vanificata dagli imperativi culturali e sociali delle classi guerriere dell'Alto Medioevo e resta appannaggio quasi esclusivo della popolazione contadina, così come descritta nell'Editto di Rotari del 643: l'estrema povertà in cui vive la gente rende la vita un bene economicamente valutabile, a seconda dello status sociale della vittima e del potenziale guadagno che il lavoro di questa può apportare alla comunità. Si inverte, quindi, il rapporto primitivo tra compositio e pena corporale: il rimedio afflittivo prevale ideologicamente sopra ogni altro strumento punitivo, ma è il guidrigildo a costituire in effetti la pena di più diffusa applicazione. Del resto, anche nell'ambito dei crimina publica, accanto alle pene corporali figurano interessanti soluzioni alternative che, peraltro, aprono la strada a una rapida evoluzione del diritto penale. Ancora oggi è comunemente usato il termine bandito per indicare una persona che abbia trasgredito la legge penale; tuttavia le origini semantiche della parola, come spesso accade, tradiscono una maggiore specialità terminologica, indicando precipuamente colui nei confronti del quale sia stato emesso un bando, id est un provvedimento paragonabile all'esilio, a seguito di condanna penale.
L'evangelizzazione del mondo antico porta, inevitabilmente, a una sovrapposizione tra norma giuridica e norma religiosa. Il timore della vendetta divina si affaccia prepotentemente nella vita dell'uomo medievale, destinatario, ora, di sanzioni corporali e spirituali: la vendetta privata contrasta con il precetto cristiano del perdono e il mondo giuridico attraversa una fase di grande confusione. La dinastia merovingia e, successivamente, quella carolingia colgono tali mutamenti e, al fianco della Chiesa, costruiscono un nuovo impero. Il nuovo assetto politico, nel tentativo di sradicare la prassi consolidata della faida, tende ad assorbire in un ambito pubblico l'inflizione della pena, ma l'impossibilità di sradicare una consuetudine così forte genera un'osmosi sistemica e la stessa monarchia si sostituisce al privato adottando analoghi sistemi punitivi. L'eclissi della potente organizzazione burocratica carolingia, tuttavia, segna il passaggio a un sistema sociale del tutto differente. Vanificate le aspettative imperiali della dinastia degli Ottoni, si assiste a un frazionamento territoriale che favorisce il sorgere del particolarismo politico e che, lentamente, condurrà alla differenziazione feudale e, quindi, al sorgere delle grandi monarchie. Si moltiplicano le ipotesi di reato e, nel tentativo di favorire tanto lo sviluppo dei commerci quanto l'amministrazione stessa della giustizia, si inaspriscono le pene. Il sistema ordalico di accertamento della verità, diffuso presso i barbari, miete vittime innocenti (De Vesme 1945). La poietica delle forme prevale sulla comprensione degli accadimenti: la divinità, chiamata a giudicare l'imputato, di frequente è aiutata da inquisitiones segrete che consentono una valutazione più oggettiva dell'innocenza o della colpevolezza del soggetto. Alla luce dei sommari risultati investigativi la prova subisce manipolazioni occulte, a seguito delle quali il risultato appare chiaro già prima della mise en scène. Nel caso in cui venga accertata la colpevolezza si lascia che l'imputato muoia oppure resti orribilmente mutilato nel corso della prova stessa, confondendo inevitabilmente processo e condanna, accertamento e pena.
Già a partire dalla seconda metà del 13° secolo, le monarchie, prima fra tutte quella francese, iniziarono un processo accentratore teso a eliminare i problemi politici, giuridici e amministrativi legati al diffuso particolarismo feudale. L'esercizio del magistero punitivo nello Stato assoluto, si concentra sempre più nelle mani del sovrano. Criminalità incombente e ambizioni di stabilità influenzano l'andamento delle 'cose' penali; si assiste a una crescita esponenziale delle fattispecie criminose, ora legate allo sviluppo dei commerci, che richiede maggiore sicurezza non solo nelle città ma anche e soprattutto nelle grandi strade di collegamento. Il sistema ordalico non è più sufficiente ad arginare i rischi della criminalità. Nasce l'Inquisizione, come rimedio ecclesiastico contro le eresie e come rimedio temporale contro la delinquenza comune. Dilungarsi sul profilo processuale sarebbe superfluo in questa sede; ciò che va rilevato è l'inasprimento del sistema punitivo che tende all'eliminazione fisica del reo. La pena di morte indiscutibilmente domina il panorama sanzionatorio ed entra a far parte della cultura stessa delle popolazioni cristiane. L'accusa di stregoneria e quella di eresia celano ragioni di Chiesa e di Stato, giustificando un'applicazione diffusa della pena. La caduta dell'ancien régime, e del sistema feudale che lo aveva retto, porta al tramonto anche del sistema repressivo fondato, perlopiù, sulle pene corporali. Nella seconda metà del 18° secolo, soprattutto in Francia, la protesta contro i supplizi diviene generalizzata: si trova nelle pagine dei cahiers de doléances e nelle istanze riformistiche dei philosophes. L'eccesso dei castighi è divenuto intollerabile; la dolcezza delle pene diviene uno dei temi principali nelle discussioni sui sistemi repressivi. Ma le istanze umanitarie, pur presenti nei progetti dei riformatori, non ne costituiscono affatto il nucleo portante. La riforma del diritto criminale, già nelle formulazioni più generali, deve essere letta come il tentativo di stabilire una nuova 'economia' del potere di punire, non più intermittente (in forza di privilegi, esenzioni, conflitti fra le differenti giustizie), ma articolato in un sistema regolare, costante e soprattutto 'dettagliato nei suoi effetti' (Foucault 1975). E se nei progetti dei riformatori tali concetti dovevano tradursi, dal punto di vista delle scelte dei regimi sanzionatori, ancora in una serie diversificata di pene (scientifiche, adeguate, efficaci), sia pure in un'ottica diametralmente opposta a quella dei supplizi, le scelte legislative vanno in tutt'altro indirizzo, imponendo, a fronte di una diversità di pene tante volte raccomandata, un regime fondato su una pena quasi uniforme: la prigione (v.). Questa, sino ad allora mai presentata come forma generale di castigo, dai primi decenni del 19° secolo diviene, accanto alla morte e alle pene pecuniarie, la forma essenziale del castigo.
La svolta che si compie tra la fine del 18° e gli inizi del 19° secolo segna il passaggio, ed è un fenomeno del tutto nuovo, a una 'penalità di detenzione' (Foucault 1975). In tutta Europa la carcerazione sotto le varie forme (lavori forzati, bagno penale, incarceramento correzionale), da misura in qualche modo preventiva e contenitiva del reo, acquista il ruolo di cardine dell'intero sistema sanzionatorio, tale da condurre all'identità tra castigo e prigione, divenendo così 'la pena delle società civilizzate' (Rossi 1829). Posizione, questa, che la detenzione carceraria conserverà intatta fino ai giorni d'oggi, anche se negli ultimi decenni del 20° secolo, soprattutto per quanto riguarda l'esperienza italiana, si assiste a un tentativo di superamento del monopolio penitenziario con l'introduzione di una serie di misure alternative alla detenzione, che, nel solco di un'ideologia di ascendenza illuministica, di individualizzazione delle pene e della loro diversificazione, divengono il tentativo di attualizzare in maniera concreta il finalismo rieducativo.
Rappresentando l'universo giuridico come un continuum di eventi dal moto rigorosamente circolare, la pena si collega teoricamente e fisicamente al fatto criminoso, costituendone lo speculum attraverso il quale bene e male convergono in un'immagine retribuzionista assolutamente meccanica. La logica hammurabiana (v. sopra) in extrema ratio impone la capzione della vita in cambio della vita, e quella che noi chiamiamo aulicamente 'pena capitale' spesso non è che l'atto culminante di un duplice omicidio. Fatta eccezione di rari momenti letargici, la storia della società umana è disseminata di meccanismi alterni di convivenza, che contrappongono soggezioni a imposizioni, nella ricerca di un equilibrio che superi l'interesse particolaristico e tuteli adeguatamente i diritti della collettività. A questo fine, come si è visto sinora, nell'evolversi dei tempi sono state di volta in volta approntate norme e sanzioni in grado di mansuefare, in modo più o meno incisivo, quegli esseri umani tendenzialmente propensi alla devianza criminosa.
La pena di morte, come misura estrema del sistema sanzionatorio, nasce con il concetto stesso di vindicta, sviluppandosi, quindi, in epoca romana e altomedievale come mezzo espressivo sia dell'interesse privato sia del potere governativo, esercitati entrambi con un'attenzione particolare alla proporzionalità della metodologia punitiva. Tuttavia è soprattutto in epoca inquisitoria che essa si diffonde con estrema rapidità, rappresentando l'evento finale di un supplizio iniziato con la cattura dell'inquisito, fisicamente e psicologicamente sottoposto a una serie di torture degradanti, debilitanti e, a volte, persino letali. L'autorità giudiziaria, filtro del potere governativo, onnipresente e onnifacente, incombe con potenza simbolica e fattuale sul reo. Lo stato del dubbio viene eliminato da una penetrante indagine investigativa, che non tralascia neppure la psiche e, già nelle sue prime manifestazioni, anticipa efficacemente l'orribile epilogo. Le città divengono macabri teatri, dove i patiboli costituiscono parte integrante del paesaggio, e non trascorre mai troppo tempo prima che i cittadini assistano a una nuova esecuzione. Sono pubblici spettacoli, in realtà, allestiti al fine di generare negli spettatori uno shock emotivo a effetto deterrente. L'impatto scenico della sofferenza e della morte, spesso prolungato dall'esposizione dei resti del cadavere in alcuni punti della città, serve da monito assoluto nei confronti di tutti coloro che intendano assumere comportamenti penalmente devianti. Nel concreto timore che il demonio, sotto qualunque forma si presenti, possa minacciare la collettività, il fanatismo esecutorio si spinge oltre ogni limite, coinvolgendo gli animali e persino i cadaveri, all'uopo dissotterrati, processati e bruciati (Coco 1997).
La persistenza storica della pena di morte testimonia come quest'ultima abbia trovato tenaci sostenitori in ogni epoca. L'antropomorfizzazione della comunità ha generato, storicamente, un atteggiamento positivo nei confronti della pena capitale, vista come un'incisione chirurgica periferica necessaria alla sopravvivenza dell'intero corpo (s. Tommaso, Summa theologica, II, q. 64, art. 2). Tuttavia non poche voci, vessilli della guerra contro l'oscurantismo delle leggi criminali, si sono levate in ogni tempo al fine di sollecitare l'abolizione della pena di morte: gli individui hanno creato lo Stato ed è assurdo che possano avergli altresì concesso il potere di toglier loro la vita, asseriva C. Beccaria nel 1764, sviluppando una concezione individualista e contrattualista in cui il rapporto tra individuo e società era esattamente invertito rispetto alla regola di s. Tommaso. Questa era la coscienza comune anche tra i governanti illuminati. Tra il 1786 e il 1850 il Granducato di Toscana è teatro di un'aspra lotta tra i sostenitori delle teorie abolizionistiche e i conservatori del regime sanzionatorio tradizionale. È Pietro Leopoldo il primo a dare inizio a una riforma della legislazione criminale toscana, caldeggiando l'abolizione, o quanto meno una limitata applicazione della pena di morte (Da Passano 1994). Ancora oggi il dibattito sulla pena di morte assume rilevanza enorme non soltanto grazie alla portata teorico-giuridica complessiva, ma per il suo ovvio riverbero sulle norme etiche. Contraddizione e incompatibilità, paradossalmente, sono i caratteri che rendono logico e uniforme il precetto morale, quale strumento psicagogico inteso a influire sul parossismo (Cordero 1985). Dietro la norma etica si celano asserzioni positive e negative al contempo; le giustificazioni della morale variano a seconda del substrato culturale di ogni individuo e della sua sensibilità interpretativa: la condanna dell'omicidio e, contestualmente, il perdono del peccatore, osserva Paracelso, sono alla base delle Sacre Scritture, pur costituendo precetti fondamentalmente giuridici di natura contraddittoria (Cattaneo 1994).
In questo quadro di soggezione alla norma etica gioca un ruolo primario la religione cattolica che, attualmente, ritiene del tutto inumano ogni trattamento fisico del condannato che non sia quello dell'incarcerazione. L'inumanità della pena è argomento che viene variamente utilizzato sia con fini abolizionistici, sia riguardo alle metodologie applicative della sanzione capitale. Negli Stati Uniti d'America l'ottavo emendamento della Costituzione vieta espressamente l'irrogazione di pene crudeli e inusitate; pur tuttavia solo pochi Stati l'hanno ritenuto contrastante con la previsione della pena di morte. Uno di questi è lo Stato della California, nel quale i giudici non hanno trovato inumana esclusivamente la pena, in sé e per sé, ma anche la diffusa prassi dell'attesa snervante e lunghissima del detenuto nel braccio della morte. Nel tentativo, per sua stessa natura contraddittorio, di 'umanizzare' la pena di morte, l'essere umano si è variamente impegnato, escogitando marchingegni sempre più sofisticati: il brigante N.-J. Pelletier è passato alla storia per essere stato il primo uomo giustiziato con la ghigliottina o, più propriamente, con la louisette, come fu chiamata in onore del suo vero ideatore, A. Louis. L'uso di questa sofisticata macchina di morte coincise con l'estensione a tutti i cittadini del 'privilegio', un tempo riservato ai soli nobili, di essere giustiziati per decapitazione, metodo senza dubbio più rapido e meno doloroso rispetto a quelli utilizzati precedentemente.
Al contrario, in tempi risalenti, la particolare crudeltà delle pene non solo non costituiva oggetto di critica dal punto di vista morale, ma assumeva toni di esemplarità, laddove il fatto incidesse sulla sicurezza della nazione; il discrimine applicativo tra i differenti supplizi dipendeva, infatti, dalla gravità del reato, o, quanto meno, dalla valutazione estremamente soggettiva e variabile che di questo avessero gli uomini di governo: nel 1775 un tale Damiens ferisce lievemente Luigi XV con un piccolo coltello, tuttavia la sua esecuzione, divenuta strumento punitivo esemplare secondo le esigenze dell'autorità regia, è tristemente ricordata come uno degli atti più brutali che siano mai stati compiuti. Lasciata alla storia la varietà infinita di supplizi da infliggere al condannato, la pena, in epoca moderna, ha lentamente perduto il suo carattere di spettacolarità: le esecuzioni avvengono in luoghi chiusi e vi assistono poche persone, per la maggior parte direttamente interessate alla punizione. La belluinità dell'esposizione del cadavere nei giorni seguenti non solo ha perduto attrattiva per il popolo, ma per la stessa autorità governativa rappresenta un'infamia: in Italia non se ne ricordano più dopo l'esposizione di B. Mussolini e di C. Petacci in piazzale Loreto. La ricerca di nuove pratiche di morte indolore ha cementato una collaborazione professionale che genera una sostanziale incoerenza ideologica. Per quella strana attrazione delle antitesi che spesso domina l'animo umano, il carnefice è affiancato da un medico, quando addirittura le due figure non coincidano. Primum non nocere detta la regola ippocratica; tuttavia il medico, la cui attività per convinzione e deontologia mira alla guarigione e alla salvezza degli uomini, è una presenza necessaria nel corso delle esecuzioni al fine dell'accertamento tanatologico, benché ancora oggi in alcuni Stati americani il suo intervento travalichi tale limite, sia riguardo alle esecuzioni per iniezione letale sia relativamente all'intervento psichiatrico sul condannato, allo scopo di accertarne la competence for execution (ossia la capacità di comprendere quanto gli stia accadendo), ottenuta, nella maggior parte dei casi, attraverso la somministrazione, volontaria o coattiva, di potenti farmaci antipsicotici (Magliona 1996).
Nessuna violazione costituzionale, invece, attiene alla scelta delle modalità esecutive. Per quanto assurda e macabra possa apparire la chance offerta ai condannati di scegliere il proprio strumento di morte, vi si può trovare una logica che affonda le proprie radici in tempi lontani e configura la pena di morte come un'ordalia moderna. L'ordeal di epoca altomedievale, come è stato accennato, era null'altro che un giudizio affidato alla divinità, la quale lasciava che l'imputato uscisse indenne da prove fisiche micidiali qualora lo ritenesse innocente (Patetta 1890). Il procedimento, nella pena di morte, è il medesimo: il tentativo fallito, in alcuni casi, comporta la grazia. Dunque, paradossalmente, il trattamento più umano, come l'iniezione letale, escludendo del tutto la possibilità di sopravvivenza, priva il condannato della prospettiva, vaga e remota ma pur sempre reale, del mutamento improvviso degli eventi, in ciò rivelando un suo peculiare aspetto d'inumanità che viene difficilmente preso in considerazione. Di chiara evidenza per chi si accinga a studiare il fenomeno della pena di morte in epoca contemporanea è la necessità di enucleare non tanto le ragioni a contrario, variamente espresse da convenzioni e risoluzioni internazionali, quanto quelle addotte a favore, al fine di individuare la natura del provvedimento stesso.
Tre sono, fondamentalmente, le funzioni attribuite alla pena capitale. La prima consiste nell'eliminazione fisica del reo, per impedire la reiterazione del comportamento criminoso. La seconda, ovviamente, è riscontrabile nella punizione, intesa in termini retributivi, la cui componente di vendetta non sembra diminuita rispetto al passato: il gusto della sofferenza, infatti, permane, nonostante i buoni propositi dell'umanità (Durkheim 1893). La terza sta nell'effetto deterrente della condanna. L'idea di un'essenziale, irredimibile relatività storica del paradigma punitivo anima i sostenitori della pena di morte con deboli argomentazioni volte ad attribuire a tale rimedio una funzione sociale riequilibratrice in periodi di incremento della criminalità. L'efficacia dell'argine punitivo capitale verrebbe provata, secondo I. Ehrlich (1975), dal decrescente numero di reati in corrispondenza dell'aumento di esecuzioni, ma statistica e matematica sono spiragli d'un sistema di certezze che non sempre coincide con i giochi combinatori inscenati dall'uomo: tra i due elementi del quadro econometrico si collocano infinite variabili, determinate, per es., da un mutamento sostanziale del rapporto tra ricchezza e povertà, da una legislazione più favorevole all'uso privato delle armi, oppure dalla crescita incontrollabile di fattori sociali violenti, che attraverso i media raggiungono fasce sempre più vaste di popolazione. L'esperienza giuridica italiana è testimone del lungo travaglio che una nazione subisce prima dell'affermazione definitiva e totale del principio abolizionista. Il primo codice ad aver sostituito alla pena di morte l'ergastolo è quello Zanardelli del 1889, frutto di aspre polemiche dottrinarie, già a partire dai numerosi progetti che si sono susseguiti incessantemente al suo nascere. Il sistema non è destinato a durare, vieppiù a causa dell'avvento di un regime politico totalitario. La l. 2008 del 1926, infatti, ripristina la pena di morte per i reati di attentato alla persona del re e del capo del Governo, cui vanno ad aggiungersi, con il successivo r.d. 2026 del 1926, anche i reati di distruzione di edifici pubblici e privati, devastazione e strage. Alla ghigliottina si sostituisce la fucilazione, rimedio senza dubbio meno appariscente, ma che conserva comunque una sua portata scenica, legata anche al particolare significato che si vuole dare a quella morte: il condannato, secondo la legge ordinaria, deve essere legato alla sedia di spalle al plotone, mentre, nel diritto penale militare, è contemplata anche l'ipotesi che questi possa fronteggiare il plotone stesso, riservando in tal modo al condannato una fine meno disonorevole. Il codice Rocco del 1930, fedele alle idee del suo estensore e alle esigenze politiche della classe dirigente del paese, conferma l'opportunità della pena di morte, ampliandone notevolmente il raggio d'azione. L'esecuzione, frutto di una condanna irrevocabile e imperscrittibile, avviene in forma privata, entro le mura del carcere; non si indugia più sull'effetto scenico: il diffondersi della notizia sembra già sufficiente a ingenerare il meccanismo deterrente della paura.
La caduta del fascismo determina un'immediata reazione contro i metodi sanzionatori del codice e con d. legisl. lgt. 10 agosto 1944, nr. 224, si abolisce la pena capitale. Ma non si cancellano facilmente tradizioni di morte così lunghe e radicate: un successivo d. legisl. lgt. del 10 maggio 1945, nr. 234, la ripristina, infatti, come misura eccezionale e temporanea, destinata a punire le forme più gravi di delinquenza. Solo nel 1948, quindi, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione, si può dire che la pena di morte sia stata abolita definitivamente, benché lo stesso art. 27 abbia lasciato spazio a uno spiraglio reazionario, ammettendone la legittimità secondo le leggi penali militari di guerra. Oggi anche l'art. 241 c.p.m.g. è stato abolito dalla l. 13 ottobre 1994, nr. 589, e il capitolo della pena di morte in Italia sembra concluso; la soluzione lascia però perplessi, perché frutto di un atto legislativo meramente ordinario. Non essendo stata modificata la norma costituzionale nell'eccezione posta dall'art. 27, si è lasciato infatti aperto uno spiraglio alla reintroduzione della pena di morte nell'ordinamento militare. Se tale scelta riveli la persistenza delle convinzioni giuridiche espresse dai principi generali della Costituzione, o se sia un escamotage per non porre l'Italia, in caso di guerra, in condizione minoritaria rispetto ad altri paesi nei quali tale eccezione sopravvive, sostenuta peraltro da alcune delle principali convenzioni europee e mondiali, è questione apparentemente irrisolvibile.
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