Percorsi introduttivi - Fantasie del cinema prima del cinema
Fantasie del cinema prima del cinema
Quando si parla di 'cinema prima del cinema' o di 'pre-cinema', termine che appare ufficialmente nel 1955 al II Congresso internazionale di filmologia, oppure di 'archeologia del cinema' ‒ come lo definì C.W. Ceram in un famoso libro con lo stesso titolo ‒, gli studiosi tendono a dividersi: ci sono quelli attirati e interessati a risalire indietro nel tempo e a ricercare "l'eterno cinematografico dell'animo umano" (A. Luchini, in "Solaria", 1927, 3, nr. monografico: Letterati al cinema) e quelli infastiditi o ostili a dare valore di 'antecedenti' protostorici o a raccogliere in un unico comune denominatore miti, leggende, credenze e forme di rappresentazione e di spettacolo (i dipinti della grotta di Lascaux e il mito della caverna, le ombre cinesi e la lanterna magica, i panorami e i diorami, il Mondo Nuovo e lo zootropio) con caratteristiche e origini diverse e lontane tra loro.Eppure è innegabile che è stato un lungo e lento cammino quello della nascita della meravigliosa macchina che produce immagini in movimento, o meglio, una corsa a ostacoli, tortuosa, piena di deviazioni, sovrapposizioni, coincidenze, incomprensibili ritardi e fughe in avanti da parte di tanti inventori, scienziati, ciarlatani, ambulanti, maghi e bricoleurs il cui nome è, dai più, dimenticato e che si può far risalire fino al teatro d'ombre e agli esperimenti di Leonardo da Vinci sulla camera obscura. Per arrivare a quel magmatico coacervo di invenzioni, brevetti, colpi di fantasia, sogni realizzati e macchine magiche dai nomi irripetibili (prassinoscopio, cronofotografo, fenachistoscopio, bioscopio, kinetografo, phonoscope), che hanno caratterizzato i decenni precedenti la vera e propria invenzione del cinema, altrimenti conosciuto con il nome di Cinématographe dei fratelli Lumière e reso pubblico in quella fatidica sera del 28 dicembre 1895, presso il Grand Café del Boulevard des Capucines a Parigi. Ma non solo, a contendere il primato dei Lumière, ci sono gli americani Thomas Alva Edison e William K.L. Dickson (e infatti secondo la storiografia di area americana sono loro i primi inventori con il Kinetoscope del 1893), l'inglese William F. Green, il tedesco Max Skladanowsky e l'italiano Filoteo Alberini, oltre a un altro francese, Georges Demenÿ. Come a dire che l'idea del cinema era nell'aria; anzi, nei pensieri, nei desideri e nei sogni di tutti gli uomini, e che solo un ritardo scientifico ne ha posticipato la materializzazione tecnica. L'invenzione del cinema è stata molte cose: l'appagarsi di un sogno, la realizzazione di un mito, lo sviluppo di una tecnica, il compimento della fotografia, l'adeguamento della comunicazione, l'ampliamento dell'orizzonte visivo e sonoro, la registrazione dello sguardo e dell'udito, la penetrazione dell'invisibile. È stata l'idea che ha percorso tutta la storia delle arti visive e tutte le forme 'imperfette' di riproduzione precedenti alla fotografia, alimentandole instancabilmente di sempre maggiore realismo, nel tentativo di attuare quello che solo il cinema porterà a perfetto compimento attraverso quell'evoluzione tecnologica che, dalla sua nascita in poi, non ha cessato di offrire incredibili coefficienti realistici all'immagine audiovisiva. Prima con l'avvento del sonoro, poi del colore, del cinemascope, del suono dolby-stereo e surround fino alla 'realtà virtuale' dell'era del digitale, in cui lo spettatore vive, all'interno di una realtà simulata, generata dal computer, un'esperienza sinestesica, simultanea e fusionale di interazione tridimensionale, la quale, se da una parte insiste sul lato allucinatorio e onirico della fruizione cinematografica, dall'altro realizza sempre più concretamente il mito del cinema totale auspicato da André Bazin. Il cinema è stato infine il punto di intersezione cruciale che alla fine del 19° sec. ha visto allinearsi una serie di scoperte e di invenzioni di importanza fondamentale: insieme alla nascita della psicoanalisi e della settima arte in quel fine secolo si assiste infatti ‒ per parlare solo delle scoperte più importanti ‒ alla prima trasmissione di segnali radio, alla nascita della radiografia e dell'elettronica e all'invenzione del grammofono a disco. Dietro l'illusione di riprodurre la realtà, di giocarci a piacimento, di trasfigurarla, di cancellarla e inventarne un'altra che si adegui maggiormente ai nostri sogni, vi sono profondi bisogni psicologici a cui il cinema offre un, seppur fuggevole e alienante, soddisfacimento. Se il cinema è prima di tutto un fenomeno del pensiero, lo è del pensiero inconscio più che di quello cosciente: per i suoi meccanismi di 'immagine in movimento', di 'impressione di realtà', di 'presenza-assenza' dell'oggetto filmato, il film infatti ha a che fare con l'inconscio di ogni spettatore, cioè con il sogno, con il fantasma e con l'immaginario, che vengono attivati nella fruizione cinematografica più che in altre forme espressive.L'apparizione del cinema soddisfa quindi un mito, un'idea, e questo mito si identifica con un'immaginazione e un desiderio arcaici nell'uomo. Per André Bazin questo desiderio arcaico coincide con la possibilità di una rappresentazione e riproduzione totale e integrale della realtà, con la "restituzione di un'illusione perfetta del mondo esterno" (Bazin 1958; trad. it. 1973, pp. 13-14), che porta alle sue conclusioni la lunga storia psicologica delle arti plastiche, offrendo allo spettatore l'illusione di fermare il tempo, di vincere la morte. Secondo Edgar Morin (1956) il cinema risuscita esperienze magiche primordiali come quelle del doppio e della metamorfosi, per cui si può paragonare lo spettatore al bambino e all'uomo primitivo. In Das Unheimliche infatti Sigmund Freud descrive come perturbanti alcune credenze relative sia all'incertezza intellettuale se qualcosa sia o non sia vivente, animato o inanimato, mortale o immortale, che alla figura del sosia, "all'identificazione del soggetto con un'altra persona sì che egli dubita del proprio Io o lo sostituisce con quello della persona estranea" (Freud 1919; trad. it. 1977, p. 95); tutte credenze, continua Freud, che appartengono alle modalità percettive del bambino e dell'uomo primitivo. Ed è proprio a proposito dell'immagine cinematografica che Morin, riprendendo la tesi sartriana dell'immagine come presenza vissuta e come assenza reale, la collega alla percezione del mondo da parte dell'uomo primitivo e del bambino, che hanno come tratti comuni di non essere coscienti dell'assenza dell'oggetto e che credono alla realtà dei sogni così come a quella da svegli. Per Jean-Louis Baudry il dispositivo cinematografico è una simulazione dell'apparato psichico e tende a produrre una regressione a uno stadio di sviluppo infantile, grazie al quale lo spettatore, allucinando un appagamento di desiderio, ritrova artificialmente quello stato di fusione e di abbandono in cui tra sé e l'altro, tra mondo interno e mondo esterno non vi è né separazione né differenza (Le dispositif: approches métapsychologiques de l'impression de réalité, in L'effet cinéma, 1978, pp. 27-49).La sala buia e il meccanismo della proiezione cinematografica sono il rassicurante luogo familiare dentro il quale si possono vivere le avventure più incredibili, sconosciute e appassionanti, secondo il meccanismo freudiano dello heimlich, del confortevole, del familiare che si trasforma in unheimlich, in inquietante e perturbante. Se per le arti tradizionali è nella deviazione dalla norma, nello scarto della lingua o del segno grafico, nel mondo intermedio tra il 'qui che rassicura' e il 'non so dove che atterrisce', tra lo heimlich e l'unheimlich insomma, che si può individuare la creazione artistica, nel cinema questo scarto tra il 'qui' e il 'non so dove', questo balzo dal conosciuto all'ignoto, dalla realtà all'immaginario, è già presente nel suo stesso meccanismo di funzionamento. Vale a dire che la caratteristica principale del cinema non è tanto estetica, non sta tanto nei capolavori della sua storia, quanto nella sua invenzione, nel meccanismo di riproduzione della realtà, che è però una riproduzione illusoria e quindi, nello stesso tempo, un superamento di tale realtà.
Avviene spesso che le idee che si sviluppano nell'immaginazione "possono essere disperse e annientate dal contatto con il mondo reale" (N. Hawthorne, The artist of the beautiful, in Twice told tales, 2 voll., 1842; trad. it. 1977, p. 217). Per il cinema è avvenuto il contrario: l'idea si è trasformata in una realtà tale da realizzare le fantasie più audaci dei più audaci visionari, da diventare 'copia' più che perfetta della ricchezza delle loro visioni. Ma prima che il cinema diventasse realtà, sono esistiti dei luoghi mitici, fantastici, immaginari o concretamente reali, dove questa idea, questo mito del cinema si è materializzato e svelato, dove si è 'inventato' prima che si inventassero le sue modalità tecniche e materiali.La prima tappa da cui partire in questo viaggio a ritroso non può che essere naturalmente il mito più conosciuto e analizzato rispetto al desiderio di cinema insito nell'uomo, quello della caverna di Platone, anche se il mito raccontato dal filosofo greco è in realtà un momento di sintesi ‒ come lo sono d'altronde tutti i miti ‒ di esperienze antecedenti. Baudry suggerisce le ombre cinesi, mentre Morin parla dei giochi di ombre del Wayang e del culto greco dei misteri, che veniva praticato in origine nelle caverne e si accompagnava a rappresentazioni di ombre (Morin 1956, p. 53). Platone, nel racconto che fa Socrate a Glaucone nel VII Libro della Repubblica, riproduce esattamente la situazione del dispositivo cinematografico, in cui la caverna è simile alla sala buia, i prigionieri sono paragonabili agli spettatori, immobili e incatenati alle loro poltrone, e le ombre che passano sulla parete sono della stessa natura delle immagini che scorrono sullo schermo. Se si interpreta allora ‒ al seguito di Franco Fornari e di Baudry (F. Fornari, La riscoperta dell'anima, 1984, pp. 142-150, e Baudry 1978, pp. 27-49) ‒ il mito della caverna come se fosse un sogno, la caverna come simbolo del grembo materno, i prigionieri come uomini mai nati, quindi feti, e le catene come simbolo del cordone ombelicale, si può ipotizzare che la caverna platonica riproduca la situazione intrauterina dove il feto sogna all'interno del grembo materno. E si può quindi ritrovare l'archetipo che fonda e comprende il cinema: il desiderio di ritornare al luogo originario, alla situazione di fusione tra l'io e l'altro, allo stato onirico in cui, come dice Baudry, non c'è differenza tra percezioni e rappresentazioni (v. la voce dispositivo cinematografico). Questa interpretazione può essere ritrovata anche in altre manifestazioni e in altri momenti: nell'intreccio tra le pratiche reali dove si anticipa il cinema e i luoghi fantastici di tale prefigurazione, quelli inventati dalla fantasia romanzesca, come in alcuni racconti e romanzi che precedono di poco o di pochissimo la nascita del cinema, per es. The dream di Mary Shelley del 1831, The tale of mysterious mirror di Walter Scott del 1828, The chain of destiny di Bram Stoker del 1875 e infine due romanzi molto noti e conosciuti come 'anticipazioni' del cinema: Ève future di Philippe-August-Mathias Villiers de l'Isle-Adam del 1886 e Le château des Carpathes di Jules Verne del 1892.
"Il periodo in cui è ambientata la storia che sto per narrare ‒ scrive la Shelley in The dream ‒ è quello dell'inizio del regno di Enrico IV di Francia, la cui ascesa al trono e la cui conversione portarono pace al reame, ma non poterono sanare le profonde ferite che i due partiti avversi si erano reciprocamente inflitti negli anni precedenti" (trad. it. 1978, p. 66). E infatti il tema del racconto della Shelley è il tormentoso riavvicinamento tra la bella Constance de Villeneuve e il valoroso Gaspar de Vaudemont, il quale, essendosi trovato a combattere in campo avverso a quello del padre e dei fratelli della giovane donna, era considerato da lei il diretto responsabile della loro morte in battaglia. Era quindi un inflessibile codice d'onore, "un mare di sangue" a indurre Constance a dividersi dal "giovane tanto amato, con cui aveva scambiato giuramento di eterno amore" (p. 69). Ed è per realizzare questa riunificazione impossibile che la Shelley, grazie a un visionario espediente narrativo, inventa un vero e proprio dispositivo, formalmente molto vicino a quello della caverna platonica e quindi anche a quello cinematografico. Ma seguiamo il racconto: Constance ha appena detto addio per sempre a Gaspar il quale, di fronte al suo irremovibile rifiuto, la informa della propria decisione di partire per la Terra Santa. Una volta rimasta sola Constance non regge però al dolore straziante di quell'addio e così si affaccia "improvvisamente alla sua mente […] un pensiero. Dapprima lo respinse, quale puerile e superstizioso; ma esso non la abbandonò. Chiamò subito la sua governante: "Manon", le disse, "avete mai dormito sul giaciglio di santa Caterina?"" (p. 72).
Ecco il dispositivo della Shelley: Constance decide di andare a dormire nel letto di santa Caterina dove, come voleva la tradizione e la superstizione, la santa avrebbe ispirato le sue azioni attraverso dei sogni, delle visioni inviate dal cielo. Ma per sognare la sua vita futura e il destino del suo amore, Constance deve arrivare in un luogo impervio e pericoloso e coricarsi su una strettissima sporgenza che sovrasta un precipizio "sotto il quale scorre profonda e rapida la Loira". "La luna non era ancora sorta […] e la notte minacciava di essere tempestosa" (p. 76) quando, attraverso un sentiero faticoso, Constance arriva a una piccola cappella. Apre una porticina di ferro e "attraverso un passaggio stretto e tortuoso […] raggiunse una caverna che s'apriva sul lato della collina a strapiombo sulla corrente vorticosa […] Constance ebbe qualche brivido e guardò il giaciglio: una stretta lingua di terra ed una pietra coperta di muschio, posta proprio sull'orlo del precipizio. Si tolse il mantello: era questa una delle condizioni necessarie al compiersi dell'incantesimo […] s'allungò sullo stretto giaciglio, che permetteva a stento ch'ella stesse sdraiata e da cui, se si fosse mossa nel sonno, sarebbe precipitata nelle gelide acque sottostanti. All'inizio le sembrò che non sarebbe riuscita a dormire […]. Alla fine cadde in una fantasticheria tanto dolce e languida da sentire il desiderio di abbandonarsi ad essa […]" (pp. 78-79). Ma anche un altro personaggio si è avvicinato, con una barca, a quel luogo solitario: "sotto l'irta collina, sopra la cupa corrente, v'era un'altra persona che guardava, piena di mille timori, e non osava sperare"; è Gaspar, che veglia sulla salvezza di Constance "lieto che fosse vestita di bianco, così ch'egli la poteva scorgere mentre giaceva sulla sporgenza sovrastante". E, "con gli occhi fissi sull'abito bianco", Gaspar veglierà tutta la notte mentre Constance è "abbandonata alle sue visioni" (p. 79).
Ebbene, non solo la protagonista accede a un luogo pericoloso e impervio, ma questo luogo della visione è, come nel mito, una caverna e lo spettatore-sognatore ‒ simile al prigioniero di Platone, costretto all'immobilità a causa delle catene ‒ non deve assolutamente muoversi, pena la morte. In più, rispetto al mito, la Shelley aggiunge un tocco fugace ma essenziale: Constance ‒ prigioniera volontaria alla ricerca del proprio amore, così come è volontaria la 'prigionia' dello spettatore, anch'egli alla ricerca di un 'amore perduto' ‒ essendosi tolta il mantello, "una delle condizioni necessarie al compiersi dell'incantesimo" (p. 78), rimane vestita di bianco. In questo modo non solo si pone come 'spettatrice' di ciò che sogna ‒ trasformando il suo corpo in un vero e proprio dispositivo, simile al meccanismo della proiezione cinematografica nel quale lo spettatore è insieme autore e fruitore, emittente e ricevente ‒ ma permette anche, grazie alla sua veste, bianca come il telo bianco dello schermo, che un altro spettatore possa 'guardare' a sua volta.Sono il luogo e la posizione in cui si trova che permettono a Constance di avere dei sogni che hanno la stessa forza della realtà e che la ricongiungeranno con l'uomo amato a cui pensava di dover rinunciare per sempre. "È evidente ‒ scrive Baudry ‒ che il cinema non è il sogno: riproduce solamente un'impressione di realtà […] che è paragonabile all'impressione di realtà provocata dal sogno" (1978, p. 48).
The tale of mysterious mirror di Scott si svolge a cavallo tra il Seicento e il Settecento a Edimburgo. La protagonista del racconto è lady Forester che, abbandonata dal marito ‒ brillante cavaliere e 'libertino patentato' della buona società scozzese, partito per la guerra nel Continente ‒ non avendo più sue notizie, si consuma nel dolore e nell'angoscia. In quel periodo, a Edimburgo, fa la sua comparsa uno strano e 'bizzarro' individuo, Battista Damiotti, comunemente chiamato il dottore di Padova, ma in realtà un ciarlatano che faceva uso di incantesimi e di arti illecite. Correva voce "che, in cambio di un certo compenso, sicuramente non trascurabile, il dottor Battista Damiotti sapesse svelare il destino degli uomini lontani, e mostrare ai suoi clienti l'immagine dei loro amici e l'azione in cui essi erano in quel momento impegnati" (trad. it. 1985, p. 34). Quando la voce arriva all'orecchio di lady Forester ‒ la quale è pronta a tutto, "pur di tramutare l'ansia in certezza" (p. 34) anche ad accedere "a tali fonti di conoscenza proibita" (p. 35) ‒ decide di rivolgersi al ciarlatano. All'ora del tramonto lady Forester, accompagnata dalla sorella, si avvia verso la casa di Damiotti, che si trova in un vicolo angusto e oscuro. Una volta che la porta si è chiusa dietro di loro, le due sorelle si accorgono che la casa è priva "di qualsiasi accesso della luce di fuori" (p. 38). "Ditemi", chiede loro il ciarlatano, "se avete il coraggio di guardare ciò che sono pronto a mostrarvi" (p. 43) e le informa: "la visione può durare solo lo spazio di sette minuti e se doveste interromperla pronunciando una sola parola, non solo l'incantesimo sarebbe rotto, ma potrebbe derivarne pericolo per gli spettatori". Le due nobildonne gli rispondono che sono decise ad attendere "con fermezza e in silenzio la visione che egli aveva promesso di mostrare". Dopodiché "l'uomo dalle arti magiche" si allontana e va "a preparare l'occorrente per esaudire il loro desiderio" (p. 44). Dopo pochi minuti, le due sorelle, al suono di uno strumento che non conoscono, probabilmente un'armonica, vengono portate in una "grande sala parata a lutto come per un funerale. In fondo […] una specie di altare rivestito dello stesso lugubre colore […] e cinque grandi fiaccole, o torce, poste su ciascun lato dell'altare" che "si accesero una dopo l'altra, all'accostarsi" (pp. 46-47) della mano del Damiotti. "Ma ciò che maggiormente colpì le sorelle ‒ scrive Scott ‒ fu un altissimo e ampio specchio, che occupava tutto lo spazio oltre l'altare e che, illuminato dalle torce accese, rifletteva i misteriosi oggetti posati su di esso". Ed è a questo punto che inizia la visione: "Improvvisamente la superficie dello specchio assunse un aspetto nuovo e singolare. Non rispecchiava più gli oggetti posti davanti ad essa, ma, come se contenesse un suo proprio scenario, cominciò a far apparire oggetti dal suo interno, dapprima in modo disordinato, indistinto ed eterogeneo, come delle forme che tentino di organizzarsi uscendo dal caos; alla fine secondo un disegno e una simmetria distinti e definiti" (p. 48). Ciò che le due sorelle vedono è "una scena reale ‒ racconta Scott ‒ come fosse rappresentata in un quadro, solo che le figure erano mobili invece che essere statiche" (p. 51) e la scena a cui assistono è un avvenimento passato che riguarda Sir Forester: uno sposalizio interrotto, un confuso duello e poi… improvvisamente, dopo sette minuti esatti, la visione svanisce.
L'evoluzione dal racconto della Shelley a quello di Scott è palese: in Scott infatti dalla 'mitica' caverna si passa alla descrizione di una vera e propria sala cinematografica, con gli spettatori 'paganti', fermi, attenti e in silenzio ‒ pena la rottura del patto 'comunicativo' tra il fruitore e il dispositivo ‒ con lo specchio come schermo e la proiezione di un vero e proprio film, un cortometraggio di 'cappa e spada', così come se ne produrranno tanti nel cinema delle origini e soprattutto nel cinema classico.
Diversamente dal racconto della Shelley, dove vi è una riproposizione in chiave di 'ossessione gotica' dell'archetipo cinematografico, in quello di Scott gli intrecci con esperimenti, giochi ottici e luoghi spettacolari reali iniziano a essere più concreti ed evidenti. Non soltanto il dottore di Padova, Battista Damiotti, ricorda l'altro Battista, Giovan Battista Della Porta, non di Padova ma di Napoli, studioso di magia 'naturale' e supposto 'inventore' della camera oscura (che può vantare, andando a ritroso, tra gli altri 'inventori', oltre a L. da Vinci, anche G. Cardano, L.B. Alberti, il filosofo arabo Alhazen fino a risalire ad Aristotele), ma lo specchio magico di Scott ha concretamente a che fare con gli strumenti ottici e i vari tipi di lenti deformanti che si iniziano a costruire a partire dalla fine del Cinquecento. In particolare con la lente anamorfica grazie alla quale, mediante il raddrizzamento allo specchio, "le forme esatte rinascono da un caos". Così scrive infatti J. Baltrušajtis, nel suo articolo L'anamorphose à miroir, a proposito del ritratto anamorfico di Edoardo VI a Somerset House: "I visionari di tutti i tempi dovevano amare queste raffigurazioni che rivelano il fantastico. Il raddrizzamento allo specchio, dove si vedono le forme esatte rinascere da un caos, ha d'altronde anch'esso questo elemento sovrannaturale" (in "La revue des arts", 1956, 2). "Come delle forme che tentino di organizzarsi uscendo dal caos" (p. 48), sono le parole esatte con cui Scott descrive l'inizio della visione nel suo specchio magico, anticipando così non solo il cinema, ma anche il legame che sarebbe nato, a un certo punto della sua storia, tra un'innovazione tecnica e cinematografica, quella del cinemascope, e la lente anamorfica, messa a punto dal francese Henri Chrétien nel 1929.
Anche nel culto greco dei misteri orfici ‒ antecedente del mito platonico, come ha ricordato Morin ‒ lo specchio ha il valore simbolico di schermo che riflette il mondo: "Guardandosi allo specchio Dioniso, anziché se stesso, vi vede riflesso il mondo. Dunque questo mondo, gli uomini e le cose di questo mondo, non hanno una realtà in sé, sono soltanto una visione del dio" (G. Colli, La nascita della filosofia, 1975, p. 34). È come se la realtà non potesse essere guardata che tramite la visione indiretta di uno specchio, pena la morte: a lady Forester infatti è concesso sopravvivere solo perché la realtà terribile del tradimento e dell'abbandono del marito le viene mostrata riflessa per mezzo dello 'specchio misterioso' di un mago, anticipatore dello specchio-schermo dei maghi del cinema.L'analogia percettiva tra il bambino e lo spettatore, di cui hanno parlato Morin e Baudry, si ritrova allora ribadita anche rispetto a un'altra affinità, che ha a che fare con una scena 'formatrice' messa in luce dalla psicoanalisi, quella della castrazione. Partendo dal tema dell'orrore e della minaccia che proviene dalla visione diretta della realtà, si può instaurare infatti una corrispondenza tra la reazione infantile alla percezione della mancanza del pene nella donna e la percezione, da parte dello spettatore, dell'"impressione di realtà". Affinità comprovata ricorrendo, anche in questo caso, a un mito, quello della testa di Medusa.Il cinema, già così prefigurato nel mito della caverna, è copia di copia (le ombre che i prigionieri della caverna vedono proiettate dal fuoco sulla parete sono quelle di "statue e di immagini in pietra o in legno" e non "cose vere e proprie" o uomini in carne e ossa), riproduzione di una 'realtà indiretta', di qualcosa ‒ il profilmico ‒ che è già messa in scena prima di essere filmata. Come se la realtà ‒ simile alla testa di Medusa, che pietrifica dall'orrore chiunque la guardi e provoca nel prigioniero di Platone "impressioni dolorose" che lo costringeranno a fuggire di nuovo verso quelle figure e quelle ombre "più vere degli originali" ‒ potesse essere guardata solo attraverso "una visione indiretta, un'immagine catturata da uno specchio" (I. Calvino, Lezioni americane, 1988, p. 6): secondo il mito infatti l'eroe Perseo riesce a tagliare la testa di Medusa guardandone l'immagine riflessa nello scudo. Lo stratagemma dell'eroe diventa così un gesto paradigmatico, da spettatore ante litteram che guarda la realtà solo nella visione indiretta dello scudo-schermo-specchio, simile in questo alla lady Forester del racconto di Scott. Anche per il bambino, a cui accadrà di guardare in faccia la supposta 'castrazione femminile' e rimanerne impressionato, Freud, riferendosi a un lavoro di S. Ferenczi, rileva un'analogia con "il simbolo mitologico del ribrezzo, la testa di Medusa" (1923; trad. it. 1977, 9° vol., p. 566). E dice ancora: "Conosciamo le reazioni dei bambini alle prime impressioni dell'assenza del pene. Essi disconoscono questa assenza e credono di vedere ugualmente un pene […]". L'impressione di realtà, la presenza-assenza dell'immagine cinematografica ‒ lo spettatore "disconosce" questa assenza e crede "di vedere ugualmente una presenza" ‒ è quindi collegata, attraverso il mito di Medusa, all'impressione che il bambino riceve di fronte alla supposta evirazione e da cui si difende rifugiandosi nel feticismo. Come dire che il problema di credenza che il cinema pone viene soddisfatto solo nel momento in cui lo spettatore non abdica alla sua posizione e al suo luogo di feticistica 'credulità' infantile e di illusorio e momentaneo superamento della castrazione e del limite (v. la voce psicoanalisi).
È evidente, inoltre, soprattutto per alcune caratteristiche del luogo dello spettacolo, l'accostamento tra il racconto di Scott e le 'fantasmagorie' di Étienne-Gaspard Robert, detto Robertson. Alla fine del Settecento, durante la Rivoluzione francese, Robertson, fisico e illusionista, aveva avuto un grande successo di pubblico, a Parigi, con le sue rappresentazioni di fantasmagorie, realizzate con l'aiuto di un fantascopio, una lanterna magica munita di ruote che poteva spostarsi silenziosamente su rotaia. Il celebre illusionista diede dapprima le sue rappresentazioni in un appartamento ‒ come poteva essere quello di Battista Damiotti ‒ ma in seguito si trasferì nell'ex convento delle Cappuccine, dove, secondo la testimonianza di Georges Sadoul, "il salone degli spettacoli era una cappella cui si arrivava attraverso corridoi misteriosi e chiostri in rovina fino a trovarsi davanti a una porta ricoperta da geroglifici che dava accesso a un ambiente tetro, parato a lutto e debolmente illuminato con una lampada da sepolcro. Compariva allora Robertson e cominciava ad evocare fantasmi" (1948; trad. it. 19652, p. 171). Anche qui, come nella sala del racconto di Scott, paramenti e tendaggi neri, a dimostrazione del fatto che se Robertson imitava i racconti gotici, a loro volta tali racconti imitavano la realtà.Un'altra analogia tra il racconto di Scott e un luogo esistente, realmente fondante l'invenzione del cinema, è quella con il Museo che fu progettato e allestito da Athanasius Kircher, l'inventore della lanterna magica e della proiezione fissa, intorno alla metà del Seicento. Questo fu il primo museo scientifico "interessato a mostrare e a dimostrare i fenomeni naturali e a far vedere strumenti funzionanti: si trattava in sostanza di un museo attivo, che mostrava fenomeni e non solo oggetti" (Cialdea 1986, p. 356). Nell'Ars magna lucis et umbrae (1646), l'opera kircheriana così importante per la preistoria del cinema ‒ dove sono anche descritte la camera oscura e la lanterna magica ‒, Kircher scrive: "Non ignoro che si possono fabbricare anche specchi magici nei quali possono essere mostrati simulacri di oggetti assenti come se fossero presenti, di genere simile senza dubbio a quello che Agrippa afferma di aver usato" (cit. in Ianniello 1986, p. 231).
È quello che succede non solo nel racconto di Scott, ma anche in Le château des Carpathes di Verne, quando, alla fine del romanzo, appare al protagonista Franz la donna amata, la cantante Stilla, ormai morta da anni. "Per mezzo di specchi inclinati secondo un certo angolo […] ‒ spiega Verne ‒ quando una forte luce illuminava il ritratto posto davanti a uno specchio, la Stilla appariva, per riflessione, "reale" come quando era nella pienezza della vita e in tutto lo splendore della sua bellezza" (trad. it. 1982, p. 146), collegando così il suo romanzo a uno dei più celebrati motivi delle 'fantasmagorie' di Robertson: l'apparizione della donna amata. Nel resoconto di queste rappresentazioni in un giornale dell'epoca, "L'esprit des Lois" del 1798, si può leggere, per es.: "un elegantissimo giovane chiede con insistenza l'apparizione di una donna da lui teneramente amata". Ed essa, puntualmente, appariva. "Spesso anche dei giovani venivano da me a chiedermi l'ombra delle loro amanti, delle mogli quelle dei loro mariti, dei giovani uomini soprattutto quella della loro madre", scrive Robertson nelle sue memorie (1831, p. 190).
Se questo motivo dell'apparizione della donna amata è presente in molta letteratura fantastica, esso ha un altro antecedente 'reale' illustre negli esperimenti di un personaggio famoso, che Robertson ricorda, sempre nei suoi Mémoires, come un vero e proprio maestro: il conte di Cagliostro, in alcuni tratti molto simile al Damiotti di Scott. Anche Cagliostro infatti soleva 'mostrare', a nobili e prelati, nel più religioso silenzio e immobilità, l'ombra della donna amata (Robertson 1831, pp. 190-93). Ma se gli spettacoli di Cagliostro e altri eventi di questo tipo rappresentano antecedenti 'reali', andando indietro nel tempo, in un tempo antico dove realtà, leggenda e mito si intrecciano senza soluzione di continuità, si trova il teatro d'ombre, nato forse in Cina o forse invece in India o a Giava o in Egitto. Qui però non interessa stabilire l'origine di questa embrionale e mirabilmente ingenua rappresentazione di 'immagini in movimento', bensì le connessioni che si possono instaurare con la leggenda più conosciuta che ne fonda l'origine. Tra il 2° e il 1° sec. a.C., raccontano le fonti, l'imperatore cinese Wudi fu colpito dalla perdita di Wang, la donna da lui amata. Proprio a quell'epoca, da una provincia orientale, arrivò alla corte un certo Schao-Wong che, per consolare l'imperatore, gli promise di far rivivere "ancora una volta Wang; e così fece, muovendo dietro una tela bianca, alla luce di una lampada, una sagoma di cuoio ritagliata. In tal modo l'imperatore poté rivedere l'ombra della sua amata e dialogare con lei per intere notti. La storia presenta poi, a seconda delle tradizioni, finali differenti. Ma, più che le diverse chiuse, ci piace sottolineare nella leggenda ‒ scrive D. Pesenti Campagnoni ‒ l'immediato rimando a una delle magiche funzioni attribuite di lì in poi alle "proiezioni luminose" e aprire uno scorcio sui nuovi orizzonti che essa avrebbe inevitabilmente aperto. Con l'apparizione dell'ombra di Wang si era infatti scoperta la possibilità di richiamare i morti in vita, di creare e fare agire spettri e fantasmi, evocandoli dal buio. Si mostrava in tal modo un mondo diverso, un mondo dove i sogni si trasformavano in realtà, dove nulla era impossibile e il desiderio di Wudi, apparentemente inappagabile, si poteva esaudire" (Pesenti Campagnoni 1995, p. 98). Questa notazione rimanda non solo agli esperimenti sull'apparizione della donna amata messi in atto da Robertson, ma anche a ciò che venne scritto il 30 dicembre 1895, in due articoli rimasti celebri, all'indomani della prima proiezione pubblica del Cinématographe dei fratelli Lumière. Nell'articolo apparso su "Le Radical" così si può leggere: "Già si poteva cogliere e riprodurre la parola, ora si coglie e si riproduce anche la vita. Si potrà, ad esempio, rivedere vivere i propri cari, molto tempo dopo averli perduti". Gli fa eco l'articolo apparso su "La Poste": "Quando questi apparecchi saranno disponibili al pubblico, quando chiunque potrà fotografare i propri cari non più in una forma immobile ma in movimento, cogliendone le azioni, i gesti familiari, le parole sulle labbra, allora la morte cesserà d'essere assoluta" (cit. in G.M. Lo Duca, M. Bessy, Lumière l'inventeur, 1948, pp. 47-48 e in N. Burch, La lucarne de l'infini. Naissance du langage cinématographique, 1991, trad. it. 1994, p. 31). Mentre G. Demenÿ, prima dell'invenzione del cinema, scriveva: "Quanti sarebbero felici se oggi potessero rivedere i tratti di una persona scomparsa" (cit. in Burch 1991; trad. it. 1994, p. 35).La volontà prometeica e demiurgica di ricreare la vita, la riflessione sul cinema come 'superamento della morte', hanno quindi origini molto antiche e si confondono con desideri, illusioni e fantasie che da sempre appartengono all'umanità, come testimoniano le ombre cinesi, le fantasmagorie di Cagliostro e di Robertson o i racconti fantastici dell'Ottocento. Ed è proprio Freud a sostenere, sempre in Das Unheimliche: "La biologia non è ancora riuscita a decidere se la morte sia il destino ineluttabile di ogni essere vivente o soltanto un caso che si verifica di norma, ma che forse potrebbe essere evitato. La proposizione: "Tutti gli uomini sono mortali" fa infatti bella mostra di sé nei trattati di logica come modello di asserzione universale, ma nessuno la considera tale e ora come in passato è estranea al nostro inconscio l'idea della nostra stessa mortalità" (trad. it. 1977, p. 103). E continua osservando che anche tutto ciò che ha "relazione con la morte", insieme all'animismo, alla magia, all'incantesimo, all'onnipotenza dei pensieri, alla ripetizione involontaria e al complesso di castrazione, viene considerato "perturbante". "E certo non mi stupirei ‒ prosegue Freud ‒ di sentir dire che la psicoanalisi, la quale mira a mettere in luce queste forze occulte, è diventata a cagione di ciò essa stessa perturbante per molte persone". È pienamente giustificato quindi sostenere che il cinema condivide con la psicoanalisi quelle caratteristiche che evocano e materializzano una serie di situazioni 'perturbanti' e che si possono sostanzialmente sintetizzare nella cancellazione dei confini tra realtà e finzione, tra verità e immaginazione, tra conoscenza e credenza.
In The chain of destiny di Stoker, il protagonista Frank, mentre sta dormendo, ha una visione che così descrive: "Guardai fuori dalla finestra che stava proprio di fronte ai piedi del letto e vidi un chiarore all'esterno, che divenne gradatamente più luminoso, fino a che la stanza non ne fu quasi rischiarata a giorno. La finestra sembrava un quadro, posto nella cornice formata dalla mantovana che pendeva al di sopra dei piedi del letto, e dalle pesanti colonne avvolte nei tendaggi che la sorreggevano" (trad. it. 1984, p. 27). Da questa finestra, descritta come un vero e proprio schermo, Frank vedrà apparire lo spettro del demonio, visione spaventosa che si ripeterà una seconda volta e di cui sarà spettatrice terrificata e immobilizzata Diana, la fanciulla amata da Frank. E a Frank, che non era riuscito a impedirle di rimanere sola nella stanza, non resta che entrarvi, "scagliarsi di corsa contro la finestra e cercare di svegliarla dallo stato di trance indotto dalla paura" (p. 88).
Davanti alla spettatrice in trance, all'innamorato non resta che infrangere lo schermo e far scomparire i demoni, come si infrange, nel romanzo di Verne, lo specchio che faceva apparire viva la Stilla, spezzato dal coltello del barone di Gortz, anch'egli, come Franz de Télek, perdutamente innamorato della bellissima cantante: "e fra mille schegge di vetro che schizzano per la sala, sparisce la Stilla […]" (trad. it. 1982, p. 140).
Anche per il racconto di Stoker, è possibile ricondurre l'invenzione romanzesca alla realtà degli esperimenti che si possono annoverare come preistoria del cinema, per es. le macchine ottiche di Kircher, il quale esibiva "davanti a stuoli di fedeli stupefatti, ma anche divertiti, spettacoli incredibili come quando, con uno specchio cilindrico, proietta in aria l'immagine di Gesù che ascende ai cieli, oppure servendosi di uno specchio concavo, di una lente iperbolica e della luce di una candela, proietta su un muro l'immagine del demonio" (Ianniello 1986, p. 231). "In questo modo ‒ scrive Kircher nell'Ars magna ‒ inscritta nello specchio la figura dell'empio demonio e trasmessa in un luogo oscuro può facilmente distogliere dalla perpetrazione dei mali" (cit. in Ianniello 1986, p. 231). E così avviene nel racconto di Stoker, come avverrà per le immagini di Diables e di Diableries, che adulti e bambini si affolleranno a guardare, ammirati, negli stereoscopi.
Quando Étienne-Jules Marey ‒ il più importante forse tra tutti i vari inventori delle tante macchine pre-cinematografiche, tra tutti "questi uomini posseduti dalla loro immaginazione" come li definisce Bazin ‒ si prefigge lo scopo di studiare i movimenti che l'occhio non può vedere, collega proprio scienza, magia e fantasia. "Il garantit du jamais vu", che non si era mai visto prima, scrive Jérôme Prieur a proposito delle séances fantasmagoriques di Robertson (1985, p. 14). Nel cinema prima del cinema ‒ prefigurato in tutti questi racconti ‒ si vede allora ciò che altrimenti non si sarebbe mai potuto vedere e che supera ogni possibile realtà: la visione della propria vita futura per Constance, una scena della vita del marito lontano per lady Forester, lo spettro del demonio per Frank e Diana, l'apparizione della donna amata, morta da anni, per Franz de Télek in Le château des Carpathes, e infine l'immagine di una 'graziosissima' ballerina che danza e canta, anch'essa morta da tempo, per lord Ewald, il protagonista, insieme allo scienziato Edison, del romanzo più famoso e più citato tra quelli che precorrono fantasiosamente l'avvento del cinema, Ève future di Villiers de L'Isle-Adam. Si potrebbe anzi osservare, a proposito di questi due romanzi già così vicini alla prima proiezione pubblica del cinematografo Lumière, che in entrambi la prefigurazione e l'anticipazione della nascita del cinema avvengono, nella fantasia dei due scrittori, per il desiderio maschile di immortalare e catturare la bellezza del corpo femminile. E quale può essere questo bellissimo corpo di donna perduto, morto e irrimediabilmente lontano, che tanto si desidera possedere, se non quello della madre? "Perché spesso sogno di lei (anzi, non sogno che di lei), ma non è mai lei" scrive Roland Barthes, parlando della madre (La chambre claire, 1980, p. 68).
Nel filo rosso che coglie in un'unica continuità una linea interpretativa che inizia dal teatro d'ombre e da Platone per arrivare a Villiers de L'Isle-Adam, l'invenzione del cinema si può collegare sempre alla realizzazione dello stesso desiderio, al risarcimento della stessa perdita, quello di ritornare alla simbiosi con il corpo materno. "Credo che gran parte della concezione mitologica del mondo […] non sia altro che psicologia proiettata sul mondo esterno" osservava Freud (1904; trad. it. 1970, 4° vol., p. 279); e non vi è dubbio che, dalla caverna di Platone ai racconti fantastici dell'Ottocento, di 'mitologia' si tratti.
La differenza sostanziale tra i primi tre racconti, che appartengono al genere gotico, ed Ève future e Le château des Carpathes, che sono invece due romanzi fantastico-fantascientifici, è che negli ultimi due l'idea del cinema inizia veramente a diventare un fenomeno reale con tutto il suo apparato tecnologico, come d'altronde era nell'aria dei tempi. Nel romanzo di Verne, per es., è descritto quello che si potrebbe considerare un prototipo di sala cinematografica: "[…] un vasto salone […] alle finestre pendevano tende spesse che non lasciavano passare la luce esterna, sull'impiantito era steso un alto tappeto di lana che smorzava il rumore dei passi […]. A sinistra un palco coperto da stoffe nere era illuminato da una luce potente con un qualche apparecchio collocato davanti a esso, ma in modo da non essere visto" (1982, p. 137), descrizione che riporta a un luogo che sta a metà tra l'appartamento di Damiotti e il salone degli spettacoli di Robertson mentre in Ève future si dispiega davanti allo sguardo del sempre più attonito lord Ewald un prezioso "grande schermo bianco", dove appariranno "a grandezza naturale", le sembianze "di una graziosissima e giovanissima donna dai capelli rossi" (trad. it. 1966, p. 141). E non vi sono solo la sala cinematografica, lo schermo e degli spettatori immobili e silenziosi, o rapiti e in stato di trance, c'è anche la descrizione, in questi due ultimi romanzi, di un vero e proprio apparato tecnico che conserva e riproduce 'immagini in movimento'. La modernità, infatti, di Ève future e di Le château des Carpathes, rispetto ai tre racconti precedenti, sta proprio nello svelare come questi fenomeni che all'occhio dello spettatore possono sembrare magici e straordinari, siano scientificamente comprensibili. Per es. Verne alla fine del suo romanzo scrive: "Era un semplice artificio di ottica […] e quella che sembrava una donna vera era solo un ritratto" (p. 146); mentre l'inventore Edison, nel romanzo di Villiers de L'Isle-Adam, spiega con grande puntigliosità e dovizia di particolari tutti i fenomeni che si rivelano via via alla 'muta meraviglia' dell'amico lord Ewald.Erano ormai esauriti i tempi in cui la pratica reale si accostava al fantastico, come era accaduto all'inizio del Settecento nel dizionario francese del Richelet, dove la lanterna magica era definita "una piccola macchina che serve a far vedere al buio su un muro bianco differenti spettri e mostri spaventosi di modo che coloro che non ne conoscono il segreto credono che ciò sia fatto per arte magica" (cit. in P. Bracquemond, Les lanternes magiques, in "La cinémathèque française", 1927, 6). Scambiando, così, la 'forma' delle immagini ‒ spettri e mostri spaventosi ‒ per la sostanza dell'invenzione. Questi romanzi non sono altro che la 'messa in racconto' degli spunti fantastici originati dagli esperimenti di catottrica e diottrica affrontati fin dai tempi di Ruggero Bacone e più tardi da Della Porta e da Kircher. Rispetto alla sala cinematografica reale la specificità romanzesca e fantastica nel descrivere il luogo dello spettacolo e della visione consiste nella caratteristica comune di luogo inaccessibile, pericoloso, solitario, segreto o proibito. La casa di Edison è posta al "centro di una rete di fili elettrici e circondata da profondi giardini solitari", il castello di Verne è non solo inaccessibile ma respinge qualsiasi presenza estranea, sul 'giaciglio di santa Caterina' si rischia la morte, l'appartamento di Damiotti è un luogo 'proibito' e nella camera da letto di Diana è in agguato il demonio. Inoltre il romanzesco e il fantastico non stanno tanto nel 'modello formale', per es. l'evocazione di persone care, la messa in scena sinistra e paurosa, l'apparizione di immagini in movimento, quanto nel contenuto delle visioni, che vanno molto al di là dei riferimenti e delle pratiche reali e anticipano, grazie al fatto che raccontano delle vere e proprie 'storie', non tanto e non solo la nascita del cinema, ma la storia del cinema e i suoi film.Dopo aver frequentato le sale dei principi (con le casse catottriche, i giochi di vetri e di specchi o i 'Plaisirs du soir' alla corte di Philippe d'Orléans) e dopo aver riempito di incanto le camere dei bambini (con la lanterna magica, il fenachistoscopio e lo stereoscopio, come ricordano Ch. Baudelaire, La morale du joujou in "Le monde littéraire", 1853, e M. Proust nella Recherche) il cinema, da luogo chiuso, privato, segreto e inaccessibile uscirà 'all'aperto', diventerà ambulante, pubblico e popolare. Allora da magia diventerà realtà, diventerà il cinema nella forma universalmente conosciuta.
Come 'fantasia irreale', come luogo inesistente ‒ in un interregno che i manuali di psichiatria pongono tra la seconda parte dell'Ottocento e i primi del secolo successivo ‒ il cinema è invece prefigurato nelle allucinazioni degli schizofrenici e dei paranoici, cioè nella visione delirante della cosiddetta macchina influenzante, descritta in un saggio di Victor Tausk del 1919, ma già nota nell'Ottocento e già studiata, per es., dallo psichiatra Pierre Janet.La 'macchina influenzante' o Beeinflussungsapparat, come suona nel termine tedesco, è una specie di macchina magica o mistica da cui i malati mentali avevano l'illusione di essere influenzati e perseguitati; è, quindi, un prodotto del delirio di persecuzione. Nella sua forma tipica, essa aveva le caratteristiche di una 'macchina complicata' i cui ingranaggi e il cui funzionamento sono incomprensibili e oscuri allo stesso malato. Ma a un determinato stadio dello sviluppo del sintomo, la 'macchina influenzante' può assumere la forma di una lanterna magica o di un cinematografo. Scrive esattamente Tausk: "Fa vedere delle immagini. In tale caso è in genere una lanterna magica o un cinematografo. Le immagini vengono viste su un piano, sulle pareti o sui vetri delle finestre, e non sono tridimensionali come le allucinazioni visive tipiche" (1919; trad. it. 1972, pp. 58-59). Questo nesso tra il cinema e la 'macchina influenzante' fa supporre l'esistenza di corrispondenze più profonde tra i due dispositivi e la conseguente possibilità di verificare alcune interpretazioni che del rapporto schermo-spettatore sono state date. Se per alcune caratteristiche essenziali il cinema viene apparentato al sogno, in questo caso si passa dal sogno al delirio, un delirio che ha a che fare con l'immagine del proprio corpo. Grazie al lavoro con alcuni malati, infatti, Tausk scopre che a un determinato stadio evolutivo (se anteriore o posteriore a quello in cui la 'macchina influenzante' è una lanterna magica, non lo dice) la macchina è la proiezione, nel mondo esterno, del corpo del malato. "La proiezione del proprio corpo sarebbe dunque da ricondurre ‒ scrive Tausk ‒ a uno stadio evolutivo in cui era il proprio corpo la meta della ricerca oggettuale. Questo dev'essere il periodo in cui il lattante scopre, pezzo per pezzo, il proprio corpo come mondo esterno, in cui cerca di toccare le proprie mani e i propri piedi come se fossero oggetti estranei. Queste disjecta membra vengono poi riunite in un tutto omogeneo, che sta sotto il controllo di un'unità psichica, a cui affluiscono tutte le sensazioni di piacere e di dispiacere: vengono riunite in un Io. Tale processo avviene mediante l'identificazione con il proprio corpo. L'Io, così scoperto, viene investito con la libido disponibile; relativamente allo psichismo dell'Io si sviluppa il narcisismo; relativamente ai singoli organi come fonti di piacere, si sviluppa l'autoerotismo" (pp. 78-79).
Secondo l'interpretazione di Tausk, quindi, nel rapporto delirante con la 'macchina influenzante', il malato rivive patologicamente quella fase della formazione immaginaria dell'Io che Jacques Lacan avrebbe più tardi definito stadio dello specchio e che, secondo quanto hanno osservato Baudry (1978) e Christian Metz (1977), lo spettatore riattiva artificialmente nel rapporto con lo schermo. L'analogia tra il dispositivo cinematografico e la 'macchina influenzante', testimoniata dal fatto che, a un suo stadio di sviluppo, la 'macchina' assume la forma di una lanterna magica o di un cinematografo (cioè di un proiettore) e le immagini che il malato vede non sono "tridimensionali come le allucinazioni visive tipiche" ma bidimensionali, come al cinema, riguarda, conseguentemente, anche il rapporto tra schermo e spettatore (v. le voci dispositivo cinematografico e psicoanalisi).
Ma non solo: la formazione delirante della 'macchina' indica che vi è stato uno scacco, una patologia nella formazione dell'Io, che lo stadio dello specchio ha subito un arresto o un disturbo nel processo di differenziazione tra il soggetto e l'oggetto, tra l'Io e l'altro e che vi è quindi, nel malato, una regressione allo stadio narcisistico primario. Il corpo che il malato proietta è infatti, secondo Tausk, simile a quello, 'perverso polimorfo', del lattante, la cui sessualità è diffusa in tutte le sue membra e le cui mete sono autoerotiche. Tale regressione corrisponde non solo alla perdita dei confini dell'Io, ma anche allo stato nel quale le percezioni non si distinguono dalle rappresentazioni e quindi alla situazione del lattante, se non addirittura del feto dentro il grembo materno. Perché nello scacco, nella patologia subita dalla formazione dell'Io vi è la delusione 'paranoide' provocata dal trauma della nascita, sostiene sempre Tausk. Questo è in conclusione la 'macchina influenzante': ancora una volta un risarcimento, in questo caso 'delirante' per la fine ‒ insopportabilmente deludente ‒ di quello che Lacan chiama, con bellissima espressione, "l'impero del corpo materno".
Se la 'macchina influenzante' è la formazione patologica, delirante e regressiva causata dalla 'delusione' per la separazione dal corpo materno, il cinema allora ne sarebbe la formazione artificiale e meccanica, ludica e consolatoria. Secondo Baudry "la lunga storia dell'invenzione del cinema" è influenzata dal desiderio, da parte dell'uomo, di "fabbricare una macchina simulatrice capace di proporre al soggetto delle percezioni che hanno il carattere di rappresentazioni prese per delle percezioni" (1978, p. 47), come, appunto, la 'macchina influenzante' descritta da Tausk.
E qui il cerchio si chiude. Tra il dispositivo mitico, la caverna platonica; il dispositivo fantastico, quello dei racconti e romanzi dell'Ottocento; il dispositivo delirante, la 'macchina influenzante'; e il dispositivo cinematografico, che assomma, rivela e interpreta gli altri, corre il filo della stessa simulazione, dello stesso delirio allucinatorio, infine dello stesso sogno, quello di riattivare il tipo di appagamento e la situazione di fusione e di abbandono idealmente espressi dallo stato natale e prenatale.
A questo punto si possono trarre alcune conclusioni che riprendono lo spunto iniziale e legittimare l'interpretazione che vede nel cinema il risultato ‒ tecnicamente e storicamente dato ‒ di una lunga catena di idee, di spettacoli, di situazioni magiche, religiose e fantastiche, oltre che lo sviluppo della ricerca ottica, chimica e fisica. Dall'allucinazione liberatrice dei misteri orfici alla 'macchina influenzante' descritta dallo psicoanalista Tausk, che avvicina gli schizofrenici dell'inizio del 20° sec. ai 'divinatori' dei misteri e degli oracoli di Apollo, passando attraverso il mito della caverna e i racconti fantastici della letteratura, il cinema si configura come la soluzione di un enigma, cioè la formulazione di un'impossibilità razionale ‒ riprodurre la realtà in modo tale che sembri la realtà stessa ‒ che ha espresso tuttavia, alla fine, un oggetto reale, moderno e tecnologico. Ma questo oggetto si trascina dietro qualcosa del sogno e del mito che è stato per millenni: "Le primitive credenze relative alle opposizioni fra animato e inanimato, fra mortalità e al di là della morte ecc. ‒ scrive Francesco Orlando, facendo riferimento alle considerazioni freudiane di Das Unheimliche ‒ non sono mai state dimenticate e tanto meno rimosse lungo l'evoluzione individuale da bambino ad adulto, come non lo sono state lungo l'evoluzione sociale dalla magia animistica alla civiltà scientifica: sono state piuttosto 'superate'" (1982, p. 16).Il cinema come 'ritorno del superato', già tutto definito tra lo stadio archetipico del mito della caverna e lo stadio regressivo della 'macchina influenzante', è la faccia magica, arcaica e primitiva di un dispositivo che apparentemente mette in luce, davanti ai suoi spettatori, solo la faccia delle meraviglie moderne e tecnologiche.
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