Percorsi introduttivi - Il cinema e il Novecento
Il cinema e il Novecento
Corre una singolare fatalità fra l'invenzione dei fratelli Lumière e l'alba del cosiddetto secolo breve. Il cinema ha forse inventato il Novecento: o è stato il Novecento a inventare il cinema? In modo più corretto la domanda dovrebbe essere posta così: quale è stato il rapporto fra l'immaginario di un secolo complesso come il 20° e una forma d'arte il cui sviluppo si è incollato allo stesso secolo in modo tenace, decisivo? Grande macchina divulgatrice, il cinema ha diffuso le più sofisticate conquiste speculative del proprio tempo, non perché si sia nutrito di esse con intenzione, ma perché si è trovato naturalmente adeguato a esse, anche confuso in esse. L'invenzione del cinema sembra contenere nel proprio grembo, quasi con i segni di un oroscopo, il Novecento nell'intera sua complessità: bisogni, azzardi, sogni, paure, profezie. Il cinema è poi l'unica arte ‒ e lo è, considerati pure i tanti dubbi sollevati al suo stesso interno e i tanti attacchi di cui venne fatta immediatamente bersaglio ‒, è l'unica arte a essere stata seguita alla nascita e poi nelle sue trasformazioni e successi da testimoni la cui voce abbiamo ascoltato viva fino a qualche anno fa. Non è però soltanto una coincidenza di date fra Novecento e cinema a provocare l'interrogativo formulato: la risposta non si esaurisce soltanto nell'allineare scadenze temporali e alcuni eventi particolari. Fra il cinema e il secolo della fisica dei quanta ‒ ce ne accorgiamo oggi ‒ si intrecciarono subito modi di intesa fruttuosi. Quell'arte nasceva con caratteri comuni a molte altre avventure intellettuali per il tempo che si apriva. Alla scoperta della macchina da presa non si arrivò per una infuocata urgenza espressiva. Fu un'invenzione tecnologica a promuovere prodotti il cui imprevisto carattere dette poi luogo a un'arte nuova. Ma questa priorità, della tecnologia su tutto, e la casualità conseguente, appartengono in modo peculiare al profilo del Novecento ‒ e sono il risultato della lunga riflessione positivista sulla finalità delle scienze; risultato anche della crisi di quella riflessione, con lo sganciamento naturale della concezione del fare, o della pratica, dalla metafisica. Il cinema procurò anzitutto piacere, un modesto piacere, nel seguire sulle immagini fotografate e dinamicizzate, sui fotogrammi, momenti catturati alla realtà; quindi riflessi sulla superficie bianca dello schermo in un ambiente al buio. I primi cinetoscopi ‒ attivi dal 1894 ‒ proiettavano cavalli o treni in corsa, scene di strada, gare sportive. Si ampliò quell'aspetto del moderno che poi fu siglato come 'riproduzione tecnica della realtà', un'ambizione che non si è stretta nei confini specifici del cinema, ma è dilagata lungo i decenni, affascinando e inquietando, fino a insidiare la genetica, a disegnare proposte di plausibili intelligenze artificiali e così via.
I cinetoscopi proiettavano veri e propri prodotti di un'arte popolare, che però, contrariamente a quelli, per es., della letteratura così definita dagli storici, non avevano alcun rapporto di derivazione e corruzione con l'arte colta: mancava a essi dapprincipio un qualche definibile e sicuro precedente di cultura, modelli linguistici da sfruttare o altro di simile. L'unico precedente era l'occhio, la curiosità oculare, che guarda la realtà e tende a catturarla e a memorizzarla. La fotografia fu un precedente, ma le mancava il movimento, il dirompente elemento nuovo che è del cinema, un salto qualitativo imponderabile, decisivo. Quella cattura, quella memorizzazione, la macchina da presa riu-scì a renderla tangibile con lo stratagemma di obliterarne il carattere illusorio e soggettivo. D'altra parte, la sua concretezza non è semplice metterla in questione.
Fu dunque la cronaca quotidiana il contenuto delle prime pellicole. E la testimonianza dei fatti si rivelò per l'intero secolo un assillo, un'urgente necessità di comunicazione e rappresentazione, assai più pressante di quanto non fosse stata fino ad allora la cura con cui cronisti e storici si erano dedicati a testimoniare avvenimenti attraverso la parola scritta. Sembrò, la macchina da presa, lo strumento inedito e insostituibile per avere certezza dell'accadere: e, d'improvviso, soddisfece così un'esigenza diffusa inventando sia il modo per ottenerla sia gli stessi contenuti soddisfacenti. In questo stratagemma di partenza il cinema fu insieme il prodotto e il promotore del secolo che si apriva.
Al suo esordio, perciò, la macchina da presa fu mezzo per la semplice registrazione e replica di quanto si muoveva davanti a essa ‒ un modo di divertimento popolare, anche ingenuo, un divertimento per le menti semplici. La sofisticatezza di quel mezzo seppe da subito affascinare gli occhi di chi nel guardare non desiderava altro che sottrarsi agli sforzi dialettici del pensiero. Furono occasioni di comicità ‒ il giardiniere che deve annaffiare il giardino e invece non doma la forza compressa nel tubo di gomma e annaffia sé stesso ‒ a guadagnare il favore di un pubblico sedotto soltanto dalla ripetizione del movimento di un movimento come fosse un puro fenomeno da baraccone. Il dispositivo che si metteva in moto era di per sé invece, nella sua semplicità, più che sofisticato: sfruttava la sorpresa di chi inconsapevole cade in una trappola sotto gli occhi consapevoli di chi lo osserva. Gli spettatori ridevano ‒ il giardiniere era zuppo d'acqua ‒ e il gioco era fatto. Il dato realistico, attuale della beffa cristallizzava il mito dell'illusione cinematografica. Ma cristallizzava anche il mito della conoscenza di secondo grado, lo stratagemma dell'autoriferimento che è stato ambizione filosofica ed espressiva di tutto il 20° secolo. L'intreccio fra filosofia e cinema, nel corso dei decenni, si sarebbe fatto sempre più stretto e stimolante. E fu subito difficile per chi avesse dimestichezza con la storia del pensiero occidentale sottrarsi al parallelo tra la buia sala di proiezione e la caverna di Platone. La sala sembrò la realizzazione di quel magico luogo di rituali riconoscimenti dove immagini su schermo, per un riflesso luminoso proveniente dal fondo, provocano in chi le segue l'emersione di memorie dimenticate o di bisogni rimossi. Ma non soltanto. Si costituiva anche un immaginario mondo che materializzava i simboli della rugosa esistenza, di segrete vicende soggettive, intraviste quasi nell'alone di un sogno, e incubi e desideri, presagi persino. In quegli stessi anni, S. Freud andava indagando il cinema dell'inconscia interiorità umana proiettandone all'esterno, come intoppi o deviazioni del comportamento, segni antichi e drammaticamente riconoscibili, esorcizzabili. La psicoanalisi ebbe un grande futuro nella conoscenza dei meccanismi interiori di un film.Intanto nei cinetoscopi si andò arricchendo un'avventura dalla dinamica imprevedibile, dapprincipio legata a occasioni che avevano aspetti futilmente comici, su misura per frequentatori di luna park, neanche bambini ma sfaccendati d'ogni risma, servette e soldati in libera uscita, qualche pensionato, qualche gigolò: nessuno insomma che potesse essere additato come un appassionato d'arte. Quando vennero girati poi i primi film narrativi ‒ su questo la testimonianza è ricca ‒ i fotografi che vi si impegnavano reclutarono gli interpreti non fra gli attori professionisti ma tra i frequentatori di bar e trattorie di second'ordine, gente di strada che non aveva di meglio da fare e che veniva invitata a fingere questo o quel gesto davanti alla camera. E i locali dove questi arcaici corti drammatizzanti venivano proiettati avevano tutt'altro che una buona fama. E. Panofsky ricorda che nel 1905 in tutta Berlino c'era un solo Kino il cui nome era The meeting room, l'uso dell'inglese velava per esotismo una precisa finalità: la sala era luogo d'incontri per spettatori in cerca di occasionale compagnia, per sfruttare furtive esigenze erotiche, da consumarsi preferibilmente in anonimato e al buio. Ma anche questo carattere, prodotto e sintomo della società di massa e metropolitana, è specifico della significativa marginalità di comportamenti che il secolo ha assaporato e osservato in sé stesso con scrupolo analitico, quasi un diritto da sottolineare come un valore. Insomma, nato come appendice losca di un luna park, il cinema prefigurò subito il proprio trionfale avvenire: si è offerto, alla sua stessa nascita, come epitome decisiva della modernità.
Nasce dunque il cinema come una forma di cultura popolare e urbana sul finire del 19° secolo. Difatti, affermare con Wim Wenders che cinema e metropoli sono diventati adulti insieme significa sia sottolineare quanto quelle prime salette fossero buie ed equivoche ‒ ancora negli anni Quaranta Sandro Penna poteva scrivere in versi di un eros che trova "il suo angioletto" in una "losca platea" ‒, sia ribadire il peso sociale che il cinema ha avuto per la civiltà del 20° sec., proprio a partire dal suo essere un particolarissimo luogo, una meeting room, per svilupparsi come momento aggregante per più vaste simbologie. Il cinema è stato ed è la lingua franca del mondo; e barriere, muri ideologici e politici sono stati dalla sua forza sfondati con la mano inafferrabile ed eversiva dell'arte ‒ di un'arte però il cui connotato pretese d'essere immediatamente non un privilegio per pochi ma un evento, come è caratteristica della vita metropolitana, che riguarda tutti, senza differenze di ceto, e che tutti raccoglie nel proprio grembo con una capacità persuasiva insieme semplice, elementare e ardita per un'occasione complessa e tanto oscura quanto lo è la sala buia dove si svolge.Il cinema si affacciò alla vita urbana quando la smania di inventariare l'esistente attraverso il romanzo, così come l'aveva conosciuta il 19° sec., stava andando in crisi. La forma scandita per capitoli, impaginata fra i margini bianchi di volumi per lo più rilegati, si sgretolava per esigenze che i contorni della grammatica e della sintassi sembravano non contenere più. Lo strumento della poesia non era più quello che i classici del romanticismo avevano conosciuto e divulgato. Un diverso senso della realtà psicologica sembrava mandare in frantumi le forme consolidate della retorica. In parallelo la caratura prospettica del disegno che i pittori avevano ricercato con passione costante per secoli come necessario telaio al condensarsi dei colori si liquefece sulle tele degli impressionisti; e la ricerca di nuove grammatiche, di nuove sintassi attuate, all'alba del nuovo secolo, da quel manipolo di giovani che sulla mappa d'Europa presero poi il nome di cubisti, suprematisti, futuristi, surrealisti ecc., rivelò soluzioni inedite e certamente non facili da assimilare dalle masse. Le nostre percezioni, si scoprì, dovevano essere organizzate non più in schemi lineari e monistici, poiché questi ne distorcevano e riducevano la fluidità e la mobilità, ne avvilivano la ricchezza derivata dalla fonte da cui ricevevano materia, nutrimento continuo: quella fonte è il profondo della coscienza, l'inconscio. La filosofia metteva in questione il nesso fra causa ed effetto. Quel nesso, lo aveva già dichiarato I. Kant, non era che una mera struttura della mente, un modo d'organizzazione logica per i dati conoscitivi: tutt'altro che un fatto che la scienza sperimentale poteva verificare. Anzi, la scienza su questo andava in aperto e rivoluzionario soccorso, il relativismo trionfava. L'univocità dei rapporti causali era il risultato di un'arrugginita attrezzeria filosofica. La stessa unità dell'Io, a specchio di questo, naufragava, ed essa apparve, come dettò poi L. Pirandello, 'uno, nessuno e centomila'. La materia della mente si intrecciava con la sua stessa memoria ‒ anzi, era proprio la memoria a rappresentare della mente il contenuto materiale più efficace e determinante, e le percezioni potevano acquistare senso soltanto nell'esercizio, anche inconsapevole, della memoria. H. Bergson di tutto questo trovò la cifra persuasiva, mentre M. Proust ne lasciò lievitare il significato in un romanzo dalla struttura vasta quanto una cattedrale. Di tanto travaglio espressivo e filosofico ‒ per cui smottava un sistema di comunicazione che la civiltà occidentale aveva lasciato sedimentare a tempi lunghi e severi, e che era stata capace di integrare su registri coinvolgenti la scala sociale nell'intera sua vasta articolazione ‒ il cinema fu il catalizzatore e l'immediato risolutore instaurando e divulgando un nuovo sistema di comunicazione fondato su rapporti intellettivi del tutto nuovi. Ai nessi causali si sostituì l'associazionismo delle immagini, un'articolazione fisica e temporale dentro cui diversi tasselli, incollati l'uno all'altro, creano un montaggio di informazione e conoscenza certamente provvisorio, anche privato, ma che accortamente, artigianalmente istruito, presenta una possibilità oggettiva di comunicazione che scavalca ogni differenza di cultura e di lingua negli spettatori. Fu questo il cinema come lingua franca del secolo, sistema espressivo che ha metabolizzato la complessità della crisi dei diversi linguaggi d'arte, offrendo una soluzione mai fissa, comunque aderente a un mondo che della provvisorietà e del consumo ha fatto il proprio marchio decisivo.V.V. Majakovskij, con il suo genio insaziabile e dirompente, disse che il cinema per lui rappresentava "una concezione del mondo". Il miglior cinema russo che gli era contemporaneo fece del montaggio e del sistema associazionistico che ne derivava uno strumento esemplare da cui l'intero cinema mondiale ha tratto forza sia espressiva sia comunicativa. Per il poeta di La nuvola in calzoni, quelle parole significavano non solo che il cinema, come anche disse, era l'arma per distruggere l'estetica tradizionale, ma che in esso si rivelava uno slancio che oltrepassava il solitario gustare una poesia, atto ordinario e consueto di un qualunque lettore. Il cinema costruiva un diverso, imprevisto modo di stare al mondo, eccezionale rispetto a forme di espressione che potevano sembrare contigue come il romanzo, il teatro, la pittura. Il buio in sala ricreava la solitudine del lettore, del tutto diversa da quella dello spettatore di teatro; in più, rispetto a un quadro e a un romanzo, il cinema prospettava, con le sue suggestioni anche 'losche', una successione temporale di eventi costruiti perché l'immaginazione si esercitasse in parallelo, e lo spettatore, solo pure tra la folla della sala, ravvisasse l'ombra dei propri sogni, delle proprie ossessioni e insieme urgenze morali o immorali, rispecchiate sullo schermo con la plastica evidenza d'una concreta realtà. Eppure, indipendentemente da tutte le differenze che si possono riscontrare fra le varie cinematografie sorte in ogni angolo del pianeta, ciascuna con le proprie specifiche caratteristiche di stile, contenuti drammatici e materia visiva, il cinema ha costituito appunto un linguaggio generale o globale, un telaio dei sentimenti dove i più si sono riconosciuti. Il cinema è veramente stato, come Béla Balász pensava, uno dei più utili strumenti alla diffusione da un continente all'altro di una comune idea dell'uomo a scorno delle tante guerre e delle tragedie derivate. Questa diffusione è legata a immagini di volti e gesti che restano nella memoria degli spettatori al modo di un culto; come anche alla replica di intrecci e di patetici scioglimenti dei medesimi, a generi che parallelamente ‒ il melodramma, l'avventura, la commedia, il thriller e così via ‒ procedono e trasudano gli uni negli altri, così che in essi la vita sembra riflettersi e costituirsi, guardarsi, divorarsi, incenerirsi, e risorgere integra nella sua trascinante energia. La mimica gestuale ed espressiva doveva essere tale da rendersi comprensibile a chi possedeva cultura e a chi no, a chi era abbiente e a chi non aveva azioni in borsa e neppure conti in banca, qualsiasi lingua o dialetto parlasse; ma doveva intendersi allo stesso modo a New York a Tokyo a Roma e in Siberia, come in Persia in Patagonia in Alaska. Ma, prima che si arrivasse a tanto, facendosi robuste le basi materiali della produzione e della distribuzione dei prodotti, si definì alle origini di questa singolarissima vicenda una polarità di intenti che avrebbe poi nutrito una storia articolata, vivace: da un lato il cinematografo della realtà, la camera fissa che coglieva l'accadere, secondo il criterio ottico dei Lumière; dall'altro la camera davanti alla quale la realtà da cogliere era pura invenzione della fantasia, esca per quel viaggio onirico nelle oscurità della coscienza, o della sala, che Georges Méliès previde ‒ un movimento insomma che si dischiudeva al racconto. Quanto a tempestività creativa riguardo al narrare, non va dimenticato che il primo film 'd'azione', The great train robbery (L'assalto al treno) di Edwin S. Porter, porta la data del 1903.
Questa narratività nascente, a mezza strada fra romanzo e teatro, suscitò alcuni problemi tecnici e di linguaggio. Su un palcoscenico si dà una visione coerente, e un tempo piano e sintetico su cui l'occhio e la sagacia intellettiva dello spettatore si mettono in asse. Sullo schermo non è così: una stessa scena può scorrere frantumata in dettagli, per primi piani e campi lunghi; e seppure si fa uso del cosiddetto piano-sequenza nella cui cornice un'intera azione può essere racchiusa, il movimento della camera o la stessa sua fissità siglano un tempo diverso rispetto a quello dello spettatore. Fra schermo e platea i piani temporali vanno in parallelo ma non sono identici. Sullo schermo avviene un costituirsi autonomo del tempo, mentre in sala si sviluppa l'alienarsi percettivo di quello in cui essa è immersa. Fu il montaggio, per la certezza che i materiali catturati dalla camera dovessero essere allineati secondo un senso, a inventare perciò la lingua dello schermo, a diffondere impalpabilmente quell'esperanto e quel prodotto espressivo la cui tecnica avrebbe influenzato così profondamente il comportamento, i valori, i processi mentali dell'intera umanità nel corso del Novecento. Così come si affermò il principio per cui in un film si potessero usare procedimenti narrativi abbondantemente saccheggiati dal teatro e dalla letteratura, si comprese subito che il teatro filmato avrebbe frenato e avvilito le possibilità spettacolari del cinema; e si fece strada l'idea che il mezzo poteva essere suscettibile di una sperimentazione che ne sottolineasse l'autonomia da ogni altra forma espressiva ‒ fossero pure, appunto, teatro o romanzo. Furono da un lato scrittori d'avanguardia, i dada e i surrealisti, ad avventurarsi su questo sentiero; dall'altro, qualche regista affascinato dai coevi azzardi letterari, svincolato dalla tradizione naturalista, come il giovane Sergej M. Ejzenštejn, percepì immediatamente di quale forza espressiva potesse caricarsi un'immagine, un fotogramma legato a quello successivo secondo la logica della disparità, della contiguità emotiva e della non coerenza fattuale o causale. Ejzenštejn arrivò a questa intuizione sul filo delle conquiste della poesia russa, e anche della musica russa partorita dal grembo del simbolismo fra Otto e Novecento. Conta però non imbrigliare quella sua intuizione nella rete delle ascendenze culturali, ma considerarne la novità linguistica, in sintonia con quanto altri registi dalla storia intellettuale del tutto differente, per es. David W. Griffith il creatore della grammatica narrativa cinematografica, poterono accertare e guadagnare per proprio conto. I fratelli Lumière avevano portato l'occhio umano a fissare la quarta dimensione attraverso la soppressione dello spazio e del tempo reali e attraverso la cattura mentale della simultaneità d'azione. Ma questa virtuale, logica simultaneità fu proprio il montaggio a offrirla come semplice modalità comunicativa; cosicché un fotogramma, incollato al successivo, acquistava significato soltanto dall'insieme del processo e, anche se isolato, il senso andava comunque recuperato all'interno della sua collocazione. Proprio come le parole, sosteneva L. Wittgenstein in Philosophische Untersuchungen, hanno significato non perché trovano verità in un referente a esse esterno ma per il 'gioco linguistico' in cui sono situate, altrettanto le diverse parole di un film, quanti sono i suoi fotogrammi, creano discorso non per una realtà a esse esterna ma per la realtà autonoma del loro insieme, che è funzione della loro verità. Impariamo le parole 'da certi contesti', ci ha insegnato Wittgenstein: e il suo insegnamento è rapidamente diventato senso comune. È nel contesto del montaggio e del film che un fotogramma acquista la valenza significante di una parola, mentre fuori di quel contesto il suo significato svanisce. Quindi il cinema costituisce l'epitome e lo specchio delle conquiste conoscitive più sottilmente dirompenti che il secolo abbia elaborato ‒ anche per quel che riguarda la cosiddetta rivoluzione del linguaggio, la tendenza a ritenere quanto la creazione umana della parola abbia solo verifiche interne, frutto di un'esperienza mediatrice con il mondo, e tale da costituirlo. Il cinema, divorando realtà e trasformandola in espressione, ha creato dunque serie di immagini che si sono sovrapposte alla normalità del tempo vissuto ‒ ha creato cioè un 'tempo secondo'; e in questo 'tempo secondo' lo spettatore si è trovato a vivere un'altra esistenza altrettanto reale della sua prima.
Parallelo discorso si può fare per quel che riguarda lo spazio. L'esperienza del fotografo californiano E. Muybridge che fotografava negli anni Settanta e Ottanta del secolo 19° animali e atleti in movimento, stampando fotogrammi singoli su fondo centimetrato, aveva acceso grande interesse fra alcuni artisti e pittori. A Parigi, per es., J. Meissonier mise in mostra quelle lastre nel proprio studio sul finire del 1881 presentandone l'autore a un gruppo scelto di amici, fra cui A. Dumas figlio. Voleva se ne discutesse la potenzialità visibilistica. L'opportunità di cogliere il movimento, fissarlo in immagini secondo la successione spazio-temporale appassionava i talenti più diversi. Sappiamo quanto gli atleti nudi colti da Muybrigde in sequenza di scatti fotografici abbiano, per es., suggestionato, passato il tempo, l'immaginazione di un pittore come F. Bacon. Ma già all'inizio del Novecento, unisona al cinema, la pittura puntò di frequente a mettere su tela la parcellizzazione retinica di una singola immagine. Così, il simultaneismo, l'asistematicità analogica delle sperimentazioni letterarie di quegli anni, si nutrivano senza sosta di cinema. Il cinema più corsivo, più arreso a un'ovvia comunicatività suggeriva, nonostante tutto, un'arditezza inventiva che non aveva precedenti. La riprova si trova in La cinematografia futurista, manifesto firmato da Filippo Tommaso Marinetti, Bruno Corra, Enrico Settimelli, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla e Remo Chiti l'11 settembre 1916. Vi si legge che il libro è "un mezzo assolutamente passatista di conservare e comunicare il pensiero", mentre il cinematografo "acutizzerà, svilupperà la sensibilità, velocizzerà l'immaginazione creatrice, darà all'intelligenza un prodigioso senso di simultaneità e di onnipresenza". Proseguivano i marinettiani: "A prima vista il cinematografo, nato da pochi anni, può sembrare già futurista, cioè privo di passato e libero di tradizioni: in realtà, esso, sorgendo come teatro senza parole, ha ereditato tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario". Nonostante questo, "tutte le immense possibilità artistiche del cinematografo sono assolutamente intatte. Il cinematografo è un'arte a sé. Il cinematografo non deve mai dunque copiare il palcoscenico. Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitutto l'evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero". Nel catalizzare il cinema sulle tecniche futuriste, nel volerlo tutto proprio, Marinetti coglieva però una realtà oggettiva. Il cinema non era teatro: era 'un'arte a sé', e la sua peculiarità consisteva nell'essere 'visivo', 'dinamico', 'sintetico'. Tutti attributi che competono anche al cinema più fiacco, nel quale si sviluppa comunque una virtualità di sintesi, di movimento, e una scansione di spazi e di tempi che niente hanno da spartire con il vissuto di per sé. Il cinema era un altrove: non fu difficile rendersene conto subito ‒ un altrove verso cui convergevano molte esperienze d'arte e molte sperimentazioni conoscitive, segni di un tempo nuovo e di non facile decifrazione.Sembra il cinema essere stato anche d'aiuto alla convinzione di F.W. Nietzsche secondo il quale non esistono fatti ma solo l'interpretazione di essi, l'elaborazione mentale che ne dà l'uomo. La realtà, i fatti che il cinema sigla sono fatti e realtà passati al filtro di un occhio, di una mente che li ha selezionati, strutturati, coordinati, composti in una forma definita, e pertanto forniti di una attualità plastica che li rende concorrenziali al mondo, alla vita. Su questa linea il cinema ha rappresentato il mezzo di massa, il più economico, per la conoscenza del reale, nell'appercezione per cui il reale poi è sempre e soltanto frutto di una struttura mentale che è fonte della stessa visione, in quanto struttura, organizzazione. J. Supervielle sosteneva che il cinema aveva polarizzato nell'occhio tutti i sensi umani, che al cinema ogni spettatore diventava un grande occhio, producendo il cinema una rivoluzione nella sensibilità, nell'antropologia del secolo, per cui la prevalenza del visivo ha progressivamente divorato, assorbito ogni altra forma di comunicazione. Il cinema ha reso animati gli oggetti, è riuscito a gravarli di significati inediti secondo la logica del montaggio. Su un palcoscenico, una pistola è soltanto un attrezzo di scena. Ma il cinema ha i primi piani. "La browning che una mano estrae lentamente da un cassetto semiaperto [...] d'improvviso si anima. Diventa il simbolo di mille possibilità" (J. Epstein, L'écran du verre, in "Les cahiers du mois", 1925, 17-18; trad. it. in Cinéma. La creazione di un mondo, 2001, p. 19). Il cinema ha accresciuto, su un sentiero di laicità, le valenze simboliche, animistiche degli oggetti: ha insegnato a tutti che un oggetto in sé non è mai nulla. La lettera rubata situata in forte esposizione nell'omonimo racconto di E.A. Poe non sarà mai più insignificante, ma come lo scrittore ben sapeva, innescava, innesca e innescherà per sempre una quantità allarmante di circostanze, un dramma che si stringe o si scioglie, e anche una libertà di rappresentazione per cui non sarà mai più un oggetto inerte o inanimato. Il cinema ci ha avvezzati così a cogliere una continua generalità di significati cui il conoscere non potrà sottrarsi. La rete dentro cui il cinema ha racchiuso il mondo con una velocità endemica inarrestabile è pari quasi a quella tessuta da chiese e luoghi di culto: solo che chiese e luoghi di culto nel compiere la loro opera hanno impiegato millenni, il cinema qualche decennio.
L'immagine visiva dunque fu anzitutto cifrata in bianco e nero: ciò che era il risultato di un'imperfezione tecnica ‒ su cui si è lavorato intensamente per superarla ‒ diventò lo spazio espressivo peculiare del cinema, segno di una trasfigurazione della realtà, o elemento formativo imprescindibile della realtà stessa. Il codice, appena inventato, scoprì all'interno di sé un secondo codice, preformò per sottrazione la realtà condizionandola a un contrasto aprioristico, a una polarità di non-colori dentro cui andò scoprendo la possibilità di decantare progressive sfumature. Il mito dell'immagine filmica nacque da questa semplificazione, tingendosi di un'inedita complessità semantica. La tecnica di ripresa affinò lo stile, e lo stile fece guadagnare rilievo di leggenda a oggetti e volti, ritrovandoli nella loro possibile verità e funzione drammatico-espressiva attraverso il gioco delle luci e delle ombre. Oggetti, volti ‒ volti anzitutto: i divi, le dive. Le ombre e le luci ritagliarono figure fisse: il cavaliere generoso e il cattivo, la vamp e la ragazza per bene, il padre di famiglia e il dissipatore, la donna che seduce per tradire, l'innocente che si sacrifica persino nell'onore se la situazione lo richiede. Queste figure che nascevano dal romanzo, dal melodramma, da leggende popolari, anche dalla cronaca, oltre a essere vestite di evidenti attributi adatti alla scena, erano plasmate, imbevute di chiarori nel bianco e nel nero. In quel contrasto i conflitti drammatici sembravano non avere possibilità di relazione: la complessità delle psicologie veniva affidata alla semplicità o alla profondità della visione. Le vicende non poterono essere subito che terrificanti, consolatorie o comiche. Per la loro comprensione al pubblico semplice che frequentava le sale veniva presentata sullo schermo la didascalia, il cartello esplicativo a parole stampate ‒ equivalente dei tituli e delle pergamene medievali, secondo la felice intuizione di E. Panofsky. Ben presto, con la creazione dei volti-per-il-cinema, la loro recitazione, il perlaceo brillare dell'epidermide bianca e delle occhiaie fosche che scavavano il buio, il linguaggio si fece più ricco e comunicativo, drammatico, esaltante. C'è, nella suggestione sul pubblico, un fortissimo salto di qualità fra il grande attore, la grande attrice di teatro e i divi dello schermo. Lo scarto è dato dal fatto che i divi sullo schermo sono presenze in dettaglio ‒ volto, mani, gambe, parti del corpo, e perciò intimità fisica, sensuale ‒ con il conseguente rischio di presenza, fortissimo, nell'immaginario dello spettatore. Sul palcoscenico l'attore, l'attrice erano il fuoco di una distanza, il centro di una prospettiva spazio-temporale, ed erano soprattutto voce. Sullo schermo, i divi furono epifanie reali. E quelle epifanie ‒ una processione lungo i decenni che sempre si rinnova ‒ nel nascere dal buio si configurarono appunto come miti. Così, nel procedere di quelle epifanie, è possibile ripercorrere segni palpabili di storia: il volto di Lillian Gish risulta anomalo rispetto a quello di Katharine Hepburn per trucco, modalità d'apparizione: dagli anni Venti imbevuti di maledettismo e piacere nella deriva si passa all'azzardo perbenista dei Trenta. In Italia, dopo l'età del bistro profondo del muto, le ragazze acqua-e-sapone dei telefoni bianchi, per es. Irasema Dilian o Carla Del Poggio, rappresentano evoluzione e insieme censura, ossia la manierata innocenza voluta da un regime che truccava di familismi la propria brutalità illiberale. Uno scarto verso un tempo diverso e nuovo, di aderenza a un'ambigua tragicità esistenziale, dovevano sottolinearlo i volti assiderati dalla passione di Clara Calamai in Ossessione (1943) di Luchino Visconti e di Anna Magnani in Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini. Altrettanto gli uomini, i loro visi, i loro corpi diventarono da ombre sullo schermo ombre della storia, o meglio simboli ed enigmi della storia, dai capelli lucidati dalla brillantina di Clark Gable al pigiama di seta grigiopiombo che un Paul Newman claudicante indossa in Cat on a hot tin roof (1958; La gatta sul tetto che scotta) di Richard Brooks o al ciuffo scomposto del Jimmy Dean di Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) diretto da Nicholas Ray.I film, dunque, furono, sono racconto a tutto tondo: ma il racconto doveva essere agito, incarnato da quei corpi, da quei volti, secondo un rapporto organico tra la recitazione e i procedimenti tecnici della ripresa cinematografica. Sempre Panofsky mette a confronto questo rapporto con la tecnica d'incisione di un artista come A. Dürer, che poteva fare a meno del colore ‒ ma ecco il colore risorgere altrove, nel rapporto fra disegno e bulino, nell'incrocio fra espressione e sapienza artigianale fra spazi bianchi e spazi in ombra. La recitazione sullo schermo ‒ lo possiamo dire ancora oggi, indipendentemente dall'efficacia e dal contributo del dialogo sonorizzato ‒ dovrà sempre compensare l'espressività, accentuatissima in teatro, con la normalità del quotidiano, con una gestualità che non può non inserirsi nelle maglie che la ripresa con i suoi condizionamenti tecnici crea, e di cui finisce con l'essere parte. Il mito del divo, della diva, nella gamma ricchissima ormai descrivibile, non si può isolare perciò dal complesso espediente cinematografico, da una costruzione dentro cui tutto deve convergere a un fine ultimo ‒ l'articolazione di quel tempo-spazio virtuale che è poi il film.Un film ci dice che anche il cinema è uno strumento sfuggente. A differenza di uno spettacolo teatrale, un film non nasce e muore in una sera; ma è incapace di guardare senza essere guardato. Se, come abbiamo detto, allena gli occhi degli spettatori alla quarta dimensione, questo accade perché invece di partire da un'astrazione ‒ la pagina bianca del romanziere, la tela o il muro nudo del pittore ‒ parte dagli oggetti, da persone che subiscono indicazioni di movimento da realizzare davanti alla camera come fossero oggetti. Il film parte da materiali, ossia materiali profilmici, che devono essere manipolati, ricondotti a cifra stilistica, proiettati in una struttura. Ha scritto Panofsky: "Il cinema, e soltanto il cinema, rende giustizia a quella interpretazione materialistica dell'universo che, ci piaccia o no, pervade la civiltà contemporanea" (1995; trad. it. 1996, p. 115). E proprio con questo suo 'materialismo' ha potuto soppiantare il vedutismo o la pittura romantica di paesaggio. Dopo il cinema, per es., quella pittura è diventata casomai pittura di materie per il paesaggio, da A. Burri, E. Morlotti e F. Bacon, fino a R. Rauschenberg e J. Pollock. Il cinema, cioè, è stato di stimolo alla pittura nel corso del secolo, capovolgendo un rapporto che all'inizio aveva un'impostazione ‒ sembrava ‒ del tutto differente. E il romanzo? Diverse voci di critici e teorici della letteratura hanno voluto mostrare che il film ha sostituito il romanzo ‒ lo avrebbe divorato, succhiato nella vitalità, facendone qualcosa di affatto superfluo; insomma, lo avrebbe soppiantato. Se il cinema ha un grande debito verso il romanzo, grandissimo è oggi il debito che il romanzo ha verso il cinema. E questo avviene perché film e romanzo sono prodotti spuri, cantieri aperti, quando anche appaiono forme chiuse, blindate ‒ lo sono un romanzo di E. Hemingway, di A. Moravia, un film di Howard Hawks, di Alfred Hitchcock per esempio. Invece, nel loro essere appunto prodotti spuri, film e romanzi si sono contagiati e continuano a contagiarsi. Non è soltanto impossibile pensare J. Dos Passos o l'ultimo D. DeLillo senza cinema ‒ la lucidità visiva di F. Kafka non è forse cinema? ‒ ma è impossibile pensare il cinema senza D. Hammet o A. Robbe-Grillet, non considerare cioè quali siano i riverberi che due forme per eccellenza narrative si sono rimandati l'un l'altra. Anche polemicamente. La pagina compatta e murata del romanzo di Th. Bernhard, per es., nel suo puro vocalizzare l'emozione, assorbendo al suono della parola ogni fortuita visione, in negativo si connette al cinema, se ne nutre come di un antidoto, e per svincolarsene fa appello a una tragedia sempre incombente sulla vita. Il cinema, poi, allo stesso modo del romanzo, avanzando il secolo, ha preso a guardare sé stesso, a riferirsi alle proprie strutture, ai propri procédés come a un nutrimento essenziale e imprescindibile, affidandosi anche all'onda del citazionismo sempre più diffuso nella narrativa del Novecento. Penso, per es., alla presenza della troupe cinematografica guidata da Jean-Pierre Léaud che intercala la vicenda Brando-Schneider in Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci come a una funzione dalla quale la camera dichiara di non poter sfuggire, un nutrimento sofferto, persino perverso, ma appunto insostituibile. Quanta narrativa coeva era stretta allo stesso dilemma? È vero che una differenza è possibile segnarla ‒ il citazionismo, la strettoia concettuale dell'autoriferimento, fu per il cinema dopo gli anni Sessanta del secolo anche un modo efficace al recupero della propria storia, dei propri successi, della propria incisività espressiva e sociale. Per la narrativa, quella strettoia significò forse solo un impoverimento di linguaggio, la denuncia di una insufficienza difficile da doppiare.Ma il cinema ha conosciuto nel corso del 20° sec. altre diverse sintonie con lo spirito del tempo. Nell'esprimere la propria permeabilità al materialismo diffuso, nell'essere forte mezzo di comunicazione nella diffusione di idee e valori, il cinema non si è negato al possesso della politica. Fascismo, nazismo, comunismo, e anche l'iniziativa democratica, antifascista degli Stati Uniti, per es., del cinema hanno fatto uso come utile e insostituibile mezzo di propaganda, di persuasione. Il possesso diretto delle strutture produttive cinematografiche fu ed è per le dittature, e per quei governi che hanno votato il loro potere sulla persuasione di massa, un fine perseguito senza esclusione di colpi (non a caso la Repubblica di Salò decise di trasferire Cinecittà da Roma a Venezia). La camera può documentare tutto, può tutto sagomare secondo precisi indirizzi, può ricostruire ad libitum il quadro del reale, poiché come si è detto è la sua ricostruzione, la sua interpretazione, anche facilmente settaria, l'unica strada che le è dischiusa davanti. Ma questo non ci deve portare a ipotizzare che il cinema sia in definitiva un semplice strumento di potere. Lo stesso caso esemplare dei film 'nazisti' di Leni Riefenstahl, Triumph des Willens (1935; Il trionfo della volontà) o Olympia (1936-1938; Olimpia), mostrano un'opposta esemplarità ‒ quella di un estetismo che azzera le caratterizzazioni politiche nel momento stesso in cui le esalta. Nel cinema, come in ogni arte, conta il cosiddetto gesto espressivo, e non quel contenuto che può essere riassunto in qualche formula pratica, politica o funzionale. Proprio perché incapace di guardare senza essere guardato, il cinema capta ciò che vede soltanto per offrirlo a uno sguardo: e in questa logica lineare, ma profondamente complessa, ha riassunto nei propri simboli il rapporto con il secolo che l'ha creato.
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