PERIODICI (XXVI, p. 756; App. II, 11, p. 520)
Negli ultimi trent'anni le riviste di cultura hanno rappresentato in Italia un punto d'osservazione non secondario né marginale per seguire l'evoluzione dell'intera società, sia perché ad esse ha collaborato gran parte della cultura accademica e di quella militante, sia perché quelle riviste hanno riflesso in maniera abbastanza fedele divergenze e convergenze esistenti in un paese variegato, conflittuale, poco omogeneo qual è ancora oggi l'Italia. Con il che non si vuol sostenere che quelle pubblicazioni abbiano avuto la possibilità di raggiungere masse ragguardevoli di lettori, giacché, per una serie di ragioni storiche che attengono al grado di acculturazione ma anche alle barriere linguistiche tra i diversi ceti sociali, la diffusione è sempre stata assai bassa (la tiratura media dei p. è stata negli anni Cinquanta di 2-3000 copie, negli anni Sessanta di 3-4000, e non è cresciuta, a parte alcune eccezioni, neppure nel decennio successivo). Ma piuttosto si vuol segnalare l'esistenza di filoni ideologici differenti che hanno alimentato l'una o l'altra pubblicazione, e anche l'influenza indiretta che le riviste hanno esercitato attraverso i potenziali leaders d'opinione che vi hanno prestato attenzione come autori o anche come lettori e sostenitori.
Si possono distinguere, con una certa approssimazione, almeno tre fasi di sviluppo a partire dai primi anni Cinquanta. La prima coincide con la rigida divisione del mondo, soprattutto occidentale, in due blocchi politici e ci fa assistere a una netta polarizzazione tra i p. che si richiamano in un modo o nell'altro alla civiltà liberale e democratica, che guarda con particolare attenzione all'esempio americano o inglese o anche all'universo cattolico, e quelli che, al contrario, s'identificano con l'Unione Sovietica come patria del socialismo e della rivoluzione. La seconda fase, che ha inizio con la fine degli anni Cinquanta e registra sul piano interno come su quello internazionale mutamenti di non scarso rilievo, vede la persistenza di quella polarizzazione ma anche l'aprirsi al suo interno di contraddizioni e crepe sempre maggiori che sono destinate a culminare, dopo alcuni anni, nei movimenti di contestazione e in un rimescolamento che ha conseguenze dirette e di non poco conto sulle pubblicazioni culturali.
La terza fase è quella degli anni Settanta: una fase tuttora aperta, della quale si potranno indicare alcune caratteristiche generali, senza nessuna pretesa di bilancio neppure provvisorio. Occorre naturalmente aggiungere che una periodizzazione come quella che si propone è di volta in volta più o meno immediatamente efficace a seconda del carattere delle riviste: alcune di esse, che pure risentono, e potentemente, dei mutamenti politico-sociali legati alla fine degli anni Cinquanta o alla crisi dell'ultimo decennio, sembrano seguire una logica di sviluppo difficilmente collegabile, almeno direttamente, agli avvenimenti e alle svolte generali cui abbiamo accennato. Ma si tratta o di p. che cercano in ogni modo d'isolare il lavoro più propriamente scientifico da ogni altra implicazione (riuscendovi di rado in modo completo e, a volte, evadendo, in maniera più formale che sostanziale, dai problemi del proprio tempo) o di riviste che hanno una circolazione limitatissima, da cenacolo o da istituto accademico.
Gli anni Cinquanta significano per le riviste di cultura italiane soprattutto la ripresa dei contatti senza più remore e difficoltà con il mondo occidentale: con una letteratura come quella americana che era penetrata in Italia solo attraverso scampoli (come quelli dell'antologia Americana di E. Vittorini pubblicata da Bompiani in periodo fascista), con le scienze sociali del mondo anglosassone, in particolare la sociologia e l'economia che fanno capolino nei p. attenti al modello politico e culturale dell'Inghilterra laburista e degli Stati Uniti democratici, e, nel caso delle pubblicazioni che fanno capo al movimento operaio, con il mondo comunista nella sua versione sovietica. I conti sono da fare soprattutto con B. Croce: sia perché il filosofo napoletano con La Critica ha rappresentato durante la dittatura un punto di riferimento centrale per chi non s'identificava con il regime mussoliniano, sia perché il marxismo aveva trovato in quegli anni un interprete come Gramsci, legato per la sua formazione a G. Gentile e a Croce, e dunque avversario ma nello stesso tempo interlocutore dell'idealismo filosofico, attento a riflettere e analizzare una tradizione culturale nella quale democrazia risorgimentale e socialismo d'impronta leninista e bolscevica trovavano una possibilità di conciliazione e di dialogo che poggiavano, più che sulla teoria, sulle vicende storiche della penisola. Di fatto le prime riviste che si affermarono nell'Italia del secondo dopoguerra dovettero collegarsi in maniera implicita o esplicita ai nodi ideologici e culturali irrisolti durante il ventennio precedente. Così si spiega il fatto per cui nelle principali testate che si pubblicano dalla Liberazione alla seconda metà degli anni Cinquanta la polemica o il riferimento all'idealismo, in modo esplicito o più spesso implicito, occupano grande spazio e attenzione. Sovente il riferimento non è tanto nei contenuti quanto nei metodi d'indagine adoperati, a riprova, più eloquente di ogni dimostrazione, che la dittatura aveva segnato un'interruzione forzata della dialettica tra opposte concezioni e di conseguenza la prevalenza dell'idealismo gentiliano e crociano (pur con le loro non trascurabili differenze interne) come unica ideologia non necessariamente fascistica che si era potuta per lungo tempo sviluppare. Malgrado ciò, curiosità e fermenti culturali erano penetrati soprattutto negli ultimi anni, sia pure in maniera frammentaria e disordinata, sicché affiorarono già allora su alcuni p., letterari e non, articoli e saggi che si sottraevano a definizioni così categoriche e tentavano di esplorare terreni nuovi.
Un esempio importante è costituito da Il Politecnico di E. Vittorini (uscito in una prima serie settimanale nel 1945-46 e in una seconda mensile nel 1946-47, redatto da F. Calamandrei, F. Fortini, V. Pandolfi, A. Steiner, S. Terra, G. Trevisani; edito da Einaudi) che affronta fin dai primi numeri il problema di una "nuova cultura" capace di conciliare esigenze differenti e scienze troppo a lungo divise e di agire profondamente sulla società. La rivista si pone compiti di critica e di divulgazione cercando di fare i conti non soltanto con la tradizione culturale italiana ma anche con quella europea, se non mondiale. La polemica che ne seguì tra Vittorini e Togliatti sul rapporto tra politica e cultura, con la conseguente "condanna" ideologica da parte del Partito comunista, fu emblematica della difficoltà in quel momento di raccogliere intellettuali di sinistra di varia provenienza intorno a un programma culturale che potesse, almeno per certi aspetti, prescindere dal duro scontro in atto tra comunismo e liberalismo.
Nello stesso periodo, una rivista come Cronache sociali, redatta da intellettuali cattolici critici verso il liberalismo ma altrettanto avversi alla soluzione comunista (apparsa il 30 maggio 1947 come rassegna quindicinale di sociologia e politica, cessò le pubblicazioni il 31 ottobre 1951. Diretta da G. Glisenti, del comitato di redazione facevano parte G. Dossetti, A. Fanfani, A. Moro, G. La Pira, G. Lazzati, L. Gui, G. Baget Bozzo, A. Amorth), ebbe modo di sperimentare come anche su altri versanti fosse arduo impostare e proseguire un discorso che non fosse in linea con la contrapposizione politica che tutto dominava in quegli anni.
Cessato di uscire Il Politecnico, il versante comunista si espresse in maniera adeguata alle contingenze con riviste come Rinascita (fondata a Roma come mensile da P. Togliatti fin dal 1944 e redatta di volta in volta da alcuni tra gli scrittori e i giornalisti più rappresentativi del partito: da G. C. Pajetta a L. Pavolini, da A. Natta a G. Chiaromonte, da A. Coppola a M. Ferrara, da A. Reichlin a R. Ledda) o come Società (un p. trimestrale a cui diedero vita studiosi e letterati come R. Bianchi Bandinelli, C. Luporini, R. Bilenchi e altri, a Firenze dal 1945 al 1950, poi a Torino e Milano nel decennio successivo). Pur nelle differenze notevoli che le dividono, entrambe le iniziative si caratterizzano per l'intento di conciliare l'esigenza di un'esplorazione e di un rinnovamento nei metodi e nella tematica con l'osservanza costante di una direzione in nulla divergente dalla linea elaborata di volta in volta dai dirigenti politici dell'organizzazione in cui redattori e collaboratori si riconoscevano.
Società, più di Rinascita, tenta soprattutto nei primi anni di compiere un'operazione ambiziosa: "integrarsi nella nostra cultura in modo polemico e dialettico richiamandosi alla tradizione di concretezza di quella parte degli intellettuali del Risorgimento che riuscirono a riportare l'Italia a livello europeo", come si diceva esplicitamente nelle prime pagine della rivista. Di qui il tentativo di seguire con saggi e ricerche lo sviluppo degli studi storici, filosofici, letterari, economici senza giungere a un'effettiva interdisciplinarità ma sottolineandone la necessità e introducendo problemi che sarebbero rimasti a lungo centrali nel dibattito culturale.
Nel 1948 inizia le pubblicazioni un'altra rivista che si richiama alla tradizione socialista, se non marxista, e che si schiera all'interno di una linea di partito: ci riferiamo a Mondo operaio, settimanale diretto da P. Nenni, che dedica nei primi anni uno spazio prevalente alla documentazione e al dibattito politico sulle questioni italiane e internazionali ma nello stesso tempo riprende la tradizione socialista della divulgazione (pubblicando testi di B. Brecht, H. de Balzac, V. Blasco Ibañez) e apre le sue colonne a discussioni sul ruolo degl'intellettuali, sull'austromarxismo, su Lenin, su Gramsci di cui appaiono presso Einaudi i Quaderni dal carcere. Ai Quaderni e a un modo nuovo di far storia delle classi subalterne si rifà Movimento operaio che esce dallo stesso anno con la direzione di A. Saitta.
Meno direttamente legate, se non allo scontro politico generale che si fa in ogni modo sentire, a logiche di partito appaiono alcune riviste destinate a durare oltre gli anni Cinquanta e a percorrere con alterne vicende tutto il trentennio. In particolare, Il Ponte, rivista mensile di politica e letteratura fondata a Firenze nel 1945 da P. Calamandrei e diretta da un comitato di cui facevano parte anche A. Bertolino, V. Branca, E. Enriquez Agnoletti (condirettore nel 1956 e dieci anni dopo unico direttore), C. Tumiati (condirettore con Agnoletti nel decennio 1956-66), che ispira alla Resistenza e poi alla Costituzione repubblicana le sue posizioni di fondo e accoglie voci provenienti da un ampio universo liberale, democratico, socialista. Filosofia, storiografia, pedagogia, letteratura convergono nel mensile di Calamandrei ad affrontare i problemi di una democrazia integrale che dovrebbe nascere dalla vittoria contro il fascismo e da un confronto non distruttivo con la sinistra marxista anche nei momenti peggiori della "guerra fredda". E, accanto al p. fiorentino, altre iniziative a cavallo tra la metà degli anni Quaranta e l'inizio dei Cinquanta: da Belfagor a Comunità, che si pubblicano a partire dal 1946, a Il Mulino di Bologna che vede la luce nel 1951, ad Aut Aut di E. Paci che esce nello stesso anno.
Alle origini di Belfagor (rassegna bimestrale di varia umanità, edita prima da Vallecchi e d'Anna, poi da Olschki a Firenze) si trovano L. Russo e A. Omodeo. Quest'ultimo, che a Napoli aveva fondato l'Acropoli, scompare pochi mesi dopo la fondazione della rivista, e Russo la dirige da solo per più di un decennio. Ma rimane in piedi il presupposto fondamentale che aveva dato origine al p.: contrastare il conformismo risorgente della cultura italiana dopo il fascismo e la guerra, introdurre fermenti ereticali in un mondo che tendeva a espellerli, tornare agli studi solidi e fondati che devono essere alla base di ogni progetto culturale valido. Una rubrica come Noterelle e schermaglie che accoglie insieme brevi messe a punto sull'una o sull'altra questione controversa e aspre polemiche contro l'uno e contro l'altro esprime bene lo spirito della proposta di Russo e Omodeo. Studiosi come Binni, Caretti, Cantimori, Garin, Codignola, Fubini, Ragghianti, La Penna, Devoto, Jemolo, Contini, Luporini collaborano a Belfagor fin dai primi numeri.
Fondata da A. Olivetti, Comunità (che muta negli anni la propria periodicità passando dalla scadenza mensile a quella bimestrale fino a giungere a quella attuale che prevede soltanto tre numeri all'anno ed è diretta, dopo la morte del fondatore, da R. Zorzi) dichiara fin dall'inizio la volontà precisa di mantenere una certa distanza dall'attività politica in senso stretto e il proposito di fondere in maniera organica esigenze del pensiero di Marx, della tradizione cattolica più aperta (E. Mounier e J. Maritain), del liberalismo democratico europeo (P. Gobetti, J. M. Keynes, T. Mann). Altra caratteristica del p. è l'attenzione costante ai problemi emergenti in Occidente, e particolarmente negli Stati Uniti, e l'interesse per approcci differenti all'analisi della società contemporanea. Fin dagli anni Cinquanta appare centrale in Comunità l'interesse per le scienze sociali, e specialmente per la sociologia che diverrà nel decennio successivo il punto di riferimento essenziale della rivista, e dal cui ambito culturale nascerà poi Critica sociologica.
Da questo punto di vista non divergente appare a Bologna l'esperienza de Il Mulino che esce qualche anno dopo, sotto la direzione di P.L. Contessi, dall'incontro di intellettuali di formazione diversa: cattolici democratici alcuni (come L. Pedrazzi, F. Balbo, E. Raimondi e in seguito P. Scoppola), liberali crociani altri (a cominciare da N. Matteucci che nell'iniziativa avrà un ruolo importante). Al centro della riflessione della rivista si pone da una parte la ricerca di un collegamento nuovo con il pensiero moderno europeo: Marx e Dewey, dirà Matteucci, ma anche K. Mannheim e H. Kelsen; dall'altra, l'attenzione alle questioni della scuola e dell'educazione culturale in genere. Dopo i primi anni, l'accostamento ai modelli della democrazia occidentale, e prima di tutto americana, si afferma con maggior forza e si accompagna a un'assimilazione complessiva della sociologia e anche della politologia provenienti da oltre Oceano (di cui gli studi sull'organizzazione del Partito comunista e della Democrazia Cristiana o le tesi di G. Galli sul "bipartitismo imperfetto" costituiscono un momento importante).
A metà degli anni Cinquanta, in concomitanza con i risultati delle elezioni politiche del 7 giugno 1953 che vedono la crisi della formula di governo degasperiana, sorgono a Napoli due riviste interamente volte alla battaglia meridionalista: Nord e Sud nel 1954 (diretta da F. Compagna e redatta da giovani intellettuali di formazione crociana come V. De Caprariis, G. Galasso, G. Cervigni, R. Giordano, A. Palermo) e Cronache meridionali (diretta inizialmente da G. Amendola, F. De Martino, M. Alicata, poi da P. Bufalini, G. Chiaromonte, G. Napolitano, A. Reichlin, P. Valenza fino al 1964, anno in cui la rivista cessa le pubblicazioni). L'una, vicina alla democrazia repubblicana di La Malfa e all'esperimento liberale del settimanale Il Mondo di M. Pannunzio, apre le sue pagine a uno sforzo complesso di fondazione della ricerca sociale sul Mezzogiorno d'Italia (con gli studi demografici di Galasso, Petriccione e Beguinot nel 1959, le proposte di politica agricola di M. Rossi Doria, le inchieste sulla geografia elettorale di De Caprariis, Compagna e altri) e di rinnovamento dello storicismo crociano (cui dànno mano i saggi di G. Sasso, R. Romeo, T. De Mauro). L'altra si rifà a Gramsci per ristudiare e interpretare la questione meridionale alla luce delle analisi dì E. Sereni, R. Villari, R. Grieco. Entrambe registrano con lucidità la crisi dell'equilibrio politico affermatosi dopo il 1948 e si aprono a tematiche che occuperanno il campo negli anni Sessanta.
Molte altre riviste sarebbero da ricordare in quel periodo: da quelle che concentrano la propria attenzione all'ambito letterario in senso lato (come Paragone fondata da R. Longhi nel 1950 e articolata in due sezioni monografiche dedicate alternativamente alla letteratura e all'arte; o Nuovi Argomenti, bimestrale, diretta da A. Moravia e A. Carocci nel 1953, cui si unisce qualche anno dopo P.P. Pasolini, che mantiene un dialogo costante tra letterati e politici su un piano di dibattito fortemente impegnato, anche se sganciato da logiche di partito) a quelle che, come Tempo Presente di I. Silone e N. Chiaromonte, Problemi del socialismo di L. Basso, o Tempi Moderni di F. Onofri (le date d'inizio sono, per la prima, il 1956 e per le altre due il 1958) nascono come momento di riflessione della crisi seguita alla denuncia dello stalinismo e ai fermenti di disgelo che si avvertono anche in Italia. E, se si potesse seguire l'itinerario di alcuni organizzatori di cultura come Vittorini, occorrerebbe soffermarsi sugli esperimenti che in qualche modo si legano alla storia de Il Politecnico e dir qualcosa su p. come Officina uscita dal 1955 al 1958 (redatta prima da F. Leonetti, P. P. Pasolini e R. Roversi, poi anche da A. Romano e G. Scalia) o Ragionamenti, apparsa nello stesso periodo a cura di A. Guiducci con la collaborazione di L. Amodio, S. Caprioglio, F. Momigliano, A. Pizzorno e ancora F. Fortini.
Ma, al di là degli ambiti differenti d'interesse o della provenienza assai diversa dei redattori dell'uno o dell'altro periodico, quel che emerge da una lettura delle riviste di cultura è anzitutto la tensione politica e civile, il tentativo di creare una connessione stabile tra il lavoro scientifico o creativo e l'evoluzione della società italiana, e non solo italiana. Le ripercussioni che via via si registrano in stretta dipendenza da avvenimenti di peso interno o internazionale - in particolare, il mutamento degli equilibri politici e sociali in Italia dopo la scomparsa di De Gasperi e l'avvio dello sviluppo economico del dopoguerra e l'inizio della distensione tra Est e Ovest dopo la morte di Stalin e l'ascesa di Chruščëv - sono assai forti sulla maggior parte dei p., sia nel senso di determinare nuove iniziative sia nel senso di segnare la crisi o una maggiore vitalità delle varie pubblicazioni. Certo, p. antichi e affermati come la Nuova Antologia, Letteratura o altre riviste di letteratura, di storia o di filosofia (Lettere italiane, L'Approdo letterario, Rassegna della letteratura italiana) proseguono la propria attività senza risentire in maniera diretta di tutto questo: ma si tratta di casi isolati, di istituzioni che pagano in qualche modo la propria stabilità con una parziale emarginazione dallo sviluppo del dibattito culturale più vivo. Per tutte le altre, il riscontro con la situazione politica in senso lato è continuo, diretto.
Per tutti gli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, i problemi economici e di organizzazione delle riviste sono risolti grazie alle istituzioni che promuovono le pubblicazioni, che forniscono i mezzi, un minimo di pubblicità di stima e di sostegno, i servizi essenziali (direttamente, come nel caso dei partiti politici, o attraverso case editrici, negli altri casi). Si tratta di bilanci dalle dimensioni assai modeste giacché la collaborazione molto di rado è retribuita, i costi tipografici sono ancora bassi, la circolazione è molto limitata e avviene quasi solo per abbonamento. Di solito, questi p. hanno deficit trascurabili che vengono coperti di anno in anno attraverso sovvenzioni modeste: sicché è difficile svolgere per essi un'analisi sulla struttura economica che permetta di trarre dati significativi anche su altri piani. Occorre piuttosto segnalare il fatto che, eccetto il caso di Rinascita (e de Il Contemporaneo, sempre del PCI, che sorge nel 1954 come iniziativa autonoma settimanale sotto la direzione di R. Bilenchi, C. Salinari, A. Trombadori, si trasforma quattro anni dopo in mensile e poi nel 1965 diventa un supplemento mensile del settimanale di Togliatti), quei p. hanno una tiratura assai limitata e fruiscono di canali di vendita e di circolazione quasi clandestini, non arrivando né alle edicole né alla generalità delle librerie. Discorso diverso deve farsi evidentemente per una rivista come La civiltà cattolica o altre testate di quegli anni che possono godere di una diffusione per così dire istituzionale all'interno del mondo della Chiesa e delle organizzazioni cattoliche collaterali.
L'inizio degli anni Sessanta sembra cogliere impreparati gl'intellettuali italiani maggiormente inseriti nelle istituzioni culturali: il tumultuoso e disordinato sviluppo economico, le notevoli trasformazioni socio-culturali indotte dai grandi spostamenti di popolazione da una zona all'altra della penisola, oltre che dall'avvento dell'industrializzazione in dimensioni massicce e più larghe che per il passato, i nuovi equilibri di governo e di forze politiche che si annunciano e cominciano a verificarsi, sono tutti elementi che non possono non avere ripercussioni sulla pubblicistica culturale. Se una rivista essenzialmente letteraria come Il Menabò di Vittorini e Calvino può vedere la luce proprio nel 1959, alla vigilia del decennio, e affrontare, da un certo punto di vista, temi attuali e stimolanti come il rapporto tra industria e letteratura, il dibattito su lingua e dialetto, l'analisi della francese école du regard e le prime avvisaglie di discussione nel Verri, diretto da L. Anceschi, sulla nuova avanguardia (il futuro Gruppo '63), occorre pur dire che si tratta di una tra le poche eccezioni. Nell'ambito delle riviste cattoliche ma anche di quelle dichiaratamente marxiste e vicine al Partito comunista, quegli anni segnano un momento di stasi e d'immobilità. Come se si facesse strada la percezione di un'inadeguatezza effettiva a fare i conti con la mutata situazione e, d'altro canto, non si avesse ancora una risposta complessiva agl'interrogativi che la realtà interna e internazionale propone. A quella crisi contribuisce anche l'espansione e l'allargamento dei mezzi di comunicazione di massa e dell'industria culturale: il p. non è più l'unico strumento di diffusione delle idee a disposizione di letterati, storici, filosofi, sociologi. Si fanno strada altri veicoli, maturano diverse occasioni legate alla televisione, ai settimanali, quotidiani che si aprono di più agl'interventi culturali.
Ma proprio allora, in coincidenza con l'aprirsi di un lungo periodo di conflittualità sociale e politica, si verifica un fenomeno interessante all'interno della cultura di sinistra. Gruppi esigui ma combattivi di studiosi e militanti critici verso la politica culturale e verso la linea complessiva del Partito comunista si pongono il problema, una volta chiusi quei "conti con Croce" di cui si è parlato, di fare "i conti con Marx": di risalire cioè dalla tradizione italiana così come si era storicamente svolta nell'ultimo secolo, dalla fondazione del Partito socialista alla scissione di Livorno e poi allo stalinismo, alle fonti "autentiche" del pensiero di Marx, alla ricerca di una connessione nuova tra politica ed economia, tra arte e società, ma soprattutto vogliono ritrovare la tradizione rivoluzionaria del marxismo, la contrapposizione profonda tra quella e il sistema sociale e ideologico del capitalismo occidentale.
Un progetto, insomma, complessivo d'interpretazione della realtà cui dànno mano con accentuazioni differenti riviste come Quaderni Rossi a Torino (1961-65, redatta da un comitato di cui facevano parte tra gli altri R. Panzieri, V. Rieser, E. Masi, R. Solmi, G. Mottura e in un primo tempo, fino alla fondazione di Classe operaia, 1964-67, anche M. Tronti, A. Asor Rosa, R. Di Leo, A. Negri, R. Alquati), Quaderni Piacentini (1962) e la Rivista storica del socialismo (1959) di L. Cortesi e S. Merli. La novità di queste iniziative, alle quali, lo vedremo, altre consimili seguirono nella seconda metà degli anni Sessanta, era duplice, giacché riguardava i contenuti ma anche le forme. Il linguaggio era non di rado diretto ed efficace, privo di orpelli accademici, consapevole dell'influenza gergale dei mass-media, vicino alla lingua corrente almeno in certi strati sociali e in ambienti giovanili. I temi erano per molti aspetti inediti, sia per l'interesse effettivo alla struttura della società, alle forze produttive, alle classi subalterne, sia per il tentativo di mettere in discussione miti e dogmi che avevano dominato incontrastati nel ventennio precedente. Certo, facevano capolino fin da quegli anni rischi di unilateralità e dottrinarismo neomarxista che si sarebbero fatti sentire assai fortemente negli anni successivi e che, a loro volta, avrebbero favorito il formarsi di nuovi miti e di nuovi dogmi. Ma fu forse la prima volta che la pubblicistica marxista nell'Italia del secondo dopoguerra mostrava una capacità di espandersi così largamente e di esercitare un'influenza così ampia e diffusa: e tra gli effetti di quest'azione vi fu appunto la nascita di altre pubblicazioni tra il 1967 e il 1970, quando l'esplosione delle lotte studentesche e poi di quelle operaie, da Berkeley a Torino, Milano e Roma, sembrò offrire una conferma delle previsioni e delle speranze di quei piccoli gruppi "eretici" della sinistra.
Se si guarda ai temi più di frequente ospitati da quelle prime riviste che poi furono dette della "nuova sinistra" (intendendo per nuova sinistra tutti quei gruppi che criticarono "da sinistra" la strategia del Partito comunista e in generale del movimento operaio organizzato) si ha la conferna che attraverso di esse vi fu un ampliamento di orizzonti, almeno nella direzione della situazione internazionale (Stati Uniti, Cina, Africa e Asia meridionale costituirono nella seconda metà degli anni Sessanta realtà presenti a quei p., anche se quasi sempre in un'ottica d'intervento politico o di mito ideologico) e di problemi prima trascurati (come quelli religiosi, del dialogo tra la cultura cattolica e quella marxista, militari, delle istituzioni cosiddette "totali" della società, di organizzazione della cultura e così via). Ma nello stesso tempo vi fu un'attenzione scarsa sia da parte delle riviste che abbiamo citato sia dalle nuove sorte poco dopo (come Che fare, 1967, Contropiano, 1968, Ideologie, 1967, Classe e Stato, 1965, Nuovo Impegno, 1965) e altre molte, che pure si potrebbero citare, per i problemi dello stato e della società italiana e un certo fastidio, salvo poche eccezioni, per le questioni letterarie. Soltanto il cinema, come mezzo di comunicazione di massa e strumento di circolazione delle idee prima e più che come sede possibile di creazione artistica, trovò spazio su quelle riviste (e dedicata al cinema nacque nel 1967 Ombre Rosse) e vi fu in questa scelta, senza dubbio, insieme la consapevolezza di quel che stava avvenendo in Italia con l'irrompere violento della società industriale e l'adesione più o meno immediata da parte di chi compilava quei p. (in massima parte giovani tra i 25 e i 35 anni) a punti di riferimento imposti dalle trasformazioni della società. Nacquero in quello stesso periodo anche pubblicazioni che si proponevano un rinnovamento più limitato ma con obbiettivì più precisi nell'una o nell'altra scienza sociale, rispondendo a una domanda delle nuove generazioni che si poteva esprimere nell'università: così, per far solo qualche esempio, Lingua e Stile, nata nel 1966, diretta da L. Heilmann e tesa ad affermare un rapporto stretto tra linguistica e critica letteraria, Strumenti critici (anche del 1966) diretti da D'A.S. Avalle, M. Corti, D. Isella, C. Segre, o Critica sociologica (1967) di F. Ferrarotti, volta ad analizzare la "crisi dei poteri" nella società italiana secondo un approccio che vuol essere interdisciplinare.
Sempre in quegli anni poté verificarsi tuttavia una sorta di reazione silenziosa alla "invasione della politica nella cultura" consumata intorno al 1968. Sicché alcuni p., che avevano condotto un'esistenza difficile anche per mancanza di collaboratori nel periodo precedente, videro tornare a sé studiosi che cercavano sedi di riflessione più specialistica o comunque meno legate all'attualità politica o ai dibattiti della sinistra, vecchia e nuova. Un simile fenomeno era destinato a rinnovarsi in maniera più estesa qualche anno dopo, a metà degli anni Settanta, quando il fervore dei dibattiti e delle iniziative dei tardi anni Sessanta si era prima incrinato, poi quasi del tutto spento.
Bibl.: N. Bobbio, Politica e cultura, Torino 1955; Autori vari, Dieci anni dopo: 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari 1955; F. Fortini, 10 inverni 1947-1957, Milano 1957: E. Garin, Quindici anni dopo, Appendice a Cronache di filosofia italiana 1945-1960, 2 voll., Bari 1966; R. Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l'ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Roma 1971; G. Bechelloni, Cultura e ideologia della nuova sinistra, Milano 1973; A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d'Italia Einaudi, vol. IV, Torino 1975; G. Luti-P. Rossi, Le idee e le lettere, Milano 1976; E. Galli della Loggia, Ideologie, classi, costume, in Autori vari, L'Italia contemporanea 1945-1975, Torino 1976. Esistono inoltre antologie delle seguenti riviste citate nel testo: Civiltà cattolica, Rinascita, Cronache sociali, Mondo operaio, Il Politecnico, Quaderni Piacentini, Il Corpo.