PERUGIA
(lat. Perusia; Peroscia nei docc. medievali)
Capoluogo dell'Umbria, centro di origine umbra e fiorente città in epoca etrusca e poi romana, nella Tarda Antichità assurse al ruolo di principale città della Tuscia.
La struttura urbanistica della P. etrusca e romana giunse sostanzialmente integra ai primi secoli del Medioevo, racchiusa entro la cinta muraria di epoca etrusca, in grandi blocchi di travertino e con uno sviluppo lineare di m 2900 ca., aperta originariamente da diverse porte, la principale delle quali, a N, è nota a partire almeno dal sec. 7° come porta pulchra (od. arco di Augusto). Né durante l'epoca romana né durante l'Alto Medioevo l'abitato oltrepassò la cerchia delle mura, ma soltanto alcuni edifici religiosi sorsero al di fuori di essa, soprattutto lungo la principale direttrice viaria che, da S a N, entrava e usciva dalla città: a S le chiese di S. Costanzo e di S. Pietro sono da considerare già esistenti tra il sec. 5° e il 6°, mentre a N la chiesa a pianta circolare dedicata a s. Michele Arcangelo - meglio nota come tempio di S. Angelo - venne eretta presumibilmente entro la fine del 6° secolo.Tuttora insoluto resta il problema dell'identificazione topografica della primitiva cattedrale di P., prima che questa, durante il sec. 10°, venisse trasferita nell'od. S. Lorenzo. Contrariamente infatti alla tradizione che indicava in S. Pietro la prima sede della cattedra perugina, avendo ospitato la sepoltura del vescovo s. Ercolano, ucciso nel 547 durante l'assedio portato dai Goti contro la città, recentemente è stata avanzata l'ipotesi (Giordani, 1992) che la prima cattedrale di P. sia da ricercare invece entro le mura, e precisamente nell'area dell'od. chiesa di S. Filippo Neri, dove fino al 1687 sussistevano i resti della chiesa ottagonale di S. Giovanni Rotondo, di probabile origine tardoantica, che, per l'intitolazione e la pianta centralizzata, si può ipotizzare svolgesse la funzione di battistero, suggerendo quindi l'idea della presenza del primitivo complesso episcopale in quest'area dell'abitato.Quale che fosse la sua funzione, la fondazione della chiesa di S. Pietro certamente risale a epoca anteriore alla metà del sec. 6° e si colloca, come la vicina e altrettanto antica S. Costanzo, in un'area decisamente extraurbana a probabile destinazione cimiteriale. Dopo un periodo di abbandono, il complesso di S. Pietro venne trasformato in abbazia benedettina a partire dal 966, con una serie di ricostruzioni delle strutture architettoniche che si è protratta lungo tutto il corso dell'età medievale. Se le poche strutture murarie ancora visibili degli alzati della chiesa non appaiono databili a prima del sec. 13° (Martelli, 1967), l'impianto della stessa, a tre navate divise da colonne con capitelli di spoglio ionici - tranne i due più vicini al coro, corinzi, e altri di fattura più recente, che probabilmente sostituirono gli originali - della fine del sec. 3°, sormontati da pulvini su cui si impostano arcate, potrebbe in via d'ipotesi essere ascritto alla prima metà del sec. 6°, denunciando un chiaro influsso romano-ravennate. Di problematica datazione si presentano le strutture recentemente rinvenute al di sotto dell'area presbiteriale, costituite da un emiciclo scandito da una serie di arcate, successivamente tamponate, separate da semipilastri in laterizi e blocchetti di pietra addossati a muro con presumibile funzione portante della copertura. Esternamente a esso doveva correre una galleria semianulare della quale sono attualmente visibili solo i due ingressi, ad arco a tutto sesto poggiante su piedritti realizzati con lastre marmoree di riutilizzo, che per la fattura e il modulo delle ghiere degli archi sembrano raffrontabili con gli archi delle aperture del tempio di S. Angelo e dunque ascrivibili alla seconda metà del 6° secolo. Di fronte a essi corre una serie di absidiole in spessore di muro, realizzate in laterizi e blocchetti di pietra; tutta la struttura - a eccezione di due nicchioni alle estremità laterali e della scala destra di accesso alla struttura, di fattura chiaramente posteriore - dovrebbe comunque essere databile entro la metà del sec. 10°, epoca della traslazione (936) del corpo di s. Ercolano dall'ormai abbandonata S. Pietro a S. Stefano del Castellare.Ben al di fuori della porta pulchra sorse a N, sulla sommità di un colle, in un'area a probabile destinazione cimiteriale, il tempio di S. Angelo, a pianta circolare con vano centrale e ambulacro sul quale si aprivano originariamente quattro cappelle - tre a pianta rettangolare e la quarta, orientata a E, con andamento a ferro di cavallo all'interno e poligonale all'esterno - poste in corrispondenza degli assi principali della struttura; sui medesimi assi si aprono tuttora sia quattro gruppi di tre finestre, ognuno nel tamburo del vano centrale, circolare all'interno e poligonale all'esterno, sia gli intercolumni maggiori del colonnato di sostegno, interamente realizzato, a eccezione dei pulvini, con materiale di spoglio, generando così un impianto cruciforme che si sovrappone e oltrepassa quello circolare. Il riferimento a un modello tardoantico come il S. Stefano Rotondo a Roma (sec. 5°) e la sua trasfigurazione attraverso un maggiore slancio verticale - essendo il tamburo in origine di altezza maggiore dell'attuale -, il più chiaro risalto del motivo cruciforme e l'abolizione di ogni elemento decorativo delle pareti, l'adozione di tipologie costruttive di derivazione ravennate-bizantina (abside esternamente poligonale, triforia di accesso alle cappelle, muratura del tamburo in opera listata), oltre alla dedicazione micaelica e alla posizione topografica, sono elementi che permettono di collocare il S. Angelo nel quadro dell'architettura religiosa longobarda di tradizione 'aulica', esemplificata da edifici come il battistero di Lomello, S. Maria in Pertica a Pavia e Santa Sofia a Benevento, assegnandogli una datazione all'ultimo quarto del sec. 6°, quando P. fu probabilmente occupata dai Longobardi piuttosto stabilmente per alcuni anni fino al 595 ca. (Castellani, 1996).Nel territorio compreso tra le chiese extraurbane di S. Pietro e di S. Angelo e le porte delle mura urbiche a esse corrispondenti, così come lungo gli altri assi viari che dal territorio limitrofo confluivano verso P., si svilupparono a partire almeno dal sec. 11° i borghi, posti in stretta dipendenza con le cinque porte principali delle mura etrusche, che completarono il loro sviluppo solo due secoli più tardi, venendo poi inclusi nella nuova cinta muraria trecentesca.Entro le mura, il trasferimento del titolo di cattedrale alla chiesa di S. Lorenzo, probabilmente preesistente, intorno alla metà del sec. 10°, conferì la massima dignità alla zona più eminente di P., anche dal punto di vista topografico, e avviò un processo di riassetto urbanistico dell'area che sarebbe culminato, a partire dal Duecento, nella ricostruzione di tutti gli edifici che delimitavano la platea magna di S. Lorenzo. Prima della totale ricostruzione, avviata nel sec. 14° e conclusa nel successivo, la chiesa doveva presentare, secondo l'interpretazione tradizionale, dimensioni ridotte e un orientamento diverso rispetto alla basilica attuale, occupandone l'area del transetto, con la facciata affiancata dal campanile poligonale del quale rimangono pochi resti al di sotto della loggia di Braccio Fortebraccio (sec. 15°). Recentemente si è proposto di considerare l'orientamento originario il medesimo dell'attuale, ritenendo inoltre la 'cappella di S. Ercolano', nella quale furono deposte le spoglie del santo, una cripta a oratorio sottostante il presbiterio dell'edificio (Lunghi, 1994). Allo scorcio del sec. 12° giunse poi a compimento il processo, iniziato due secoli prima, di formazione sull''acropoli' della città, intorno alla cattedrale, di un agglomerato di chiese, case, palazzi e torri - già largamente diffuse entro l'abitato racchiuso dalle mura etrusche - dall'aspetto di vero e proprio castello (Silvestrelli, 1992).Mancano attualmente testimonianze utili a ricostruire un panorama della pittura dei primi secoli del Medioevo a P., e lo stesso può dirsi per le testimonianze scultoree. Fanno eccezione alcuni frammenti, come quelli con scene della Genesi (sec. 12°) nel chiostro della cattedrale, i diversi pezzi, databili dal sec. 8° al 12°, reimpiegati per inquadrare il portale della chiesa di S. Costanzo, ricostruita nel sec. 13°, e, soprattutto, il ciborio della chiesa suburbana, di antica origine, di S. Prospero, di elevata qualità stilistica, ascrivibile al tardo sec. 8°, coperto a piramide ottagonale, con tre delle quattro arcate decorate da motivi vegetali a girali e la quarta da due pavoni affrontati, flabelli e, lungo l'archivolto, da un tralcio a rosette tra due cordoni. Per quest'ultimo pannello è stato proposto un confronto stringente con un pluteo reimpiegato nel portale sinistro di S. Gregorio Maggiore a Spoleto (Raspi Serra, 1961); l'esempio perugino si distingue però per una maggiore levità del rilievo e un più saldo rigore compositivo, che ne fanno un pezzo eccezionale nel panorama scultoreo della tarda età longobarda.
Bibl.: F. Santi, Appunti per la storia urbanistica di Perugia, Urbanistica 30, 1960, pp. 38-43; J. Raspi Serra, La diocesi di Spoleto (Corpus della scultura altomedievale, 2), Spoleto 1961, pp. 65-66; G. Martelli, L'architettura nella basilica e nel monastero di S. Pietro in Perugia, "Convegno storico per il Millennio dell'abbazia di S. Pietro in Perugia, Perugia 1966", Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria 64, 1967, 2, pp. 107-121; D. Scortecci, Riflessioni sulla cronologia del tempio perugino di San Michele Arcangelo, RivAC 67, 1991, pp. 405-428; R. Giordani, Dalle cattedrali alla cattedrale. Riflessioni sul problema della più antica cattedrale di Perugia, in Una città e la sua cattedrale: il duomo di Perugia, "Atti del Convegno di studio, Perugia 1988", a cura di M.L. Cianini Pierotti, Perugia 1992, pp. 163-171; M.R. Silvestrelli, Il castello di San Lorenzo, ivi, pp. 173-191; E. Lunghi, La cattedrale di S. Lorenzo, Perugia 1994; G. Riganelli, Da Totila a Rachi: Perugia e il suo territorio nei primi secoli del Medioevo, Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria 91, 1994, pp. 5-45; P. Castellani, Un'ipotesi di lettura longobarda per la chiesa di San Michele Arcangelo a Perugia, AM, s. II, 10, 1996, 1, pp. 1-13.P. Castellani
L'espansione di P. si accentuò agli inizi del sec. 13°, quando l'abitato si estese sempre di più fuori della cerchia di mura antiche, lungo gli assi stradali in corrispondenza delle cinque porte, formando così i borghi diramati lungo i crinali e le valli che diedero alla P. medievale la caratteristica forma stellare. Tuttavia la vicenda della nuova cinta muraria è lunga e contrastata e trova la sua definitiva conclusione solo verso la metà del sec. 14°, quando venne interamente completata (Nicolini, 1971).
La civitas trecentesca, il cui perimetro misura m 6.000 ca. (contro m 2.900 di quella etrusco-romana), rimase sostanzialmente il contenitore dell'intera compagine urbana per più di cinque secoli, fino alla seconda metà dell'Ottocento. Nei borghi, dove si stabilì soprattutto la gens nova, si inserirono, oltre alle attività artigiane, le nuove parrocchie, le sedi di numerose confraternite, con gli annessi oratori e ospedali, le chiese e i conventi dei nuovi Ordini mendicanti (Grohmann, 1985, pp. 22-30).I Francescani, dopo essersi insediati in località Pastina, presso il borgo Sant'Angelo, costruirono, a partire dal 1253, una nuova grande chiesa in porta S. Susanna, S. Francesco al Prato; l'edificio, a una sola navata, con ampio transetto e abside poligonale, è ispirato alla basilica superiore di S. Francesco ad Assisi. Andate in rovina nel Settecento le volte a crociera, ricostruito l'interno da Pietro Carattoli (1703-1766), demolito di nuovo per dissesti statici, rimane dell'edificio originario solo l'involucro esterno con i massicci contrafforti rettangolari che inquadrano la facciata (restaurata nel 1926).I Domenicani si stabilirono fin dal 1234 in porta S. Pietro, presso l'antica chiesa di S. Stefano del Castellare, detta S. Domenico Vecchio. Nel 1304 venne iniziata la nuova chiesa, che prese a un certo punto la forma di una Hallenkirche a tre navate, la cui costruzione si protrasse fin oltre la metà del secolo successivo. Crollate le volte nel 1614, l'interno fu ricostruito (1629-1632) da Carlo Maderno, che ne mutò radicalmente l'aspetto, abbassando le quote e replicando le forme del S. Pietro di Roma. Resta dell'edificio trecentesco, oltre alla cortina muraria esterna e alla facciata incompiuta, fiancheggiata da due potenti speroni, l'ampio transetto con la tribuna quadrata sporgente ornata da un grande finestrone archiacuto, con le cappelle adiacenti, secondo un partito che ricorda la chiesa fiorentina di S. Maria Novella. Resta anche il possente campanile di forma quadrata, privo però della sua guglia terminale.Gli Agostiniani scelsero per loro sede il borgo Sant'Angelo, dove, a partire dal 1256-1260, cominciarono a costruire il convento e la chiesa di S. Agostino, a navata unica con transetto e abside poligonale fiancheggiati da una raggiera di cappelle, secondo una formula icnografica che richiama quella del S. Francesco di Ascoli Piceno (Krönig, 1938, pp. 119-121). Anche il S. Agostino venne ristrutturato nel Settecento e dell'età medievale rimangono solo alcune cappelle, oltre a tratti dell'esterno, l'abside e, parzialmente, la facciata con il portale gemino (ricostruito arbitrariamente in età moderna).In porta S. Susanna si stabilirono anche i Servi di Maria (1260), ma la chiesa e il convento vennero distrutti dopo il 1540, quando sul colle Landone venne eretta la rocca Paolina: allora l'Ordine si trasferì a S. Maria Nuova, in precedenza insediamento dei Silvestrini. In porta Sole si collocarono i Carmelitani, presso l'antica parrocchia di S. Simone (1294), completamente ristrutturata nel Seicento.Tra Duecento e Trecento si ebbero anche consistenti interventi su precedenti edifici di età altomedievale e romanica, come nel duomo, riedificato poi nel sec. 15°, e in S. Pietro, dove vennero ricostruite tutta la zona absidale e la parte inferiore del campanile. Vennero invece erette ex novo entro il primo quarto del sec. 14° la singolare chiesa di S. Ercolano, ottagona, raro esempio di edificio a pianta centrale a due piani, adiacente alla muraglia etrusca e ispirato probabilmente agli antichi martiria, e quella dei Ss. Severo e Agata, semplice aula a due sole campate coperte da volte a crociera. Tra gli altri edifici minori di particolare interesse, va ricordato l'ospedale del Collegio della Mercanzia, già esistente alla fine del sec. 13°, un unico ambiente con tetto a travi appoggiato ad archi trasversi, di cui sussiste ancora, abbastanza ben conservata, la parte superiore con resti consistenti dell'antica decorazione pittorica.Fuori della città sorsero alcuni complessi conventuali, tra i quali i due maggiori femminili, verso E le Clarisse, a O le Cistercensi. Le prime si insediarono fin dal 1218 nella zona di Monteluce. Dell'antica chiesa a navata unica restano il fianco sinistro duecentesco, fiancheggiato da una fitta serie di contrafforti, il coro delle monache (od. sagrestia) e, sia pur parzialmente, la bella facciata tessuta in un prezioso parato di conci bianchi e rosa, il rosone e il portale gemino. Sull'altro versante di P., per la via del Trasimeno e di Cortona, a S. Giuliana, si stabilirono, fin dal 1253, le monache dell'Ordine di Cîteaux; il grande monastero sussiste ancora e, per quanto più volte rimaneggiato nel corso dei secoli, conserva tuttavia la disposizione e talvolta anche le strutture originarie. Abbastanza ben conservata è la chiesa duecentesca ad aula unica, coperta a capriate, con semplice facciata in quadroni bicromi, rosone e portale a tutto sesto. Il campanile è duecentesco nella parte inferiore, mentre la bella cella campanaria e la cuspide appartengono alla seconda metà del Trecento. Nello stesso periodo deve essere stato rinnovato il chiostro, a due ordini, in cotto, assegnato talvolta, ma senza argomenti troppo convincenti, a Matteo Gattapone (Bertini Calosso, 1939).Altri insediamenti monastici fuori delle mura sono: la chiesa templare di S. Bevignate, ben conservata (1256-1262), ad aula unica, con due campate coperte con volte a crociera, ispirate anch'esse alla basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, con facciata displuviata, delimitata da due massicci contrafforti; la piccola chiesa di S. Matteo degli Armeni (1273), coperta con volte a crociera appoggiate a pilastri incassati nel muro; il complesso conventuale di Monteripido (1276), nel luogo del romitaggio del beato Egidio, divenuto sede, nella seconda metà del Trecento, degli Osservanti di Paoluccio Trinci (1309-1391), ma poi quasi interamente rinnovato in epoche successive. Nei dintorni, notevole è l'insediamento benedettino di Montelabate, la cui cripta è anteriore al Mille e la parte inferiore del chiostro del 1204-1222, mentre tutto il resto, compresa la chiesa di S. Maria di Valdiponte, assai simile a S. Bevignate, è stato rifatto in età gotica, tra il 1266 e il 1285 (Ricci, 1929, pp. 68-69).A tale intensa attività nel campo dell'edilizia sacra fa riscontro un forte incremento di quella civile e pubblica. Dal 1205, nello spazio tra la canonica del duomo e il vescovado, si edificò un palazzo destinato ad accogliere la nuova magistratura podestarile e i consigli cittadini, presumibilmente esemplato sui modelli dei più antichi palazzi pubblici dell'Italia settentrionale. Nella seconda metà del secolo, nella fase di massima ascesa politica e di impetuosa crescita demografica, si cominciò a pensare a radicali interventi sul centro urbano per adeguarlo alle nuove esigenze. Primo impellente problema da risolvere fu quello dell'acqua, fino ad allora attinta solo attraverso pozzi, mentre si rendeva indispensabile un flusso più ricco e continuo, che dalle vene del monte Pacciano, a km 6 ca. dalla città, attraverso valli e scoscendimenti, giungesse fino nel cuore di Perugia. A tale grandiosa impresa, di enorme impegno per un Comune medievale, ci si accinse fin dal 1254, quando il Consiglio deliberò di affidarla a fra Plenerio e a maestro Bonomo da Orte, ma le difficoltà incontrate furono molteplici, tanto che solo nell'ottavo decennio del secolo si giunse a una fase risolutiva con la chiamata da Orvieto (1277) del veneziano Buoninsegna, il quale soppiantò tutti gli altri tecnici e portò a conclusione l'opera, di cui divenne anche il conservatore (Silvestrelli, 1996b). La supervisione generale venne tuttavia affidata a fra Bevignate, un monaco silvestrino che fu il 'soprastante' di quasi tutte le operazioni edilizie del Comune perugino nell'ultimo quarto del sec. 13° e anche nei primi anni del successivo. Si trattò di iniziative non isolate ma, a quanto sembra, concepite nell'ambito di un vasto disegno urbanistico inteso a rinnovare tutta l'area dell'antico foro, secondo un progetto generale, una specie di vero e proprio piano regolatore realizzato per stralci (Silvestrelli, 1988). Nel biennio 1277-1278 venne eretta, in breve tempo, la fontana Maggiore e, subito dopo, si passò alla realizzazione di una seconda fontana dall'altra parte della platea magna, posta in opera nel 1281. Negli anni tra il 1282 e il 1292 si rinnovò, ampliò e decorò con pitture il palazzo del Podestà, indicato nei documenti quale palatium comunis, che andò poi distrutto in un incendio nel 1534 e di cui restano alcune vestigia nell'od. via Maestà delle Volte, nonché un'immagine nell'affresco con la Traslazione del corpo di s. Ercolano alla cattedrale di S. Lorenzo (1475 ca.) di Benedetto Bonfigli, nella cappella interna del palazzo dei Priori (Mancini, 1992, p. 97). Fin dal 1279 si cominciò a espropriare case private nell'altro lato della piazza e l'operazione di acquisto si protrasse negli anni successivi al fine di costituire un altro polo di edilizia pubblica, attorno al quale si continuò a lavorare a lungo nel sec. 14° (Silvestrelli, 1996a).Dal 1293 si mise mano al palatium novum populi, il palazzo dei Priori (Silvestrelli, 1988, pp. 556-557), nella parte della platea magna prospiciente il duomo e la fontana, costituito da un porticato aperto a livello del suolo e da due grandi saloni per le assemblee nei piani superiori, il tutto collegato con le più antiche strutture di residenza del capitano del popolo. La sala del primo piano, detta dei Notari, conserva le forme originarie - un grande vano (lunghezza m 27, larghezza m 14) illuminato da undici trifore e una quadrifora, con soffitto sostenuto da otto possenti arconi - e in parte anche la decorazione pittorica duecentesca; la scala esterna, realizzata nel 1298, è stata rifatta in forma semicircolare nel 1902 e non rispecchia certo il disegno originale. Al nucleo più antico del monumento, già compiuto nel 1300, venne aggiunto, tra il 1315 e il 1325, un altro blocco, inglobante le antiche strutture come la torre di Madonna Dialdana e comprendente anche la torre campanaria.Questa parte della fabbrica divenne la residenza dei priori delle Arti che dal 1303 governarono la città, ed è da questo momento che l'edificio assunse il nome di palazzo dei Priori. Infine tra il 1333 e il 1339 venne completata tutta la struttura dalla parte della piazza, investendo anche l'area prima occupata dall'antica chiesa di S. Severo (il cui titolo fu trasferito presso la nuova chiesa di S. Agata), dove vennero collocati l'armarium generale e la camera del massaro. Quindi prima della metà del secolo il complesso si estendeva per tutta l'insula platee (Silvestrelli, 1988, pp. 601-604), cioè nello spazio compreso tra via dei Priori, via della Gabbia, piazza IV Novembre, e corso Vannucci, su cui si apre il portale principale. Il palazzo, a due ordini di finestroni, con un'alta cornice sporgente ornata con metope, entro le quali sono delle patere ispirate al fregio dell'arco di Augusto, era in origine sormontato da una sorta di attico o corridoio a finestrelle centinate, così come si vede in un dipinto (Parigi, Mus. JacquemartAndré) attribuito a Mariano d'Antonio (m. nel 1468; Scarpellini, 1973-1974). Appare arbitrario l'attuale coronamento a merli realizzato nel corso di restauri ottocenteschi (Il Palazzo dei Priori, 1997).Nella seconda metà del sec. 14° si ebbe una generale stasi delle grandi attività edilizie pubbliche e anche l'aspetto urbanistico cittadino non mutò in modo considerevole. Oltre ai due grandi spazi centrali, la platea magna e la corrispondente piazza del Sopramuro (od. piazza Matteotti), il tessuto della città medievale, con i suoi quartieri, le strette e tortuose strade, le piazze più piccole, è tuttora abbastanza ben conservato. Mancano però nel panorama complessivo le numerose torri che davano a P. il suo caratteristico aspetto irto, guerriero, quale si vede, per es., negli affreschi di Benedetto Bonfigli (1454-1480) nella cappella del palazzo dei Priori e anche in altre varie vedute fino al sec. 16° (solo la torre degli Sciri, duecentesca, è tuttora conservata). Tra gli edifici della seconda metà del secolo va ricordato soprattutto il Collegio della Sapienza Vecchia, commissionato dal cardinale Niccolò Capocci (m. nel 1368), che conserva in parte le strutture originarie, tra le quali la cappella interna e il grande pozzo con puteale dodecagono ispirato alla fontana Maggiore.Il maggiore sforzo edilizio di questo periodo resta però un'impresa di carattere militare, cioè l'erezione, in porta Sole, nel luogo più elevato della città, di una grande rocca, detta Monmaggiore, fatta costruire nel 1371-1374 dal vicario papale Gherardo De Puy, abate di Cluny, a somiglianza di quelle volute dal cardinale Egidio Albornoz (ca. 1300-1367) in tutto lo Stato della Chiesa. La grande opera includeva una serie di edifici, in parte preesistenti, ed era collegata a una seconda fortificazione minore in porta S. Antonio e a una terza in porta S. Angelo (il Cassero) e anche, per mezzo di un passetto, ai palazzi del Podestà e dei Priori; venne distrutta a furor di popolo nel 1379. Non restano del complesso che i potenti muraglioni ad alti archi subito a valle di porta Sole (Grohmann, 1985, pp. 67-72).Negli ultimi decenni del sec. 14°, per la crisi economica e per le aspre lotte interne, non si ebbe una grande attività costruttiva né pubblica né privata.
Per la prima metà del sec. 13°, i resti del portale gemino di S. Domenico Vecchio (1240-1250) e i due capitelli figurati nel chiostro di S. Giuliana (ca. 1253) non sono sufficienti a documentare un'attività continuativa nella scultura monumentale in città. Quanto alla scultura lignea, non vi sono tracce di una produzione locale: il Cristo staccato dalla croce, a braccia aperte (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria; Benazzi, 1994), elemento superstite di una Deposizione a più figure proveniente dalla chiesa di S. Maria di Roncione, nei pressi di Deruta, e datato 1236, si ricollega a un gruppo il cui capostipite sembra essere il celebre complesso del duomo di Tivoli.Numerose invece, e spesso di alta qualità, le testimonianze di età gotica. Sembra che le due imponenti statue bronzee del grifo e del leone (Perugia, palazzo dei Priori, sala del Consiglio comunale), variamente utilizzate nel corso del tempo, siano state realizzate intorno al 1274 (Cuccini, 1994). Di fatto esiste solo una notizia documentaria, riferibile con ogni probabilità al maggio di quell'anno e relativa forse alla fusione del solo grifo (Zazzerini Cutini, 1972). Ma l'origine dei due animali resta misteriosa e non trova una collocazione soddisfacente tra le sculture italiane del tempo.Perduti i due sepolcri di Urbano IV (1261-1264) e di Martino IV (1281-1285) in duomo, ricordati da Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 64), che li attribuisce a Giovanni Pisano, la prima grande impresa di cui si hanno notizie circostanziate è quella della fontana Maggiore (1277-1278). Il solenne complesso, consistente in tre bacini sovrapposti e variamente scolpiti, si trova tuttora nel luogo originario, nella piazza principale della città, e conserva la forma e le strutture primitive, mantenendo il ruolo di monumento-simbolo di Perugia. Nella vasca inferiore, un poligono di venticinque lati, sono cinquanta bassorilievi ispirati a rappresentazioni bibliche, alla favolistica classica e medievale, alla storia romana e perugina, ai dodici mesi, ad alcuni animali simbolici, alle arti liberali; in quella mediana dodecagona sono collocate ventiquattro statuette rappresentanti altrettanti personaggi ideali o reali, tra cui i magistrati in carica al momento della realizzazione dell'opera, il podestà Matteo da Correggio e il capitano del popolo Ermanno da Sassoferrato; nella zona più alta, al di sopra della conca bronzea, sono poste tre figure femminili spesso interpretate come le tre Virtù teologali; un altro gruppo bronzeo con due grifi e due leoni (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), da alcuni ritenuto non pertinente al complesso, è stato allontanato con il restauro del 1948-1949.Nella fontana, una delle più cospicue enciclopedie del Tardo Medioevo a ispirazione profana, esistono varie iscrizioni, la più importante delle quali, in esametri leonini, corre lungo il margine inferiore della seconda vasca e fornisce, con i nomi dei principali autori - lo structor fra Bevignate, il maestro idraulico Buoninsegna, gli scultori Nicola Pisano e Giovanni Pisano - e con la data del compimento dei lavori (1278), anche un suggestivo quadro del contesto politicosociale in cui si realizzò la complessa epopea figurata. Tale iscrizione è stata oggetto di numerosi studi e sottoposta ad accurate indagini letterali e filologiche, l'ultima delle quali (Bartoli Langeli, Zurli, 1996), oltre a meglio precisare il testo latino e ad assicurarne una più esatta traduzione, è riuscita a porre più chiaramente a fuoco l'ambiente in cui la fontana poté sorgere. Si tratta del particolare milieu delle istituzioni cittadine, nel quale la personalità di maggior spicco culturale sembra essere stata quella del notaio Bovicello Vitelli, cancelliere e dictator del Comune. Tra le altre iscrizioni, sono particolarmente significative quella inserita nel bassorilievo con le aquile nella vasca inferiore, dov'è la firma di Iohannis sculptor, e l'altra nella tazza bronzea in alto, nella quale si legge il nome del fonditore, Rubeus me fecit.Dalla documentazione esistente (Nicco Fasola, 1951; Silvestrelli, 1996b) emerge che la realizzazione dell'opera avvenne in tempi assai brevi, addirittura, se si sta alla lettera di certe referenze, nel giro di un solo anno, tra il 1277 e il 1278 (ma tale eccezionale rapidità è stata posta in dubbio da più di uno studioso). È comunque in genere accettato che l'impresa sia stata condotta in un cantiere organizzatissimo, da un buon numero di lapicidi operanti sotto la direzione dei principali maestri, con ritmi di lavoro simili a una catena di montaggio, per cui uno stesso pezzo poteva venir lavorato da più mani in successione (v. Giovanni Pisano). È chiaro che in tale situazione distinguere rigorosamente la mano di Nicola Pisano (v.) da quella del figlio diviene problematico e di fatto le attribuzioni dei principali studiosi (Venturi, 1906, pp. 12-34; Nicco Fasola, 1951, pp. 226-229; Mellini, 1970, pp. 26-27; Carli, 1977, pp. 22-37) divergono spesso notevolmente tra loro. Sembra tuttavia che nel complesso sia meno avvertibile lo spirito aulico di Nicola, probabilmente abbastanza vecchio, e qui all'ultimo suo lavoro conosciuto, mentre più forte si coglie la drammatica ispirazione di Giovanni, per es. in alcuni dei Mesi, nella serie delle Arti liberali, nel gruppo delle aquile e in numerose statuette della vasca mediana. Quanto alle parti figurative bronzee, tra le quali debbono venir considerate alcune bocchette per l'acqua in forma di protomi ferine, sono state anch'esse oggetto di varie attribuzioni e di contrastanti valutazioni. Viene fatto insistentemente il nome, fin dai tempi di Vasari (Le Vite, II, 1967, pp. 64-65), di Giovanni Pisano e della sua bottega, tanto per il gruppo delle tre figure femminili - ma taluno ha anche avanzato per esse l'ipotesi di Arnolfo di Cambio (Ragghianti, 1935) - quanto per il blocco con i grifi e i leoni (Réfice, 1994). Circa poi Rubeus, viene spesso identificato con il Rubeus che firmò un mediocre architrave bronzeo nella porta della Postierla (o del Vescovado) del duomo di Orvieto e talvolta anche con il Rosso 'padellaio', autore della palla di rame posta sulla sommità del duomo di Siena. Ma la sua fisionomia artistica, a parte l'opera documentata di fonditore, resta quanto mai incerta, così come la sua origine tedesca, supposta da alcuni (Gramaccini, 1987; Lunghi, 1991).Arnolfo di Cambio (v.), il subtilissimus et ingeniosus magister, così come viene chiamato in un documento del 27 agosto 1277 (Perugia, Arch. di Stato, Consigli e riformanze, 5, 3, cc. 24r24v), venne sollecitato a venire a P. per lavorare alla fontana Maggiore, ma, pur avendo avuto licenza di compiere il viaggio da Carlo d'Angiò, al cui servizio si trovava a quei tempi e al quale i Perugini l'avevano richiesto, non sembra aver aderito per allora all'invito, e di fatto l'opera venne realizzata da Nicola Pisano e Giovanni Pisano con i loro aiuti. Tuttavia Arnolfo venne subito dopo incaricato di eseguire un'altra fontana a P., in pede platee, cioè dall'altra parte della piazza, che doveva piuttosto servire agli usi quotidiani, e si intrattenne per ventiquattro giorni in città, tra il gennaio e il febbraio del 1281 (Cuccini, 1989, pp. 49-52), presumibilmente per montare i vari pezzi già scolpiti. Questa seconda fontana, nella quale vennero utilizzati anche i due imponenti simulacri bronzei del grifo e del leone, ebbe tuttavia vita breve. Già agli inizi del nuovo secolo essa veniva smontata nel quadro delle continue trasformazioni urbanistiche cittadine, e il materiale impiegato in altri luoghi, oppure disperso. Sono state rintracciate, più o meno fortunosamente, cinque sculture, tre assetati e due scribi (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), da considerare tra le più belle prove del classicismo romano di Arnolfo (Romanini, 1969; Cuccini, 1994).La presenza a P. dei tre maggiori scultori dell'epoca fornisce la prova più certa di come, per realizzare opere di grande rilevanza, fosse necessario servirsi di artisti, e in parte forse anche di maestranze, venuti dal di fuori. Però è lecito pensare che proprio dalla loro presenza in città, in un momento così fervido per l'edilizia civile e sacra, abbia preso il via anche un filone di scultura più specificamente locale di cui non si hanno in precedenza tracce consistenti. Furono presumibilmente perugini, o quanto meno umbri, i lapicidi che operarono nei vari elementi decorativi del palazzo dei Priori e che, a cavallo dei secc. 13° e 14°, eseguirono un gruppo di portali come quello della sala dei Notari nel palazzo dei Priori, e poi quelli dei Ss. Severo e Agata, di S. Ercolano, di S. Paolo del Favarone, di S. Maria della Colombata, di S. Giuliana, di S. Maria dei Servi - poi trasferito a S. Angelo nel sec. 16° - e dell'abbazia di Montelabate; lapicidi che poi continuarono per tutto il Trecento fino al Quattrocento a fornire materiali per le varie fabbriche urbane. Le cornici scolpite esistenti nei palazzi antistanti il palazzo dei Priori, in particolare nel palazzetto dei Notari, testimoniano della continuità di una tradizione. Oltre ai vari, abili scalpellini, dovevano esservi scultori nel pieno senso della parola, come fanno intendere alcune statue e statuette esistenti all'esterno del palazzo dei Priori, ai Ss. Severo e Agata e in S. Prospero, dove la figura del santo titolare, presente nell'absidiola, è di chiaro sapore arnolfiano; a un più alto e diretto collaboratore di Arnolfo sembra invece doversi assegnare la bella testa erratica di diacono (Perugia, Mus. Capitolare).Agli inizi del Trecento si aprì a P. un altro cantiere di grande importanza, con la costruzione della nuova, gigantesca chiesa di S. Domenico, nella quale, secondo Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 68), avrebbe operato lo stesso Giovanni Pisano. Nel contesto di quei lavori - dove vennero impiegati artisti e artigiani di prim'ordine, a giudicare dai bellissimi capitelli del transetto, nell'arco trionfale verso la tribuna - allo stesso Giovanni è stata attribuita (Martinelli, 1969) una testa di donna facente parte di una struttura architettonica, forse originariamente in chiesa (Perugia, Mus. Capitolare). All'incirca nello stesso periodo venne realizzato per S. Domenico Vecchio il monumento funebre di Benedetto XI, morto a P. il 6 luglio 1304. L'opera, che più tardi fu trasferita nella nuova chiesa, discende dal modello progettato e scolpito da Arnolfo di Cambio per il cardinale Guglielmo De Braye in S. Domenico a Orvieto (ca. 1282), con duplice partizione: in basso il sarcofago sormontato da una camera funebre dov'è disteso il pontefice morto tra due chierici che sollevano le cortine, in alto la Madonna con il Bambino tra s. Domenico e s. Nicola, il tutto inserito entro un arcone trilobo sostenuto da colonnine tortili. Vasari (Le Vite, II, 1967, p. 68) attribuì l'opera a Giovanni Pisano; la critica moderna ha posto in evidenza gli stretti rapporti stilistici esistenti tra questo monumento e i rilievi dei due pilastri interni della facciata del duomo di Orvieto, dove più forti appaiono i ricordi nicoliani, e non è mancato neppure chi, come Toesca (1951, p. 368), ha rilevato connessioni con il sepolcro di Giovanni Gaetano Orsini, nella cappella omonima della basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi, e con le sculture della Madonna con il Bambino, una santa, un angelo e un vescovo nel duomo di Todi. Di qui due linee interpretative: per la prima si tratta di scultori senesi, o comunque fortemente collegati con Siena, operanti nella facciata del duomo di Orvieto e attivi anche nell'Umbria settentrionale (Venturi, 1906, pp. 354-359; de Francovich, 1927-1928, pp. 356-358; Toesca, 1951, p. 369; Carli, 1965, pp. 28-33; Garzelli, 1969, pp. 205-211); per l'altra ci si trova di fronte a un filone umbro, il quale, prendendo le mosse dalle grandi imprese perugine di Nicola e Giovanni Pisano e di Arnolfo di Cambio negli anni settanta e ottanta del Duecento, si sviluppa a Orvieto quando, a partire dal 1293, la figura di maggior responsabile del cantiere è quella di fra Bevignate, ritenuto da Cellini (1958) anche scultore, che opera poi di nuovo a P. nei primi decenni del nuovo secolo (Previtali, 1982-1983). Quanto alla datazione, essa oscilla tra il 1304 e il 1325 circa. Sembra però dubbio che si sia voluto attendere molto tempo dopo la morte del papa domenicano per dedicargli un così solenne e rappresentativo monumento (quasi certamente solo un cenotafio) nella chiesa antica mentre si cominciava a lavorare alla nuova.Strette relazioni stilistiche con il monumento di Benedetto XI si ravvisano nelle tre statue con i santi protettori Ercolano, Lorenzo e Costanzo (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), originariamente nella lunetta sopra il portale del palazzo dei Priori, la cui datazione sembra doversi collocare nel periodo 1315-1325, quando si andava ampliando l'edificio. Alle suddette sculture alcuni studiosi (Carli, 1960, p. 64; Schlegel, 1965; Santi in Galleria Nazionale, 1969, pp. 147-148; Previtali, 1982-1983) hanno aggiunto una Madonna con il Bambino lignea, policroma (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), un tempo in S. Agostino, a sua volta collegata con una serie di altre sculture in legno, come alcune Madonne (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz; Londra, Vict. and Alb. Mus.; Firenze, Mus. Bardini) e un Gesù Bambino benedicente (già Pisa, coll. privata), con datazioni varie, talvolta anche abbastanza avanzate nel Trecento. Il gruppo, con l'aggiunta di un angelo portacandelabro (Cascia, Pinacoteca Com.), è stato riferito da Previtali (1982-1983) a un artista locale, chiamato appunto il Maestro della Madonna di S. Agostino, discepolo dello scultore del monumento di Benedetto XI e operante tra il secondo e il terzo decennio del secolo. Lunghi (1994) ha unificato sotto la sigla Ambrogio Maitani, fratello di Lorenzo, architetto capo del Comune di P. per quasi un trentennio (1317-1346), tutte le suddette opere, compreso il sepolcro papale.Se, malgrado le varie, suggestive proposte rimane a tutt'oggi problematico identificare con certezza la nazionalità dell'artista o degli artisti in questione, tratti più specificamente perugini si riscontrano nei rilievi che ornano il portale del palazzo dei Priori, di carattere e stile assai diversi rispetto a quelli dei patroni già collocati nella lunetta. Appaiono qui, tanto nelle mostre esterne quanto negli sguanci e negli stipiti, varie figurazioni di Vizi e Virtù, di temi biblici come il Giudizio di Salomone, delle Arti, di stemmi di svariate città, di motivi allegorici, per un totale di cinquantotto formelle, da leggere in parallelo con i cicli della fontana Maggiore e della sala dei Notari, e come quelli connessi con le vicende storiche e politiche della città. Se in passato queste sculture sono state riferite anch'esse ad ambiente toscano, fiorentino e, più spesso, senese, oggi vi è la tendenza a ricondurle a un contesto locale, per i tratti aneddotici e narrativi che le apparentano alla pittura e miniatura coeve. Strette affinità stilistiche si notano tra i putti dell'intradosso del portale e quelli del nodo del piccolo pulpito antistante la sala della Vaccara, pertinente alla terza fase costruttiva del monumento, svoltasi tra il 1333 e il 1339 (Silvestrelli, 1988, pp. 512-513; Fratini, 1997). Allo stesso momento sono da ascrivere i quattro capitelli di gusto classicheggiante della sottostante loggia di S. Severo, due dei quali vengono pagati a "Vester Zutii, porte sancti Petri [...] magister lapidum", nel maggio 1339 (Martini, 1970, pp. 59-60, 71).Nella seconda metà del Trecento non vi sono tracce consistenti di opere di scultura monumentale, evidentemente perché tutta l'attività edilizia entrò in crisi dopo la grande peste del 1348 e poi per le agitate vicende politiche degli ultimi decenni del secolo.
Della pittura perugina pertinente alla prima metà del sec. 13° restano solo alcuni reperti in chiese minori o da esse provenienti: una testata di croce con S. Giovanni e un frammento di affresco con tre figure (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), databili tra la fine del sec. 12° e l'inizio del 13°; resti di un ciclo veterotestamentario pressappoco coevo in S. Apollinare, a S della città; una cappella affrescata, datata 1225 e firmata da un Bonamico, nella chiesetta di S. Prospero; frammenti di affresco con Storie del santo titolare e un bestiario (ca. 1233) nella ex chiesa di S. Giovanni del Fosso (oggi in parte abitazione privata); due affreschi con la Flagellazione e la Crocifissione (ca. 1250) nella parrocchiale di Pieve Pagliaccia a E della città; numerosi affreschi nella chiesa suburbana templare di S. Bevignate, dove è anche rappresentata una processione di flagellanti (ca. 1262). In tutte queste opere si riconoscono, sia pure in diversa misura, tratti popolareschi, fortemente arcaizzanti, un sermo rusticus che si ricollega, anche per il tramite della miniatura, a esempi romani (Scarpellini, 1987; in corso di stampa).Un'arte nuova più evoluta e moderna giunse nell'ottavo decennio da Assisi. Il Maestro di S. Francesco dipinse per S. Francesco al Prato una grande croce (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), datata 1272, e un polittico a due facce per l'altare maggiore della stessa chiesa, oggi scomposto e frammentario: la Deposizione, il Compianto, il S. Francesco, il S. Antonio e il S. Andrea sono conservati a P. (Gall. Naz. dell'Umbria); il frammento con S. Isaia è ad Assisi (Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco), quello con i Ss. Simeone e Bartolomeo si trova a New York (Metropolitan Mus. of Art, Robert Lehman Coll.), due con S. Giacomo Minore e S. Giovanni Evangelista sono a Washington (Nat. Gall. of Art, Kress Coll.), mentre del S. Pietro è ignota l'ubicazione (già Cleveland, Mus. of Art).Un altro artista di diversa provenienza eseguì, tra settimo e ottavo decennio, presumibilmente per i Templari, un tabernacolo a sportelli, il c.d. trittico Marzolini (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), dove appaiono evidenti i rapporti di stile con i prodotti dell'Oriente crociato. Ancora un maestro legato al mondo bizantino e a quello gotico dipinse in S. Bevignate le icone murali dei dodici apostoli (ca. 1280; Belting, 1982). I primi due autori influenzarono profondamente la tradizione locale e trovarono immediate corrispondenze negli affreschi (ca. 1273) di S. Matteo degli Armeni, in quelli (1280-1290 ca.) del refettorio, del parlatorio, della sala del Capitolo e della chiesa del monastero di S. Giuliana, in una tavola con la Madonna e il Bambino (1290 ca.) nella chiesa di S. Maria di Ancaelle, presso il lago Trasimeno, dove sono anche resti di affreschi pressappoco contemporanei.Fortemente collegato con tali precedenti e con la cultura assisiate, e in parte anche con lo stesso Cimabue, è il forte Maestro di Montelabate, autore della decorazione murale (ca. 1285) tuttora in parte esistente nella sala del Capitolo dell'abbazia omonima, artista al cui catalogo sono state aggiunte altre opere, tra le quali la bella croce conservata a Filadelfia (Mus. of Art; Boskovits, 1973). Altro protagonista di questo momento particolarmente vivace e interessante della pittura perugina è il Maestro del Farneto, che verso il 1295-1300 eseguì il dossale (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) per il convento francescano nei pressi di P., da cui l'artista prende il nome, e dove, oltre alle suddette referenze, si riconosce un primo collegamento con la fase protogiottesca della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi (Longhi, 1961). A questo artista Boskovits (1981) ha attribuito una parte considerevole della decorazione della sala dei Notari nel palazzo dei Priori (1298-1300), l'unica grande impresa tuttora esistente della pittura medievale perugina in patria. Nelle numerose scene conservate d'intonazione morale-didascalica, rappresentate all'interno degli arconi e nella controfacciata e relative alla Bibbia, alle favole esopiche, a episodi di storia cittadina, a temi astrologici, ai romanzi cavallereschi (Riess, 1981), operarono anche altri artisti, da ricondurre tuttavia sempre al medesimo ambiente. Sono perdute le scene delle pareti nelle quali erano probabilmente rappresentati avvenimenti storici o allegorie del Buono e Cattivo Governo (Scarpellini, 1997).Nel frattempo giunsero a P. alcuni pittori senesi. Nel 1291 Vigoroso firmò e datò un polittico (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), probabilmente eseguito per le monache di S. Giuliana (Galleria Nazionale, 1969), dove, accanto a forti collegamenti con il mondo di Guido da Siena e di altri duecentisti senesi, si colgono anche motivi cimabueschi in una fase cronologicamente abbastanza alta (Bellosi, 1994). Verso il 1300 lo stesso Duccio di Buoninsegna dipinse un polittico per S. Domenico Vecchio, di cui resta lo scomparto centrale con la Madonna, il Bambino e alcuni angeli (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria). Un altro senese di secondo piano proveniente dal mondo duccesco è Meo di Guido, che si stabilì a P., dove, documentato nel 1319, prese la cittadinanza. Egli è ben cosciente dell'arte della vicina Assisi, in particolare del primo Giotto, poi anche di Pietro Lorenzetti. La sua opera si ravvisa sia in numerose tavole, tra le quali spicca il grande polittico proveniente da Montelabate (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), sia in un trittico (Perugia, Mus. Capitolare), sia infine in alcuni affreschi della chiesa di S. Paolo a Monticelli, a O della città. È incerto se uno degli ultimi lavori di Meo di Guido sia da considerare il dossale a due facce (Francoforte sul Meno, Städelsches Kunstinst. und Städt. Gal.), un tempo nella Fraternita di S. Pietro, datato 1333, dove i caratteri più marcatamente perugini appaiono evidenti.Accanto a Meo di Guido operarono anche numerosi pittori del luogo, di gusto meno accademico, più vivacemente descrittivi, in collegamento con la locale produzione miniatoria. Tra questi spicca l'autore della grande Maestà (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), del 1313 ca., una volta sull'altare maggiore della chiesa di S. Paolo di Valdiponte della Badia celestina presso Umbertide, che si firma Marino e che è incerto se debba identificarsi nel Marino d'Elemosina documentato a P. nel 1310 per aver restaurato alcuni dipinti nel palazzo dei Priori (Nessi, 1988, p. 154). Altro autore locale è il Maestro della Maestà delle Volte, che dipinse l'affresco con la Madonna, il Bambino e angeli nella chiesa della Maestà delle Volte, ora sconsacrata, per la quale si conosce la data di commissione, il 4 gennaio 1297 (Mariotti, 1788, p. 36). Nelle attuali condizioni l'opera si mostra anch'essa tributaria dell'arte senese, databile al terzo decennio del 14° secolo. Certamente perugino è il Maestro di Paciano, di carattere molto più popolaresco e di gusto vivacemente mimico, autore di un dossale a due facce (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), un tempo nel S. Antonio di Paciano, di un trittico con scene dell'Infanzia di Cristo (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) e Natività (Roma, Camposanto teutonico), di una cuspide con la Crocifissione nella parrocchiale di Migiana di Monte Malbe, nei pressi di P., e infine di alcuni affreschi in città, tra i quali una Crocifissione nella parete di fondo della chiesa dei Ss. Severo e Agata. In questa stessa chiesa un altro pittore, ispirato come il Maestro di Paciano agli affreschi assisiati, rappresentò le Storie di s. Severo e il Martirio di s. Biagio, con accenti che richiamano particolarmente Simone Martini. Altro pittore attivo in questo periodo (1320-1350 ca.) è il Maestro Ironico, autore di un gruppo di affreschi di maggior respiro compositivo, attestanti una buona conoscenza della grande pittura decorativa. Le sue opere più antiche sembrano l'Annunciazione e la Trinità sulla facciata di S. Pietro, cui seguono una Madonna con il Bambino e s. Caterina (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), distaccata dalla chiesa di S. Elisabetta e datata in origine 1334, un affresco con la Trinità nell'ex chiesa di S. Paolo di Monterone (od. abitazione privata), un finto trittico murale nella chiesa dei Ss. Stefano e Valentino, un'edicola dipinta (la Madonna della Vigna), oggi quasi scomparsa, nei pressi della Pallotta fuori porta S. Pietro, e infine una grande Maestà con santi (1348) nella chiesa di S. Matteo degli Armeni, con la figura del committente, il taverniere Sabatello. Si tratta di un pittore che innesta su di un fondo arcaizzante, per certi aspetti ancora duecentesco, motivi della pittura trecentesca fiorentina e soprattutto senese, mostrando anche la conoscenza diretta dell'arte di Ambrogio Lorenzetti. Inoltre si ravvisano anche relazioni con il mondo gotico, forse desunte attraverso l'opera dell'assisiate Pace di Bartolo (Todini, 1989, p. 100).Altro aspetto della pittura perugina della prima metà del Trecento, più espressivo e drammatico, si sviluppò con il Maestro di S. Francesco al Prato, autore dei tre affreschi (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) una volta nella cripta della chiesa omonima. Nella Crocifissione sono evidenti i rapporti con il giottismo assisiate, in particolar modo con il Maestro Espressionista di S. Chiara e con lo stesso Puccio Capanna, mentre più tarda appare un'altra Crocifissione (Perugia, Arch. di Stato). Ancora a Puccio Capanna e al Maestro di Figline si richiama il bel dittico su pergamena (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), da riconnettere alla pratica miniatoria e a quella, assai diffusa in Umbria, dei vetri graffiti. Le stesse tendenze si rivelano in forme quasi parossistiche in una Crocifissione affrescata in S. Andrea di Monte del Lago e in una croce astile (New York, Brooklyn Mus.; Scarpellini, 1981), dove i personaggi sono soprattutto ispirati dai modelli di Pietro Lorenzetti ad Assisi, con ricordi anche del Maestro di Figline. A tal proposito va ricordato che quest'ultimo artista, talvolta identificato con l'assisiate Giovanni di Bonino, è l'autore di una piccola vetrata con la Crocifissione (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), del 1340 ca., originariamente nella chiesa di S. Agostino.A un raffinato artista perugino, forse un miniatore ispirato alla stessa cultura, in particolare a Puccio Capanna, si deve un piccolo dipinto (ca. 1340) con la Madonna, il Bambino, santi e angeli in volo che distendono un drappo sopra il gruppo sacro (Worcester, MA, Art Mus.).A P. continua a svilupparsi per tutto il sec. 14° un filone di pittura monumentale. Pellini (1664, p. 564) informa che nel coro di S. Francesco al Prato vennero dipinte le imprese guerresche di Vinciarello Vinciarelli, morto da prode combattendo contro i Turchi a Smirne (1344), a riprova dell'interesse sempre vivo in città per le rappresentazioni storiche. A una bottega locale, in rapporto con l'arte di Meo di Guido, si deve l'impresa di maggior mole di tutto il Trecento perugino tuttora esistente, gli affreschi della chiesa superiore, della Scala Santa e della cappella della Madonna nel Sacro Speco di Subiaco, nonché altri, di mano diversa, nel refettorio. Il principale artista è stato identificato con il Maestro dei Dossali di Subiaco, scoperti da Zeri nello stesso luogo, e autore di due tavole (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) e di alcuni affreschi nel coro delle monache a S. Maria di Monteluce a P. (Todini, 1989, p. 135). In tutte queste opere si riscontra una volgarizzazione dei grandi cicli assisiati, tradotti in una descrizione minuta, particolareggiata, fortemente aneddotica. Quanto alla datazione delle decorazioni di Subiaco, la maggioranza dei critici le ritiene situabili ancora entro la prima metà del Trecento; tuttavia esiste la possibilità che gli affreschi siano stati eseguiti più tardi, ai tempi dell'abate senese Bartolomeo, quando questi, come attesta il Chronicon Sublacense (RIS, XXIV, 1738, coll. 965-966), lasciato il priorato perugino di Santa Croce a monte Bagnolo, si trasferì nel 1362 nel monastero sublacense del Sacro Speco. Sulla stessa linea stilistica si deve situare la grande Crocifissione, purtroppo molto frammentaria, nella cappella di S. Gregorio nella Sapienza Vecchia a P., dove la qualità si solleva alquanto e dov'è anche il ritratto del committente, il cardinale Niccolò Capocci. Non è irragionevole pensare che da tale contesto sia sortito quello Stefano perugino il quale, nel 1369, affrescava due cappelle in Vaticano insieme a Matteo Giovannetti, Giovanni da Milano e Giottino, su commissione di Urbano V (1362-1370), quando questi cercava di ricondurre a Roma la sede papale (Crowe, Cavalcaselle, 1883, p. 108).A parte tali episodi, quasi ignorati dalla critica, si ha l'impressione che nella seconda metà del secolo la pittura a P. sia entrata in una fase involutiva. Un modesto pittore, dai tratti fortemente popolareschi, affrescò, in un ambiente adiacente alla chiesa di S. Maria della Colombata, un ciclo cristologico dove sono evidenti le relazioni con le miniature dello Speculum humanae salvationis (Parigi, Ars., 593; Scarpellini, 1985). A caratteri ancora riferibili alla bottega attiva nel Sacro Speco, ma su di un piano più basso, e più tardi, sono gli affreschi con Storie di s. Gioacchino e s. Anna in una cappella di S. Agostino. In un'altra cappella della stessa chiesa, le Storie di s. Antonio Abate appartengono a un altro pittore influenzato dall'ambiente fabrianese, tanto da essere state collegate ad Allegretto Nuzi insieme agli affreschi della cappella Guidalotti di S. Domenico (Boskovits, 1973, pp. 18-19). Assai mediocre è anche il Maestro di S. Giuliana, attivo sin dagli ultimi anni sessanta in S. Domenico, autore dell'affresco commemorativo (1376) con la Consegna del capo della santa alle monache di quel monastero (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) e di alcuni affreschi nei dintorni della città, tra cui vanno ricordati, per l'estensione e per lo svolgimento del soggetto, la Passione di Cristo (1393) nell'oratorio di S. Andrea a Bettona (Fratini, 1993). Non molto superiore a lui è il pressappoco coevo Pellino di Vannuccio, il quale si firma e si data (1377) negli affreschi di S. Agostino e che fu camerlengo dei pittori nel 1402 (Gnoli, 1923, p. 237), anch'egli un nostalgico della cultura artistica del primo Trecento, in particolare dell'opera di Pietro Lorenzetti.Nella seconda metà del secolo si accentuò il fenomeno dei pittori forestieri operanti in città e nei dintorni. Un polittico (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), di incerta provenienza, è stato assegnato ad ambiente pisano e recentemente attribuito, sia pure dubitativamente, a Giovanni di Nicola (Labriola, 1994). Ma P. continuò a essere soprattutto frequentata da maestri senesi: Madonna con il Bambino di Andrea di Vanni d'Andrea (Perugia, Mus. Capitolare); Madonna con il Bambino di Lippo Vanni (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), già in S. Domenico; due trittici di Bartolo di Fredi (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria), uno proveniente da S. Domenico e l'altro dalla chiesa del Carmine. La presenza più significativa di tale scuola pittorica è indubbiamente quella di Taddeo di Bartolo, che operò a P. agli inizi del sec. 15° ed eseguì, nel 1403, il grande polittico a due facce per S. Francesco al Prato, conservato a P. (Gall. Naz. dell'Umbria), insieme a una piccola Annunciazione e a una Pentecoste proveniente da S. Agostino e anch'essa firmata e datata 1403.Mancano quasi del tutto tracce consistenti della presenza a P. di maestri fiorentini, mentre da Orvieto giunsero pittori tra 14° e 15° secolo. Fin dal 1371 un maestro che mostra tratti caratteristici di quella cultura pittorica, e che è stato talvolta riconosciuto in Andrea di Giovanni, eseguì nella chiesa della Madonna delle Grazie, nella vicina Magione, un affresco con la Madonna, il Bambino, otto angeli e tre donatori. A P. lavorarono Pietro di Puccio, cui si deve una Crocifissione frammentaria (1398) in una cappella di S. Agostino, e Cola Petruccioli, il quale fissò in città la sua residenza e vi rimase per ca. un ventennio, fino alla morte nel 1401 (Gnoli, 1923-1924). Nel discrimine tra i due secoli la sua bottega - dove dovette essere allevato il figlio Policleto, anch'egli pittore - divenne la più importante tra quelle attive in questa zona dell'Umbria; il maestro, infatti, assunse commissioni per affreschi in S. Claudio a Spello (1391-1393) e in S. Lorenzo ad Assisi (1394; Padovani, 1982, p. 661). A P. lavorò in S. Domenico, dove nella tribuna restano due frammenti di affresco, forse relativi a un ciclo dedicato alla Vergine. Nella cornice di uno di questi, nella parte inferiore di un'Annunciazione, il pittore si ritrasse nell'atto di intingere il pennello in un vasetto che tiene in mano. Sempre in S. Domenico, nella cappella di S. Tommaso, Cola Petruccioli dipinse un affresco votivo (1396) con il Martirio di s. Pietro di Verona. Altra importante impresa da ricondurre nell'ambito del suo stile è la decorazione del salone del palazzetto Isidori in piazza Morlacchi, da dove sono stati distaccati, alla fine del secolo scorso, un'Annunciazione e un complesso ciclo di Virtù e Vizi (Budapest, Szépművészeti Múz.; Previtali, 1966), mentre altri episodi frammentari con rappresentazioni delle Arti ed episodi mitologici sono riapparsi di recente in loco al di sotto dello scialbo. Si tratta di uno dei più importanti cicli del protoumanesimo cortese, da porre in rapporto con le decorazioni di palazzo Trinci a Foligno (secondo-terzo decennio del sec. 15°). Si entra così in una fase in cui dominava a P. il gusto internazionale - con la presenza di Ottaviano Nelli, di Gentile da Fabriano, dei Salimbeni, di Antonio Alberti e di Lello da Velletri - e che sarebbe continuata almeno fino al quinto decennio del secolo.
Bibl.:
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Risalgono all'inizio del sec. 13° due antifonari certamente perugini (Perugia, Bibl. Capitolare, 15, 37): le elaborate lettere a tralci vegetali su fondini d'oro che li decorano, se trovano rispondenze in prodotti della scultura locale, come per es. nei girali del portale della facciata meridionale del duomo di Foligno, gareggiano per ricchezza con alcuni prodotti degli ateliers normanni di Sicilia, come un epistolario e un evangeliario (Messina, Bibl. Painiana, 10, 11).Con il pieno sec. 13° a P. si registra la nascita di numerose botteghe di miniatori; testimonianze di questa attività sono le serie dei corali di S. Domenico e di S. Lorenzo. Una prima serie di antifonari domenicani (Perugia, Bibl. Augusta, 2791, 2792, 2794, 2797, 2798), pur adottando consuetudini decorative simili a quelle dei miniatori bolognesi, è eseguita con modi comparabili a quelli di pittori perugini coevi (1280-1290), quale il Maestro del Farneto. Ma assai più rilevante appare la successiva imponente serie di antifonari eseguiti sempre per S. Domenico, conservata quasi per intero a P. (Bibl. Augusta, 2781-2789, 2791, 2796), più alcuni fogli staccati. Essi sono l'opera di due ateliers di miniatori che operarono contemporaneamente, giungendo, per le lettere decorate e le loro code a drôleries, a formule decorative poi canoniche a P. per tutto il Trecento. Tra essi, il Primo miniatore perugino (Longhi, 1966) è certo una personalità tra le più alte dell'arte italiana nello scorcio tra Duecento e Trecento; la sua opera è stata individuata anche in un pontificale romano (Bari, Arch. di S. Nicola, 11), donato da Carlo II d'Angiò (1254-1309) alla basilica di S. Nicola a Bari forse nel 1296. La sua cultura ha come base l'attività dei frescanti che decorarono la basilica di S. Francesco ad Assisi nel nono decennio del sec. 13°, Cimabue in particolare; ma un peso rilevante hanno in lui anche le suggestioni ricavate da artisti che accentuavano, con semplificazioni mimiche e gesti magniloquenti, la drammaticità delle situazioni, quali a Firenze Coppo di Marcovaldo e in Umbria il Maestro di S. Francesco o il miniatore di un messale di Assisi (Bibl. Capitolare, 8), datato 1273.Personalità notevole è anche il Secondo miniatore perugino attivo in questi antifonari; in tal caso ci si trova di fronte alla produzione iniziale di un maestro che, ca. venti anni dopo, e comunque dopo il 1317, eseguì molte miniature negli antifonari di S. Lorenzo di P. (Perugia, Bibl. Capitolare, 7, 9, 13, 14, 45) e che è chiamato in questa fase Primo maestro dei corali di S. Lorenzo; si tratta di un artista (confuso per alcune produzioni con il pur affine pittore Marino da P.) seguace stretto del Primo miniatore, ma dalla cultura e dagli interessi ben differenziati: egli accolse con entusiasmo la lezione plastica e spaziale del Giotto assisiate e si aggiornò successivamente sulle novità di Pietro Lorenzetti e Simone Martini. Tra le altre sue produzioni più tarde sono da segnalare un corale per il duomo di Orvieto (Mus. dell'Opera del Duomo) e la Matricola dei Notai di P. (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AC.XIV.37), con miniature risalenti forse al 1310.Un altro artista, il Secondo maestro dei corali di S. Lorenzo, collaborò alla pari con il primo nei cinque antifonari superstiti succitati; a lui si devono anche un breviario (Perugia, Bibl. Capitolare, 38), eseguito per la medesima chiesa perugina, e gli antifonari, oggi assai lacunosi, della cattedrale di Gubbio (Arch. Capitolare). Qui si è dinanzi a un professionista di non grande respiro, il quale, in analogia con il pittore senese Meo di Guido, con cui pure è stato confuso, trasse, sulla scia del suo più capace collega, formule assai semplificate del repertorio dei frescanti di Assisi, in specie di Simone Martini.Molto è ancora da fare per rintracciare fuori dell'Umbria prodotti perugini; una fortunata trouvaille di una iscrizione in un messale (Cortona, Bibl. Com., 14) ha permesso di attribuire (Degl'Innocenti Gambuti,1977) tale codice, e alcuni stilisticamente connessi, a Venturella di Pietro, miniatore il cui nome appare in documenti perugini dal 1311 al 1324.Con la riemersione sul mercato antiquario della Matricola dei Notai di P. del 1333 si è venuti a conoscenza di una serie di miniature firmata "Vannes Baldoli et socii fecerunt me". Le immagini fanno serie con molte altre, presenti in matricole e altri codici, conservati a P. e altrove, e dimostrano come Vanni di Baldolo, documentato a P. come miniatore e pittore dal 1332 al 1343, fosse personalità centrale nel gruppo di artefici che miniava per le esigenze del mercato locale ed esterno. Tra i prodotti più notevoli sono da citare la vivace decorazione di due Matricole dei Notai perugini (Perugia, Bibl. Augusta, 972, 973), una del 1343 e l'altra di poco successiva, e un messale per S. Andrea a Orvieto (Roma, Casanat., 704).Anche nei decenni centrali del Trecento abbondano, in Umbria e fuori, codici che ragionevolmente sono stati attribuiti a miniatori perugini, come la bella serie degli antifonari per S. Michele Arcangelo a Stroncone (prov. Terni), oggi conservati presso il locale Municipio, o la celebre Bibbia moralizzata (Parigi, BN, fr. 9561), per la quale si pensa a un'esecuzione a Napoli; tra gli altri, da segnalare il messale di S. Maria del Verzaro a P. (Bibl. Capitolare, 8), che ridusse, verosimilmente verso il 1330, a cifra severa patetismi derivati essenzialmente da Pietro Lorenzetti.Risalgono a poco dopo la fondazione del monastero, nel 1366, i più antichi dei corali di Montemorcino, sede perugina dei Camaldolesi, già conservati presso Asciano (prov. Siena) a Monte Oliveto Maggiore (Bibl. monumentale, I, Y) e trafugati in tempi recenti. In essi un miniatore fortemente caratterizzato, seguace dei modi del Primo maestro dei corali di S. Lorenzo, esibiva una sua cifra caratteristica.L'abbondanza di opere firmate e di documenti rende meno ardua la ricostruzione dell'opera di Matteo di Ser Cambio (v.), attestato anche come orafo. Proviene da un foglio staccato da una Matricola perugina la sua prima opera firmata, datata 1370, una miniatura con la Madonna in trono (Pesaro, Mus. Civ.), e sono sue opere tipiche, oltre alla Matricola dell'Arte del Cambio (Perugia, Collegio del Cambio, 1), la Matricola dei sarti del 1368 (Londra, BL, Add. Ms. 21965), la Matricola dell'Arte della Mercanzia del 1377 o 1403 (Perugia, palazzo Com., Arch. della Sala del Collegio della Mercanzia, 2), lo Statuto dei maestri di pietra e legnami del 1390 (Perugia, Bibl. Augusta, 977). Una sua attività di decoratore per opere meno legate alla tradizione locale è attestata da codici come la Mishnēh Tōrāh in ebraico (Gerusalemme, Hebrew Univ., hebr. 4° 1193).
Anche se i documenti sono ricchi di indicazioni sulla presenza di orafi locali e forestieri a P., ciò che resta è ben poco, seppure spesso di grande qualità; d'altra parte, è mancata finora una ricognizione capillare dei materiali sussistenti e le attuali conoscenze si basano soprattutto su un gruppo di oggetti confluiti nella Gall. Naz. dell'Umbria.Tra le opere più antiche è da ricordare una frammentaria coperta di evangeliario (Perugia, Mus. Capitolare), originariamente custodia di un manoscritto (Perugia, Bibl. Capitolare, 1), residuo ormai poco giudicabile di un lavoro risalente alla prima metà del 13° secolo.Il complesso residuo più notevole è costituito da due calici e da una serie di patene, decorati con smalti traslucidi, provenienti dalla chiesa di S. Domenico (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria). L'opera più antica è certo il calice con patena donato alla chiesa dal papa Benedetto XI (1303-1304), che, per l'impostazione generale 'architettonica' e per la tipologia delle decorazioni a fogliami, ricorda il calice di Guccio di Mannaia (Assisi, Tesoro Mus. della Basilica di S. Francesco); gli smalti sono invece di stile del tutto differente e potrebbero essere stati eseguiti da un maestro perugino, di cultura ancora grecizzante; anche nell''architettura' non mancano richiami a un monumento tipico di P., come la fontana Maggiore. Sono invece prodotti senesi, identificati sulla base delle firme trascritte nelle descrizioni dei perduti calici cui pertinevano, due delle patene: una, con la Risurrezione, attribuibile a Tondino di Guerrino e Andrea Riguardi, l'altra, con l'Annunciazione, a Ugolino di Vieri e Viva di Lando da Siena.Sempre proveniente da S. Domenico è un calice con patena (Perugia, Gall. Naz. dell'Umbria) firmato da Cataluccio di Pietro da Todi, un orafo documentato in patria fin dal 1368 e presente a P. dal 1372 al 1397; questo lavoro, che segue, abbastanza fedelmente, la struttura del calice di Guccio di Mannaia, presenta numerosi e ricchi smalti traslucidi, per i quali si sono finora messi in rilievo soprattutto i legami con l'arte senese.È datato 1376 da un'iscrizione il reliquiario di s. Giuliana, proveniente dall'omonima chiesa di P. (Gall. Naz. dell'Umbria); mal giudicabile per gli smalti, esso invece è apprezzabile per la singolare struttura a tempietto esagonale, confrontabile con architetture coeve.
Bibl.: U. Gnoli, L'arte umbra alla mostra di Perugia, Bergamo 1908; id., Pittori e miniatori dell'Umbria, Spoleto 1923 (rist. Foligno 1980); Toesca, Trecento, 1951; Mostra storica nazionale della miniatura, a cura di G. Muzzioli, cat., Roma 1953 (Firenze 19542); M. Salmi, La miniatura italiana, Milano 1955 (19562); F. Rossi, Capolavori di oreficeria italiana dall'XI al XVIII secolo, Milano 1957; C.G. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d'Italia, 5 voll., Roma 1958-1974; R. Longhi, Apertura sui trecentisti umbri, Paragone 17, 1966, 191, pp. 3-17; A. Caleca, Miniatura in Umbria, I, La Biblioteca Capitolare di Perugia, Firenze 1969; Galleria Nazionale dell'Umbria, I, Dipinti, sculture e oggetti di età romanica e gotica, a cura di F. Santi, Roma 1969; M. Degl'Innocenti Gambuti, I codici miniati medievali della Biblioteca Comunale e dell'Accademia etrusca di Cortona, Firenze 1977; P. Scarpellini, Osservazioni su una Crocefissione miniata nell'Antifonario 2798 della Biblioteca Augusta di Perugia, in La miniatura italiana in età romanica e gotica, "Atti del I Congresso di storia della miniatura italiana, Cortona 1978", Firenze 1979, pp. 223-238; F. Todini, Miniature del Maestro di Paciano, Esercizi 3, 1980, pp. 39-42; Francesco d'Assisi. Documenti e archivi, codici e biblioteche, miniature, cat. (Perugia-Todi-Foligno 1982), Milano 1982; F. Todini, Pittura del Duecento e del Trecento in Umbria e il cantiere di Assisi, in La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, Milano 1986, II, pp. 375-413; id., La pittura umbra. Dal Duecento al primo Cinquecento, 2 voll., Milano 1989; M. Assirelli, E. Sesti, La biblioteca del Sacro Convento di Assisi, II, I libri miniati del XIII e del XIV secolo, Assisi 1990; D. Gordon, Perugian Fourteenth-Century Manuscript Illumination: Vannes di Bartolo and his Associates, Apollo 134, 1991, pp. 327-332; E. Lunghi, Per la fortuna della basilica di S. Francesco ad Assisi: i corali domenicani della Biblioteca Augusta di Perugia, Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria 88, 1991, pp. 43-68; E. Parlato, La pittura medievale in Umbria, in La pittura in Italia. L'Altomedioevo, a cura di C. Bertelli, Milano 1994, pp. 180-196.A. Caleca