Verdelot, Philippe
Della vita di V. si sa pochissimo (le notizie più aggiornate sono in Amati-Camperi 2001). Poiché lo si trova talvolta indicato come «Deslouges», Anne-Marie Bragard (1964) ha ipotizzato che il musicista fosse nativo di Les Loges, località a est di Parigi, appunto nei pressi di Verdelot. Ignota è anche la data di nascita: l’ipotesi più accreditata la pone attorno al 1485 (Pirrotta 1969, nuova ed. 1975; Slim 1978), benché manchino evidenze documentarie. La presenza di V. a Firenze è attestata dal 1521, ma è probabile che il compositore si trovasse in Italia già da diversi anni. Una testimonianza di Giorgio Vasari lo colloca a Venezia nel 1511; qui infatti Sebastiano del Piombo avrebbe realizzato «alcuni ritratti [...] e fra gl’altri quello di Verdelotto franzese, musico eccellentissimo, che era allora maestro di cappella in San Marco, e nel medesimo quadro quello di Ubretto suo compagno cantore» (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, 3° vol., t. 2, 1568, p. 340). Attualmente si ritiene che Vasari si riferisca a una tela del Kaiser-Friedrich Museum di Berlino, andata distrutta nel 1945 e nota oggi grazie a una riproduzione fotografica in bianco e nero (Cummings 2004). All’epoca cui si riferisce Vasari la direzione di San Marco era però affidata a Pietro de Fossis; d’altra parte, nella primavera del 1511 Sebastiano del Piombo si trovava a Roma (città con la quale V. mantenne in seguito stretti rapporti) ed è quindi presumibile che qui, e non a Venezia, fosse stato realizzato il ritratto (Amati-Camperi 2001). Quanto a «Ubretto», è assai probabile che si tratti del cantore registrato presso il duomo di Firenze come «Bruet» nel 1523, e come «Urbech» nel 1527: la familiarità tra i due musicisti è peraltro confermata da Anton Francesco Doni, là dove, nei Marmi, immagina un dialogo tra V., la cantatrice Zinzera e alcuni popolani, e fa dire al compositore: «Almanco ci fossero Bruett, Cornelio et Ciarles, che noi diremmo una dozzina di Franzesette, et pasteggieremmo quà questo mucchio di plebei» (2° vol., 1552, p. 33; dove «Cornelio» è Cornelio Senolart, che fu con V. a Roma, e «Ciarles» è con tutta probabilità Charles d’Argentille, la cui presenza è attestata a Firenze tra il 1526 e il 1527).
V. è registrato come maestro di cappella presso il battistero di Firenze a partire dal 1521 stile fiorentino (dunque, al più tardi, dal marzo 1522); in precedenza si trova a Roma, come attesta una lettera del cantore della cappella pontificia Niccolò de’ Pitti, datata 25 maggio 1521, con la quale il musico avvisa il cardinale Giulio de’ Medici di avergli inviato V. perché lo accolga nella sua cerchia (Sherr 1984). Almeno a partire dall’aprile 1523 V. risulta inoltre assunto come maestro di cappella del duomo di Firenze. Tale incarico è attestato fino al 1527, mentre l’ultimo documento relativo al battistero risale a due anni prima (il che non esclude un ulteriore protrarsi dell’attività). Due assenze di V. da Firenze sono registrate, rispettivamente, nel luglio del 1523 (la destinazione è ignota) e tra il dicembre del 1523 e il gennaio del 1524. In quest’ultima occasione V. è a Roma al servizio del cardinale de’ Medici, divenuto nel frattempo papa Clemente VII. Di nuovo a Firenze dal successivo mese di aprile, alla fine del 1524 V. inizia la collaborazione con Machiavelli. Nel marzo del 1525 si registra un’ulteriore, non meglio precisabile, assenza di V. da Firenze, mentre nel 1526 compaiono le sue prime «canzoni» a stampa. L’ultimo documento relativo alla vita di V. è un pagamento per il servizio in S. Maria del Fiore del giugno 1527; dopo quella data si perde ogni traccia diretta del compositore, il quale certamente non doveva più essere in vita quando Ortensio Lando scriveva che «Verdeloto Francese fu ne suoi giorni raro» (Sette libri de’ cataloghi a varie cose appartenenti, 1552, p. 510). È stato ipotizzato (Slim 1972) che V. possa essere rimasto vittima della peste che si abbatté su Firenze proprio nel 1527; altri, sulla base delle possibili implicazioni politiche di alcuni testi musicati da V. (per le quali si veda oltre), non escludono che il musicista abbia vissuto gli eventi della seconda Repubblica fiorentina (Lowinsky 1950; F. Saggio, in Il primo libro de’ madrigali a quattro voci (1533) di Philippe Verdelot..., 2013). Doveva comunque essere ancora in vita nel dicembre del 1527, quando Clemente VII fuggiva dalla Roma saccheggiata dai lanzichenecchi, poiché musicò il sonetto Trist’Amarilli mia, nel quale è stata unanimemente riconosciuta un’allegoria di quell’evento (Campagnolo 1996). Allo stato attuale delle ricerche, dunque, la morte di V. può esser collocata a Firenze o a Roma tra il 1527 e il 1530.
La generazione dei maestri franco-fiamminghi che si afferma nell’ultimo scorcio del Quattrocento (Josquin Desprez, Jacob Obrecht, Heinrich Isaac e altri) determina una serie di cambiamenti stilistici nell’ambito della polifonia sacra e profana. In primo luogo, la composizione su cantus firmus, che consiste nel costruire un brano polifonico a partire da una voce di tenor recante per esteso una melodia preesistente, lascia progressivamente il posto all’applicazione sistematica del principio dell’imitazione, che comporta la circolazione di brevi motivi (tratti anch’essi da un canto preesistente, ma talvolta creati ex novo) tra tutte le voci del complesso polifonico. In ambito sacro assume un peso sempre maggiore il mottetto, che abbandona il rigore strutturale dell’epoca precedente in favore di una fluente lettura polifonica del testo latino. La grande eredità della polifonia quattrocentesca, la messa ciclica (nella quale tutte le sezioni dell’ordinarium missae sono costruite attorno al medesimo cantus firmus), tende sì a diminuire in termini quantitativi rispetto al mottetto, ma non manca di introdurre a sua volta importanti elementi di novità, il più significativo dei quali è la tecnica della parodia, consistente nell’assumere un brano polifonico preesistente (e di altro autore) come punto di partenza per la composizione.
Per quanto riguarda la polifonia colta su soggetto profano, dov’è ancora predominante la lingua francese, il fenomeno più radicale e vistoso è l’abbandono delle forme fisse (soprattutto il rondeau) che avevano caratterizzato la chanson del pieno Quattrocento. Al posto degli schemi formali predeterminati dai testi poetici, subentrano nella nuova chanson (analogamente a quanto avviene nel mottetto) letture musicali ininterrotte di testi dall’assetto metrico-rimico assai meno costringente. Sempre in ambito profano, un capitolo a parte è costituito dall’elaborazione polifonica di melodie popolareggianti, genere molto apprezzato dalle coltissime classi dirigenti: si diffonde in Francia e in Italia, ma dà luogo anche al consolidarsi di polifonie profane nazionali e locali (Spagna, aree di lingua tedesca). Denominatore comune di queste innovazioni è un’equilibrata sintesi tra il magistero tecnico della tradizione franco-fiamminga e le nuove istanze umanistiche, che privilegiano la dimensione oratoria su quella formale (per un quadro d’assieme e per un’antologia di musiche si veda Atlas 1998). Tale nuovo orientamento stilistico, unitamente al crescente affermarsi di un’autonoma produzione strumentale dotata d’una sua specifica notazione, si propaga con inedita ampiezza grazie anche all’avvento della stampa musicale: ne è pioniere Ottaviano Petrucci, attivo dal 1501 a Venezia e, dopo il 1509, nella natia Fossombrone (Boorman 2006). Anche la confezione del testo musicale subisce in quest’epoca una trasformazione: tramonta progressivamente il libro corale, che affianca su due facciate contigue tutte le voci d’una composizione, e si fa strada la muta di libri-parte, costituita da un insieme di fascicoli separati contenenti una voce ciascuno.
Dal punto di vista della committenza, l’Italia è senza dubbio la patria della polifonia: le Signorie gareggiano per assicurarsi i migliori cantori e i migliori compositori d’oltralpe. A tale interessamento dei mecenati non corrisponde tuttavia un’analoga dedizione da parte dei musicisti locali, che per buona parte del Quattrocento rifuggono dalla scrittura polifonica, privilegiando la trasmissione orale e il cantare a voce sola sostenuto da uno strumento (Strohm 1993). Un’importante inversione di tendenza si registra, a cavallo del secolo, con il genere della frottola, alla quale si dedicano in particolare i veronesi Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara, patrocinati a Mantova dalla marchesa Isabella d’Este. La frottola si diffonde grazie alle stampe di Petrucci e, pur mantenendo tratti della tradizione del canto accompagnato, mostra una nuova concezione dell’insieme vocale e un raffinato gusto letterario (Tibaldi, in Petrarca in musica, 2005).
La passione e la competenza di Lorenzo il Magnifico rendono Firenze un centro d’intensa vita musicale (La musica a Firenze, 1993), che fa capo a quattro tipi di committenza tra loro costantemente comunicanti: la committenza privata, quella ecclesiastica, quella delle corporazioni e quella dello Stato (D’Accone 1994). Ai primi due tipi si deve la polifonia scritta profana e sacra che, in linea con quanto avviene nel resto della penisola, si avvale di maestri oltremontani (nello specifico, Alexander Agricola e, soprattutto, Isaac). Dalla committenza delle corporazioni (decisiva anche in ambito ecclesiastico) derivano le pratiche devozionali dei laudesi, che fanno riferimento a una secolare tradizione orale, mista di monodia e polifonia, e mantengono un’immediatezza musicale spesso affidata al travestimento spirituale di canti profani dal tono popolaresco (prassi del «cantasi come»). Lo Stato, infine, impiega araldi professionisti, suonatori dilettanti di ottima formazione (trombetti e pifferi), poeti-improvvisatori e strumentisti virtuosi (liuto, arpa). La vita musicale fiorentina è altresì rigogliosa nelle piazze, grazie all’attività di «cantimpanca» come Antonio di Guido (molto apprezzato da Lorenzo), che improvvisano versi cantati accompagnandosi (o facendosi accompagnare) con la lira da braccio o la viola (Luisi 1996). Un particolare rilievo assume infine il canto carnascialesco: a carnevale, testi intrisi di doppi sensi erotici (tra i quali spiccano quelli dello stesso Lorenzo) vengono intonati con musica popolareggiante, monodica o moderatamente polifonica; vi contribuiscono autori colti, tra i quali lo stesso Isaac. Con la fase della Repubblica dominata da Girolamo Savonarola, tutta la musica profana è aspramente avversata; ma anche la polifonia scritta d’ambito sacro perde il consenso delle istituzioni, dacché il domenicano si pronuncia in favore di semplici intonazioni che non ostacolino nel fedele la comprensione del testo: così, per es., Isaac lascia Firenze nel 1496 per farvi ritorno nel 1502. L’esigenza di semplicità fa sì che, ancora in questo periodo, i canti carnascialeschi offrano materiale musicale per le laude, grazie alla citata pratica del «cantasi come»; per converso, i «bruciamenti delle vanità» del 1497-98 cancellano pressoché ogni traccia scritta delle versioni profane originali, tanto che oggi è possibile ricostruirle solo a fatica, spesso in via ipotetica, oppure risalendovi a ritroso a partire dai travestimenti laudistici pubblicati in pieno Cinquecento. Savonarola e i suoi seguaci hanno inoltre un loro canto distintivo: è l’inizio del salmo 132, Ecce quam bonum et quam iocundum habitare fratres in unum, intonato anch’esso su una semplice melodia e destinato a diventare nel Cinquecento un simbolo dei piagnoni (Macey 1998). Nel frattempo, tuttavia, si è instaurata anche a Firenze una tradizione locale di polifonia scritta su poesie profane in lingua italiana: inizialmente un contributo decisivo giunge dagli oltremontani (come Johannes Pintelli e ancora Isaac, che intonano tra l’altro Poliziano), ma con il nuovo secolo tale tradizione è proseguita, auspice soprattutto il poeta Lorenzo Strozzi, da fiorentini quali Alessandro Coppini, Bartolomeo Degli Organi e Bernardo Pisano (Music of the Florentine Renaissance, ed. F.A. D’Accone, 1°-2° voll., 1966-1967). Con la restaurazione medicea del 1512, inoltre, anche il canto carnascialesco conosce una nuova stagione.
Nella produzione sacra di V. prevalgono, per quantità e importanza, i mottetti (Böker-Heil 1967), a fronte di due sole messe e di un isolato Magnificat. Nel complesso, i mottetti di V. costituiscono un’importante fase di passaggio verso la sistematica applicazione del principio dell’imitazione tipica della metà del 16° sec. (Schmidt-Beste 2006). Per quanto attiene alla produzione profana, è da rilevare innanzitutto la scarsissima incidenza della chanson su testo francese, genere rappresentato da tre soli brani che mostrano una concezione della chanson ancora rivolta al passato (Slim, La Via 2001). La parte preponderante dell’opera di V. è però costituita, con circa centocinquanta componimenti, dalla musica vocale profana su testo poetico in lingua italiana, per le cui caratteristiche il compositore francese è ritenuto tra i fondatori di quel nuovo genere che sarà detto madrigale. Sul piano delle scelte poetiche, pochi ancora, rispetto al madrigale seriore, i testi petrarcheschi: sei, tra i quali spicca la canzone politica Italia mia. In prevalenza, «i poeti scelti da Verdelot appartengono [...] ad ambienti che egli stesso frequentava»; e del resto «a quegli ambienti erano destinate le sue musiche» (F. Saggio, in Il primo libro de’ madrigali a quattro voci..., cit., p. 21). Nella varietà metrica dei testi del proto-madrigale (Harrán 1969) V. predilige del resto già il madrigale poetico libero. Molti, infine, i testi a tutt’oggi non attribuiti (per un catalogo aggiornato dei testi intonati da V. cfr. il sito del Repertorio della poesia italiana in musica [RePIM]). Caratteristico del protomadrigale è l’organico a quattro voci, ma V. si distingue anche nella composizione a cinque e a sei, che comporta in genere una maggiore complessità del tessuto imitativo.
La diffusione delle composizioni di V. vivente il musicista è affidata, con pochissime eccezioni, alla tradizione manoscritta. Tra le numerose fonti andranno citati almeno i cinque libri-parte «Newberry-Oscott» (d’ora in poi N.O.), conservati tra Chicago (Newberry library, Case ms. VM 1578.M91; cfr. Slim 1972) e Sutton Coldfield (Oscott college, ms. Case B No: 4; cfr. Slim 1978), che costituiscono «la fonte più ricca, ed insieme una delle più precoci, per i madrigali di Verdelot» (Fenlon, Haar 1988, trad. it. 1992, p. 47). L’ultimo brano contenuto nel codice, il mottetto adespoto Nil maius superi vident, è costruito su di un soggetto ricavato dalle parole «Henricus dei gratia Anglie rex», il che ha consentito di ipotizzare che il manoscritto fosse stato recato in dono a Enrico VIII in occasione della missione diplomatica del 1527-28, con la quale la Repubblica fiorentina sperava di ottenere un aiuto dal sovrano inglese (Slim 1972). Nel complesso, lo stato delle fonti manoscritte (un elenco completo è in Fenlon, Haar 1988, non riprodotto in trad. it.) conferma «la duplice tesi che situa in Firenze il centro primario del protomadrigale e che vede nella sua tradizione manoscritta una forma di trasmissione prioritaria ed indipendente rispetto alla stampa» (Fenlon, Haar 1988, trad. it. 1992, p. 54).
Per quanto concerne l’esordio a stampa della musica di V., la presenza del madrigale Non po far morte in una stampa di Petrucci pervenutaci frammentaria aveva fatto supporre una datazione alta, poiché si riteneva che l’editore fossombronese avesse cessato l’attività nel 1520; ma successive ricerche (Gialdroni, Ziino 2001) hanno consentito di datare il frammento in questione attorno al 1533 (Boorman 2006). Le prime manifestazioni vanno dunque ricercate nelle raccolte Messa, mottetti, canzoni [...] libro primo e Libro primo de la Fortuna, databili 1526 (la prima con certezza, l’altra in via ipotetica). Se qui V. è ancora rappresentato con tre brani in tutto, nei Madrigali de diversi excellentissimi musici, libro primo de la serena (1530) i brani salgono a otto. La grande fortuna editoriale di V. è però tutta postuma e veneziana: tra il 1533 e il 1537 escono primo, secondo e terzo libro dei madrigali a quattro voci, nel 1538 madrigali a cinque voci di V. e altri autori, nel 1541 i madrigali a sei; le ristampe compaiono fino al 1566. Particolarmente importante, inoltre, per la ricezione veneziana di V., è la trascrizione per voce e liuto dei madrigali del primo libro a quattro realizzata dal grande Adrian Willaert e pubblicata nel 1536. È bene tuttavia ribadire che niente di questa fortuna editoriale è riconducibile alla volontà dell’autore, come si è visto probabilmente all’epoca non più in vita: non ci si può pertanto affidare a essa né per azzardare ordinamenti cronologici, né per inferirne la consapevolezza ‘musicologica’ da parte di V. di aver inventato un nuovo genere. Bisogna infatti ricordare che è grazie a questa fortuna postuma se «le composizioni di Verdelot assumono la definitiva denominazione di madrigali, mentre per tutti gli anni Venti esse erano comunemente chiamate canzoni» (F. Saggio, in Il primo libro de’ madrigali a quattro voci..., cit., p. 8; poiché entrambi i termini si riferiscono anche a delle forme metriche, d’ora in avanti si ricorrerà per queste ultime all’iniziale maiuscola). Tutto ciò non toglie, ovviamente, che tale fortuna poggiasse sull’effettiva novità di scrittura del musicista francese, al quale dunque continua a spettare la qualifica di ‘inventore’ del madrigale.
Il mottetto a sei voci di V. Laetamini in domino (Roma, Biblioteca Vallicelliana, SI 35-40) utilizza nelle voci interne il versetto iniziale del salmo 132, ovvero il caratteristico Ecce quam bonum dei piagnoni; è stato pertanto ipotizzato un orientamento filorepubblicano di V. (Lowinsky 1950). La tesi è stata variamente contestata (Bragard 1964; Böker-Heil 1967), ma più recentemente è stato messo in luce che il brano di V. si inserisce in un’ampia tradizione di polifonia colta d’ispirazione savonaroliana, e che il soggetto ostinato associato da V. al salmo 132 è strettamente imparentato con la semplice melodia di una lauda sul medesimo salmo composta dal piagnone Luca Bettini (Macey 1998). Sempre a sostegno dell’immagine antimedicea di V. vi sarebbero, oltre alla massiccia presenza delle sue musiche nei citati libri-parte N.O., i testi di altri brani ascrivibili all’ultima fase creativa del musicista, e in particolare: il salmo 30 In te domine speravi, oggetto dell’ultima meditazione condotta in carcere da Savonarola; il mottetto a s. Giovanni Sint dicte grates Christo / Est florentini populi, nel quale il verso «cessabit bellum externum, penuria, pestis» sembra rinviare alle tragiche vicende della seconda Repubblica; e il mottetto Congregati sunt inimici nostri / Disperde illos, che più in particolare potrebbe riferirsi all’assedio di Firenze. A una lettura ‘savonaroliana’ paiono prestarsi, infine, alcuni capitoli della produzione profana di V. (Gargiulo 2001). Se, tuttavia, sussistono elementi per ipotizzare in V. un orientamento favorevole alla repubblica, ne esistono almeno altrettanti, se non per smentirlo, almeno per relativizzarne le implicazioni rispetto alla vita sociale e alla carriera del compositore. Il primo e il più evidente di tali elementi è costituito, come si è visto, dai documentati rapporti di V. con il cardinale Giulio de’ Medici, proseguiti anche dopo l’elezione di questi al soglio pontificio. Dubbi sollevano anche alcune testimonianze postume, a cominciare da quella di Doni secondo la quale il musicista, ispirato da una burla condotta a Firenze ai danni di alcuni forestieri, avrebbe composto «un canto per carnesciale» (A.F. Doni, Marmi, cit., p. 34), attività, questa, in netto contrasto con l’ideologia dei piagnoni. Significativo è anche l’elogio incondizionato dell’antirepubblicano Cosimo Bartoli, che giunge a paragonare V. a Desprez (un elogio che l’autore, nella finzione del dialogo, attribuisce non a Pierfrancesco Giambullari, come sostenuto in Haar 1988, bensì a Piero da Ricasoli; cfr. C. Bartoli, Ragionamenti accademici [...], 1567, c. 36r). Più di uno studioso, infine, ha ipotizzato che V. frequentasse gli Orti Oricellari prima della loro chiusura nel giugno 1522. Un tenue appiglio per questa tesi è offerto ancora dal dialogo dei Marmi nel quale Doni immagina la presenza di V.: qui la Zinzera riferisce di una discussione svoltasi appunto negli Orti e concernente la vera natura della Laura petrarchesca (Marmi, cit., pp. 37-38); niente però, nel racconto, autorizza a ritenere che V. sia stato presente al dibattito. Semmai, è proprio la comprovata frequentazione di M. a suggerire un possibile rapporto tra V. e l’ambiente oricellario: ma ciò non implica che avesse avuto parte nella congiura antimedicea, se un anno e mezzo dopo si trovava a Roma presso Clemente VII. Non si dimentichi, infine, il ruolo decisivo svolto dagli Orti nell’accostare M. all’Umanesimo latino e neoplatonico che caratterizzava l’orizzonte culturale mediceo rispetto alla tradizione oligarchica. Analoghe inclinazioni paiono talvolta manifestarsi anche nella produzione profana di V. (La Via 2002), per cui è senz’altro corretto affermare che «le professioni di fede politica dei molti esponenti dell’élite culturale fiorentina con i quali Verdelot fu certamente in rapporto non possono esser schematicamente interpretate alla luce di una netta contrapposizione tra medicei e antimedicei» (Cummings 2004, p. 153).
Con il citato Libro primo de la serena esordisce nel 1530 la nuova accezione musicale del termine madrigale. Il termine perde ben presto di genericità, e individua l’espressione più elevata della polifonia profana in italiano, tale soprattutto da quando, entrata nella sua fase veneziana (anni Quaranta), risponde pienamente ai dettami del classicismo bembiano (Mace 1969). Caratteristiche principali del madrigale divengono allora: l’applicazione sistematica del principio di imitazione, che conferisce a tutte le voci eguale importanza; l’attenzione al dettato del testo a prescindere dalle sue connotazioni formali; il rifiuto delle regolarità ritmiche e delle ripetizioni orecchiabili che avevano connotato i generi popolareggianti in volgare (non importa quanto colti in termini socioculturali). «Di tale tensione verso i livelli stilistici superiori resta un’eco presso i teorici musicali nell’analogia tra madrigale e mottetto [...] e nella concezione che voleva quello modellato su questo» (P. Fabbri, introduzione a Il madrigale tra Cinque e Seicento, 1988, p. 13). Queste caratteristiche, storicamente accertate, hanno suggerito la prima tesi musicologica di rilievo sull’origine del madrigale, origine che si dovrebbe alla «trasformazione della frottola [...] in un costrutto polifonico a mo’ di mottetto con quattro voci di eguale importanza» lungo «un processo facile da cogliere come la metamorfosi di una crisalide in farfalla» (Einstein 1949, 1° vol., p. 121, cit. in Fenlon, Haar 1988, trad. it. 1992, p. 5). La tesi di Alfred Einstein ha il suo punto di maggior debolezza nel fatto di prendere in considerazione solo la tradizione a stampa, lasciando così scoperto il decennio 1520-30, che separa le frottole petrucciane dalle prime stampe madrigalistiche romane e veneziane; un decennio nel quale le poche sillogi pubblicate «mantengono vivo il predominio di un repertorio francese ed italiano ormai vetusto» (Fenlon, Haar 1988, trad. it. 1992, p. 33).
In seguito, Walter Rubsamen (1964) e Joseph Gallucci (1966) posero però l’attenzione sull’influenza che la concezione interamente vocale della polifonia, tipica della nuova chanson francese, aveva esercitato, tramite i maestri d’oltralpe che si erano cimentati con testi italiani, su autori quali Michele Pesenti e Sebastiano Festa e su generi come la villotta settentrionale e, a Firenze, il canto carnascialesco nella sua fase più avanzata; richiamando altresì l’importanza della tradizione manoscritta, tutt’altro che soppiantata, a questa altezza cronologica, dalla diffusione a stampa. Occorre tuttavia attendere il lavoro di Iain Fenlon e James Haar (1988) perché le fonti manoscritte vengano affrontate in maniera esauriente, mettendo in luce la centralità di Firenze (e in misura più ridotta di Roma) nella definizione del nuovo genere di musica profana, per la quale «non v’è ragione di attendere la prima comparsa del termine “madrigale” in un’edizione di musica a stampa» (trad. it. 1992, p. 14). I due studiosi si spingono poi fino a interpretare il madrigale delle origini come il risultato dell’influenza diretta della chanson tramite i gusti musicali di ambienti fiorentini sostanzialmente estranei alla sfera medicea, negandone al tempo stesso recisamente ogni relazione con la frottola. Ne risulta ridimensionato anche il ruolo della Musica sopra le canzone del Petrarca di Pisano, pubblicate da Petrucci nel 1520, da molti viste come una sorta di ‘anello mancante’ nell’evoluzione tracciata da Einstein: pur ammettendo che queste, «e le musiche profane del Carpentras e di Sebastiano Festa [...] sono [...] il punto di partenza appropriato per una storia del genere “madrigale”» (Fenlon, Haar 1988, trad. it. 1992, p. 14), su Pisano in particolare i due studiosi trovano difficile che «musiche così poco seducenti» abbiano potuto influenzare i madrigali di Costanzo Festa, Jacques Arcadelt e V. (1988, trad. it. 1992, p. 44). Un ruolo essenziale nell’immagine del protomadrigale tracciata da Fenlon e Haar è infine svolto dalla sua lettura politica in chiave filorepubblicana: pur ammettendo l’influenza dell’ambiente romano attorno a Leone X, si afferma infatti che «Firenze diventa il fulcro del nuovo stile [...] senza che peraltro i Medici c’entrino più di tanto» (1988, trad. it. 1992, p. 34). Si è già visto quali problemi storiografici ponga quest’ultima affermazione.
Gli approcci analitici al protomadrigale sviluppatisi dopo il lavoro di Fenlon e Haar, d’altro canto, hanno sottolineato «l’esigenza di selezionare un repertorio di comparazione» (Gargiulo, Mangani 2002, p. 53), incentrato in particolare proprio sulla musica profana in italiano della Firenze del primo Cinquecento. A proposito del trattamento della forma poetica della Ballata, per es., si è rilevato che V. è addirittura più incline dei predecessori fiorentini a ripetere la musica della ripresa nella volta (Mangani, Zackova Rossi 2001); mentre il suo contrappunto tende a rifuggire dalle eccessive complessità imitative, prediligendo al tempo stesso l’estrapolazione di bicinia con funzione dialogica (Gargiulo, Mangani 2002). In altri termini, alcuni dei tratti che nel clima della Venezia bembiana faranno del madrigale una sorta di mottetto con testo profano sono in V. ancora di là da venire. Se a ciò si aggiunge che l’insieme dei madrigali di V. non si presenta come un’unità compatta, ma mostra al suo interno orientamenti stilistici differenziati (Gargiulo 2001; La Via, in Petrarca in musica, 2005), sembra ragionevole concludere che «in quelle che furono le specifiche tradizioni musicali fiorentine [...] si riscontra [...] un continuum compreso tra gli antecedenti profani del madrigale da un lato e il madrigale stesso dall’altro» (Cummings 2004, p. 4).
La musica dovette rivestire per M. una notevole importanza (Chiesa 1969; Santarelli 2001): verso la fine dell’esistenza, giunse a raccomandare al figlio di durar «fatica in imparare le lettere et la musica» (M. al figlio Guido, 2 apr. 1527, Lettere, p. 455). Guido seguiva evidentemente il consiglio già da tempo, come si evince dalla risposta, dalla quale apprendiamo inoltre che fu allievo di Degli Organi, noto anche come Baccio Fiorentino: «comincierò questa Pasqua, quando Baccio sia guarito, a sonare e cantare e fare contrapunto a tre» (Guido a M., 17 apr. 1527, Lettere, p. 460). La visita fatta da M. a Isaac (detto Arrigo il Tedesco) mentre questi si trovava temporaneamente a Costanza («Arrivai dipoi ad Gostanza, dove stetti uno mezzo dì [...] parlai con Arrigo compositore, che ha donna costì», M. ai Dieci, 17 genn. 1508, LCSG, 6° t., p. 106) suggerisce inoltre una dimestichezza dell’allora Segretario con le massime manifestazioni della polifonia scritta. Come molti intellettuali del suo tempo, tuttavia, anche M. dovette aver nozione della prassi d’intonare versi con l’accompagnamento strumentale: lo rivela una lettera a lui indirizzata da un personaggio non identificato, il quale, saputo dallo stesso M. di alcune sue stanze destinate al rivestimento musicale (non sappiamo di quale autore), e non avendone ricevuto neppure il testo, attende di sentirle affidate «a la voce viva et a la ribeca» (V‹espucci?› a M., 24 apr. 1504, Lettere, p. 98). Né va tralasciata in proposito la testimonianza, trasmessaci da Girolamo Ruscelli, di Francesco Del Nero, cognato di M.:
L’ordine della lor testura [scil. delle ottave] è tanto noto, fino al volgo, che ancora all’improviso si truovan molti, che ne compongono, et ancora perfettamente, sì come fra molti s’ha memoria di M. Nicolò Macchiavelli, il quale aprendo qual si voglia poeta Latino, et mettendoselo avanti sopr’una tavola egli sonando la lira veniva improvisamente cantando, et volgarizando, ò traducendo quei versi di quel poeta, et facendone stanze d’Ottava Rima, con tanta leggiadria di stile, et con tanta agevolezza serbando i veri modi del tradurre, che il mio M. Francesco del Nero, il quale fu molto suo domestico, mi raccontava in Napoli, che egli con molt’altri in Fiorenza fecero ogni pruova per chiarirsi, che il detto Macchiavelli ciò facesse improvisamente, parendo à ciascuno impossibile, che all’improviso egli potesse fare quello, che molti dotti, et di sublime ingegno confessavano, che haverebbono penato à far con qualche convenevole spatio di tempo (G. Ruscelli, Del modo di comporre in versi nella lingua italiana, 1559, cap. 7, fol. Ki r-v, esemplare conservato presso la Biblioteca del Taylorian Institute di Oxford, sotto la segnatura VET.ITAL.I.A.1 e citato da B. Richardson, Manuscript culture in Renaissance Italy, 2009, pp. 252-53. In effetti, il testo del Ruscelli, uscito a ridosso della promulgazione dell’Indice dei libri proibiti, subì un intervento in corso di stampa – un’autocensura, con ogni probabilità – e il nome di M. fu sostituito con il generico «quel Fiorentino», cosicché nella stragrande maggioranza degli esemplari noti compare la versione censurata che passa poi in tutte le ristampe e in tutti i trattati che citano il Ruscelli. Della questione, e dei due esemplari superstiti non censurati, si occupa ora con larghezza L. Degl’Innocenti, Machiavelli canterino? «Nuova rivista di letteratura italiana», in corso di stampa).
I più tangibili segni del rapporto tra M. e la musica, comunque, provengono proprio dalla sua collaborazione con V., iniziata, a quanto se ne sa, verso la fine del 1524 in vista della prima rappresentazione della Clizia, e dunque strettamente connessa alla frequentazione degli orti del Fornaciaio da parte della cantatrice Barbara Salutati (in seguito sposata a un Raffacani), della quale, com’è noto, M. s’invaghì. Ci sono infatti pervenute tramite N.O. le musiche per tre delle sei «canzoni» che costituiscono rispettivamente l’esordio, gli intermezzi e la conclusione della Clizia (Richardson 2013). Di queste, una (Quanto sia lieto il giorno, testo in forma di Canzone, avanti il prologo) è stata stampata in seguito con attribuzione a V. nel primo libro a quattro, mentre le altre due (Chi non fa prov’Amore, Canzone, dopo il I atto, e Sì suave è l’inganno, Canzone, dopo il IV atto), adespote in N.O., sono assegnate a V. dalla critica che non riscontra motivi sufficienti, né documentari né stilistici, per porne in dubbio l’autenticità (Slim 1972; Pirrotta 1969, nuova ed. 1975; Saggio 2010-2011). Delle «canzoni» dopo il secondo e il terzo atto (la Ballata irregolare Quanto in cor giovinile e la Ballata Chi già mai donna offende) e di quella conclusiva (la Canzone Voi che sì intente et quete) la musica non ci è pervenuta.
Alcuni mesi dopo la prima rappresentazione della Clizia, M. pensa di dotare d’intermezzi anche la Mandragola, in vista di una progettata ripresa faentina per il carnevale del 1526 che tuttavia non si terrà. Il progetto è trattato con Francesco Guicciardini (allora presidente della Romagna), e dalle relative lettere si ricava uno spaccato interessante della posizione preminente di Barbara Salutati come esecutrice, nonché dei suoi rapporti con Machiavelli. La decisione è presa durante alcune cene tra M., Ludovico Alamanni e «la Barbera [...] in modo che lei si offerse con li suoi cantori a venire a fare il coro in fra gli atti: et io mi offersi a fare le canzonette a proposito delli atti, e Lodovico [...] a darli costì alloggiamento [...] a lei et a’ cantori suoi» (M. a F. Guicciardini, 1620 ott. 1525, Lettere, p. 408). Più avanti, quando ancora il progetto non è tramontato, M. spedisce a Guicciardini i testi delle «canzonette», rinviando la consegna della musica (M. a F. Guicciardini, 3 genn. 1526, Lettere, p. 415).
Non tutte le poesie per la ripresa della Mandragola sono nuove, in realtà. Due, ovvero quella dopo il primo e quella dopo il terzo atto, erano già state impiegate per la Clizia, e sono proprio quelle attestate in N.O. con musica adespota (Chi non fa prova e Sì suave). Nuove sono però le altre tre; e che tutte fossero state musicate lo si evince dalla presenza in N.O. di O dolce nocte (Canzone, dopo il quarto atto) con un rivestimento musicale certamente di V., come conferma la sua comparsa a stampa, con esplicita attribuzione, nell’ambito del terzo libro a quattro.
Oltre alle «canzoni» per le commedie, resta infine da considerare una «stanza per la Barbera», Amor io sento l’alma, scritta da M. in forma di Ballata irregolare, la cui musica è sempre attestata dal codice N.O. e che fu stampata a nome di V. nel secondo libro a quattro.
Il testo che apre la Clizia rivendica la realizzazione di una «dolce armonia / qual mai sentita più non fu da voi». Si dovrà ripetere che non è, questo, «vanto di vuote parole», poiché nel caso specifico «alla novità del genere madrigalesco si aggiungeva probabilmente quello del suo uso in commedia» (Pirrotta 1969, nuova ed. 1975, p. 145). Al tempo stesso, si dovrà però rilevare come le intonazioni machiavelliane di V. confermino appieno la natura ancora formalmente e stilisticamente composita del madrigale delle origini. In particolare, proprio il rivestimento di Quanto sia lieto si adegua alla struttura del testo, applicando la stessa musica ai due piedi della stanza di Canzone alla maniera delle forme fisse; il che non impedisce a V. di evidenziare nella sirma il ruolo di Barbara Salutati, mediante un procedimento dialogico che isola la voce di soprano in corrispondenza dei versi «venuti anchor qui siamo / – Io Nympha – et noi pastori –» (testo musicale in Il primo libro, a cura di F. Saggio, 2013). Sempre nella Clizia, se un’analoga adesione formale alla stanza di Canzone si riscontra per Sì suave, l’intonazione di Chi non fa prova rinuncia invece a qualunque schema predeterminato. Altrettanto accentuato è il rifiuto della forma fissa in O dolce nocte, composta per seguire al quarto atto della mancata ripresa della Mandragola, di tutte le intonazioni machiavelliane di V. la più proiettata verso ciò che nei decenni successivi si intenderà per madrigale. Quanto infine alla «stanza per la Barbera», siamo in presenza di un altro caso di schietta ballata, con perfetta coincidenza musicale tra ripresa e volta (tutti i brani sono trascritti in Madrigals, ed. J.A. Owens, 1989).
Bibliografia: Principali edizioni moderne: Opera omnia, éd. A.M. Bragard, in Corpus mensurabilis musicae, 28° vol., 3 tt., s.l. 1966-1979 (contiene solo musica sacra); Intavolatura de li madrigali di Verdelotto [...] per Messer Adriano, ed. B. Thomas, London 1980; Madrigals for four or five voices, ed. J.A. Owens, in Six teenthcentury madrigal, 28°-30° voll., New York 1989; Madrigali a sei voci, ed. critica a cura di A. Amati-Camperi, Pisa 2004; Il primo libro de’ madrigali a quattro voci (1533) di Philippe Verdelot nel contesto dell’età della Canzone (1520-1530), ed. critica e studio storico-analitico a cura di F. Saggio, Pisa 2013. Si veda inoltre: H.C. Slim, A gift of madrigals and motets, 2° vol., Chicago-London 1972 (da integrarsi con H.C. Slim, Ten altus parts at Oscott College, Sutton Coldfield, Santa Ana (Cal.) 1978); e alcuni brani in A. Einstein, The Italian madrigal, 3° vol., Princeton (N.J.) 1949, 19712, e in N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino 1969, nuova ed. 1975.
Per gli studi critici si vedano: A. Einstein, The Italian madrigal, 3 voll., Princeton (N.J.) 1949, 1971; E.E. Lowinsky, A newly discovered sixteenth-century motet manuscript at the Biblioteca Vallicelliana in Rome, «Journal of the American musicological society», 1950, 3, 3, pp. 173-232; A.-M. Bragard, Étude bio-bibliographique sur Philippe Verdelot, musicien français de la Renaissance, Bruxelles 1964; W. Rubsamen, From frottola to madrigal: the changing pattern of secular Italian vocal music, in Chanson and madrigal, 1480-1530: studies in comparison and contrast, ed. J. Haar, Cambridge (Mass.) 1964, pp. 51-87; J. Gallucci, Festival music in Florence, ca. 1480-ca. 1520: Canti carnascialeschi, Trionfi, and related forms, PhD diss., Harvard University 1966; N. Böker-Heil, Die Motetten von Philippe Verdelot, Frankfurt a.M. 1967; R. Chiesa, Machiavelli e la musica, «Rivista italiana di musicologia», 1969, 4, pp. 3-31; D. Harrán, Verse types in the early madrigal, «Journal of the American musicological society», 1969, 22, 1, pp. 27-53 (trad. it. Tipologie metriche e formali del madrigale ai suoi esordi, in Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Bologna 1988, pp. 95-122); D.T. Mace, Pietro Bembo and the literary origins of the Italian madrigal, «The musical quarterly», 1969, 55, 1, pp. 6586 (trad. it. in Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Bologna 1988, pp. 71-91); N. Pirrotta, Li due Orfei. Da Poliziano a Monteverdi, Torino 1969, nuova ed. 1975; H.C. Slim, A gift of madrigals and motets, 2 voll., Chicago-London 1972; H.C. Slim, Ten altus parts at Oscott College, Sutton Coldfield, Santa Ana (Cal.) 1978; I. Fenlon, J. Haar, A source for the early madrigal, «Journal of the American musicological society», 1980, 33, pp. 16480; R. Sherr, Verdelot in Florence, Coppini in Rome, and the singer “La Fiore”, «Journal of the American musicological society», 1984, 37, 2, pp. 402-11; I. Fenlon, J. Haar, The Italian madrigal in the early sixteenth century. Sources and interpretation, Cambridge 1988 (trad. it., della sola prima parte, L’invenzione del madrigale italiano, Torino 1992); J. Haar, Cosimo Bartoli on music, «Early music his tory», 1988, 8, pp. 37-79; Il madrigale tra Cinque e Seicento, a cura di P. Fabbri, Bologna 1988; R. Strohm, The rise of European music, 1380-1500, Cambridge 1993; La musica a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico, Atti del Convegno internazionale di studi, Firenze 15-17 giugno 1992, a cura di P. Gargiulo, Firenze 1993; F.A. D’Accone, Lorenzo the Magnificent and music, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo. Convegno internazionale di studi (Firenze, 9-13 giugno 1992), a cura di G.C. Garfagnini, Firenze 1994, pp. 259-90; S. 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