Pianificazione e programmazione
di Veniero Del Punta
I campi a cui i due termini che danno il titolo a questo articolo possono essere applicati sono molteplici (si parla di pianificazione urbanistica come di programmazione delle nascite o del tempo libero, e via dicendo): è pertanto necessario precisare subito che quello a cui ci si riferirà qui di seguito è il campo economico.
Oggetto di questo articolo, dunque, sarà l'esame di ciò che si deve intendere per pianificazione e programmazione economica. Ma tale precisazione non è ancora sufficiente per delimitare convenientemente il terreno d'indagine. Anche in campo economico, infatti, i due termini possono avere portata diversa a seconda del soggetto a cui vengono riferiti. La programmazione aziendale, ad esempio, o ancor meglio, le regole cui si ispirano gli imprenditori privati nel programmare i loro investimenti, sono sicuramente diverse da quelle che vengono seguite dallo Stato per i suoi programmi di investimenti pubblici: eppure entrambe le programmazioni appartengono al campo economico. Differente, benché sempre in campo economico, sarà pure la portata che il termine 'programmazione' (nonché quello di 'pianificazione') assume se riferito solo ad una parte (territoriale o settoriale) del sistema economico o invece alla sua totalità: la complessità del problema aumentando, naturalmente, con l'aumentare delle relative dimensioni. Diversità, infine, e molto marcate, saranno da riscontrare se si guarderà alla programmazione di un sistema economico di tipo occidentale, vale a dire di stampo liberista, in confronto con quella di un sistema di tipo collettivista: a far la differenza, in questo caso, sarà la disomogeneità degli assetti istituzionali dei due tipi di sistema.
Ebbene la pianificazione, così come la programmazione di cui intendiamo occuparci in queste pagine, è quella riferita ad un intero sistema economico, vale a dire 'globale'. Con l'avvertenza che, seguendo una prassi alquanto consolidata, riserveremo il termine 'pianificazione' per i sistemi economici di tipo collettivistico e il termine 'programmazione' per quelli di tipo liberista (o capitalistico, o concorrenziale, od occidentale che dir si voglia).Un'altra precisazione è necessaria.
Di pianificazione e programmazione globale si può parlare in termini storici, vale a dire descrivendo e analizzando le esperienze che un paese, o un insieme di paesi, hanno fatto in materia; oppure se ne può parlare in termini teorici, cioè badando alla logica del processo programmatorio e alle asperità concettuali ad esso collegate, asperità destinate a tramutarsi in difficoltà talvolta insormontabili in sede di concreta attuazione di piani e di programmi globali. Qui verrà scelto il secondo modo di trattare il problema, con qualche riferimento al primo, quando apparirà opportuno. Non ci possiamo tuttavia esimere, in sede introduttiva, dall'esprimere una riflessione di carattere generale sull'aspetto storico dei processi in questione.
Di pianificazione di un sistema economico si cominciò a parlare, in dottrina, a partire dalla seconda metà del secolo scorso, sulla scia del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. Per vederne la prima applicazione concreta, tuttavia, occorre attendere gli anni immediatamente successivi all'avvento del regime comunista in Unione Sovietica, vale a dire gli anni venti di questo secolo. Da allora, infatti, il sistema economico sovietico è stato guidato, sino al crollo del regime, sulla base di una serie di piani quinquennali. Stessa cosa è accaduta, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ai paesi europei 'satelliti' (fino a quando sono rimasti tali), alla Cina Popolare e a qualche altro paese del resto del mondo ad economia collettivista. L'idea della guida dall'alto dell'economia di un paese non si è peraltro arrestata all'universo comunista. Essa si è fatta strada, sempre nel secondo dopoguerra, anche in quello capitalista, dove ha assunto le fattezze della 'programmazione indicativa', vale a dire di un insieme di lineeguida verso obiettivi predeterminati, perseguite dai vari governi con misure dirette o incentivanti, senza in genere il vincolo dell'obbligatorietà per i vari soggetti del sistema economico. Gli anni d'oro della programmazione indicativa non sono tuttavia stati molti: dopo il periodo compreso tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni settanta, essa è infatti caduta largamente in disuso.
Storicamente, dunque, sia la pianificazione che la programmazione (a livello di intero sistema economico) appaiono oggi alquanto superate, con un'unica eccezione di rilievo per parte: quella della Repubblica Popolare Cinese da un lato e quella del Giappone dall'altro. C'è pertanto da domandarsi quale potrà essere l'interesse di un'analisi concettuale di tali processi, come quella che ci accingiamo ad espletare nelle pagine che seguono. In realtà, tale analisi dovrebbe risultare utile sotto diversi profili. In primo luogo, essa dovrebbe consentire di comprendere i motivi di fondo che hanno impedito persino ad un sistema economico dalle potenzialità enormi, come quello dell'Unione Sovietica, di raggiungere i risultati cui puntava. In secondo luogo, essa dovrebbe permettere sia di spiegare le ragioni della sopravvenuta disaffezione dei paesi occidentali per la programmazione economica, sia di valutare fino a che punto questa disaffezione sia stata il frutto di un giudizio affrettato, dovuto verosimilmente ad un insufficiente grado di conoscenza, da parte della classe politica, delle possibilità e dei limiti della programmazione nell'ambito di sistemi economici liberisti.
L'analisi sarà divisa in due sezioni. La prima verrà dedicata alla pianificazione, la seconda alla programmazione. Sarà quest'ultima la sezione più ampia, perché è nel suo ambito che mostreremo per esteso come si imbastisca un processo programmatorio, con i problemi e le difficoltà anche metodologiche ad esso connesse.
Si è già detto che la discussione dottrinaria dei problemi della pianificazione di un sistema economico ebbe inizio poco dopo la pubblicazione (1848) del Manifesto del partito comunista. Questa concomitanza non fu casuale. Essa fu dovuta al fatto che nel progetto di società comunista elaborato da Marx ed Engels si prevedeva che i mezzi di produzione, cioè le risorse produttive (fabbriche, materie prime, mezzi di trasporto e via dicendo) di un paese dovessero risultare tutte di proprietà dello Stato. Da ciò discendeva la necessità di un'autorità centrale che gestisse quelle risorse, vale a dire che ne disponesse l'utilizzo per l'ottenimento del prodotto nazionale. Ed è proprio in vista di questa necessità che già nel 1854 H.H. Gossen, un illustre economista tedesco, giungeva alla conclusione che tale autorità si sarebbe ben presto accorta di essersi assunta un compito al di sopra delle proprie possibilità, se tale compito doveva consistere non in un utilizzo qualsiasi delle risorse, bensì di un loro utilizzo razionale. A ciò si opponeva, però, un ostacolo insormontabile: infatti, l'abolizione della proprietà privata cancellava, secondo Gossen, una componente essenziale per pervenire alla determinazione "della quantità più opportuna che di ogni oggetto ha da essere prodotta a seconda delle circostanze" (v. Gossen, 1854; tr. it., pp. 265-266).
La conclusione dell'economista tedesco può essere considerata l'inizio di una discussione scientifica protrattasi, tra alterne vicende, fin quasi ai nostri giorni. E se ne capisce bene la ragione se si pensa alla profonda influenza che il comunismo marxista ha avuto nelle vicende politico-economiche del nostro secolo, specie a partire dal 1917. Di qui l'importanza di stabilire, sul piano concettuale, le potenzialità operative dei sistemi economici collettivistici, i quali, nelle intenzioni dei loro fautori, avevano il duplice obiettivo di eliminare le ingiustizie distributive della società capitalista e di raggiungere un'efficienza economica superiore, grazie all'eliminazione del caos proprio dei mercati concorrenziali.
L'aspetto più curioso del dibattito sulla pianificazione è che esso si è svolto principalmente - raggiungendo, tra l'altro, i suoi risultati più significativi - non già nei paesi che avevano adottato quel tipo di sistema, bensì nel mondo occidentale, là dove i mezzi di produzione sono rimasti in larghissima parte di proprietà privata. Tale fenomeno può avere diverse spiegazioni. La prima consiste nel fatto che pressoché tutti gli sviluppi più importanti dell'economia teorica sono avvenuti in Occidente: sarebbe stato quindi difficile che anche la teoria della pianificazione non fosse formulata e affinata, sulla scia di altri contributi, in questa parte del mondo. Al riguardo, l'esempio che segue sembra particolarmente significativo.
A cavallo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi di questo secolo due eminenti economisti, il francese Léon Walras e l'italiano Vilfredo Pareto, principali esponenti della 'Scuola di Losanna' (dal nome della città nella cui Università Pareto successe al francese come titolare della cattedra di economia politica), misero a punto lo schema dell'equilibrio economico generale: una mirabile costruzione matematica con la quale si indicava il modo in cui tutte le entità di un sistema economico di concorrenza perfetta, tra loro concatenate, potessero assumere un assetto ottimale. In tale assetto, insomma, tutti gli individui - sia come consumatori, sia come produttori, sia infine come lavoratori - raggiungevano posizioni ottimali, allo stesso modo in cui i prezzi e le quantità di tutti i beni e servizi del sistema venivano a trovarsi in una situazione di equilibrio, in virtù della quale non erano soggetti a forze che ne modificassero l'entità.
Nel 1908 un altro grande economista italiano, Enrico Barone, avvalendosi dello schema walrasparetiano, scrisse un articolo riferito ad un sistema comunista, intitolato Il ministro della produzione nello Stato collettivista, che rappresenta una pietra miliare nella problematica della pianificazione (v. Barone, 1908). In esso, infatti, si mostra che i criteri ai quali l'autorità pianificatrice di un sistema comunista dovrebbe attenersi - sempre nell'ipotesi di un uso razionale delle risorse disponibili - sono gli stessi che le forze di mercato impongono ad un sistema di concorrenza perfetta. Barone dimostra, insomma, che affinché un sistema economico di tipo collettivista raggiunga i medesimi risultati di un sistema di concorrenza perfetta in equilibrio generale (cioè una posizione di ottimalità produttiva e distributiva), occorre che tutte le entità del primo sistema assumano i valori di quelle corrispondenti del secondo. Si trattava di una indicazione importantissima, ma che per acquistare compiutezza richiedeva un passo successivo: quello di individuare il modo in cui il 'ministro della produzione' dello Stato socialista potesse riuscire a calcolare e ad attribuire quei valori.
Si giunse così, sotto il profilo teorico, al 'problema dei problemi' della pianificazione: il calcolo dei valori da attribuire alle varie risorse, ai fattori produttivi e ai prodotti, per conseguire una distribuzione e una utilizzazione efficienti delle stesse. Un'efficienza che, lo ripetiamo, avrebbe dovuto, nelle speranze socialiste, superare quella dei sistemi economici capitalisti.
A mettere in seria evidenza lo scarso realismo di quelle speranze fu Ludwig von Mises. È quanto afferma il suo connazionale, Friedrich August von Hayek, uno dei massimi studiosi della pianificazione, che nel 1935 scriveva: "Il merito di aver formulato per primo il problema centrale dell'economia socialista, in maniera tale da rendere per sempre impossibile che esso scompaia dalla discussione, va attribuito all'economista austriaco Ludwig von Mises. In un articolo su Il calcolo economico in una società socialista apparso nella primavera del 1920, egli ha dimostrato che la possibilità di calcolo razionale nel nostro attuale sistema economico [cioè nei sistemi economici capitalistici] si basa sul fatto che i prezzi espressi in moneta forniscono la condizione essenziale che rende possibile tale calcolo (v. von Mises, 1920). Il punto fondamentale, sul quale von Mises è andato ben oltre i suoi predecessori, sta nella dimostrazione dettagliata che un'utilizzazione economica delle risorse disponibili è possibile solo se questo metodo di formazione dei prezzi viene applicato non solo al prodotto finale, ma anche a tutti i prodotti intermedi e ai fattori della produzione, e che non si può immaginare alcun altro processo che tenga conto di tutti i fatti rilevanti allo stesso modo in cui ne tiene conto il processo di fissazione dei prezzi del mercato concorrenziale" (v. von Hayek, The nature..., 1935; tr. it., p. 351).
Von Hayek aveva ragione nel giudicare il contributo di von Mises di tale importanza da non poter più essere ignorato nelle discussioni teoriche sulla pianificazione. Tutti gli studi successivi, infatti, o hanno corroborato le conclusioni di von Mises come ha fatto lo stesso von Hayek, o hanno cercato di superarle, ma in questo caso senza successo.I termini essenziali del problema (che, secondo von Mises, nessun pianificatore sarà mai in grado di risolvere) li abbiamo già indicati: si tratta di trovare la maniera di utilizzare le risorse di cui un paese dispone in modo economicamente efficiente. A ciò occorre aggiungere due vincoli, cari ai teorici della società socialista, ossia la possibilità, per ciascun cittadino, di scegliere liberamente sia la propria occupazione, sia il modo di spendere il proprio reddito.
Ebbene: dove si annida la difficoltà insuperabile? Nel fatto che nessun pianificatore riuscirà mai a disporre di tutte le informazioni che sarebbero necessarie per far sì che le risorse disponibili possano essere indirizzate, almeno teoricamente, verso gli utilizzi che procurino la massima possibile soddisfazione a tutti gli attori del processo economico (produttori, consumatori o lavoratori che siano). E quali sono le informazioni che più mancheranno al pianificatore per poter decidere razionalmente? Sono i prezzi, così come si formano in un mercato concorrenziale: in primo luogo, i prezzi dei fattori della produzione, vale a dire i loro saggi di remunerazione, ad iniziare da quello, importantissimo, dei salari; in secondo luogo, i prezzi dei prodotti, siano questi intermedi, cioè destinati ad essere impiegati in processi produttivi di altri beni, o finali, ossia destinati al consumo.
In un mercato concorrenziale questi prezzi si formano spontaneamente, quale risultato dell'incontro della domanda e dell'offerta di ogni singolo bene (o servizio), riflettendone la scarsità relativa. Per cui se, per un motivo qualsiasi, l'offerta di un bene diviene scarsa rispetto alla domanda, il suo prezzo aumenterà; e viceversa. In tal modo domanda ed offerta tenderanno spontaneamente all'equilibrio. Un equilibrio, peraltro, non stazionario, dal momento che nei sistemi economici reali le condizioni di domanda e di offerta cambiano continuamente e che insieme ad esse mutano i prezzi assoluti e relativi dei vari beni e servizi, nonché quelli dei fattori produttivi impiegati per ottenerli. In una situazione siffatta è facilmente intuibile (ed è anche teoricamente dimostrabile) che i fattori produttivi saranno impiegati nel modo più conveniente, vale a dire nel modo più redditizio, più efficiente, in definitiva più funzionale alle esigenze espresse dal mercato in termini di beni e servizi.
Ebbene, nessun meccanismo di questo tipo è a disposizione dei pianificatori di un sistema economico collettivista: ciò per il semplice motivo che in un'economia del genere non esiste il mercato. In essa, infatti, i mezzi di produzione sono di proprietà dello Stato: a partire dalle terre, coltivabili o meno, e dagli stabilimenti industriali fino ai giacimenti minerari, alle centrali elettriche, alle catene commerciali per la distribuzione dei prodotti di consumo. Per i beni intermedi lo Stato è contemporaneamente produttore e consumatore, cioè offerente e domandante: ciò accade, ad esempio per l'energia elettrica utilizzata dagli stabilimenti, o per le macchine utensili che uno stabilimento acquista da un altro, e via dicendo. Manca dunque, per questi prodotti, la contrattazione, tipica delle economie di mercato, tra offerente e domandante dalla quale scaturisce il prezzo del prodotto.
Una contrattazione può sembrare concepibile a livello di beni di consumo, per i quali da una parte c'è lo Stato che offre e dall'altra i cittadini che domandano. Ma nella logica delle economie collettiviste la quantità di beni da offrire sul mercato, inclusi i beni di consumo, è decisa dal pianificatore: perciò la domanda dei consumatori assume un ruolo del tutto subordinato nella fissazione dei prezzi dei beni in questione.
Riassumendo: nel sistema economico collettivista manca il mercato; mancando il mercato, viene meno il meccanismo di determinazione dei prezzi dei beni e dei fattori della produzione; in assenza di tali prezzi (che per giunta in un mercato concorrenziale tendono a variare continuamente al variare delle condizioni di domanda ed offerta), il pianificatore non ha i riferimenti per riuscire ad utilizzare le risorse in modo economicamente razionale, vale a dire in modo efficiente e conveniente per il sistema medesimo.
Si deve dire che questo ragionamento, caro in particolare a von Mises e a von Hayek, non viene condiviso da tutti gli studiosi, in primis, naturalmente, da quelli di simpatie socialiste. Per controbatterlo, alcuni di essi sostennero che il problema del valore e della distribuzione razionale delle risorse era risolvibile anche in un sistema socialista, giacché quelle entità potevano essere determinate ricorrendo agli strumenti dell'economia matematica, come avevano già fatto Walras, Pareto e anche Barone per mostrare il funzionamento di un sistema economico concorrenziale. Di questo avviso furono ad esempio, tra la fine degli anni venti e gli inizi degli anni trenta, gli americani F.M. Taylor (v., 1929) e W.C. Roper (v., 1931) nonché l'inglese H.D. Dickinson (v., 1933). Il fatto è che per risolvere un simile problema matematico sarebbero necessarie masse di informazioni di cui è materialmente impossibile venire a conoscenza. Al riguardo basta tener presente quanto già nel 1906 scriveva Pareto nel suo Manuale, dopo aver dimostrato il modo in cui un sistema di equazioni simultanee poteva essere utilizzato per spiegare come vengano a determinarsi i prezzi in un mercato concorrenziale: "Devesi notare che tale determinazione non ha menomamente per scopo di procedere ad un calcolo numerico dei prezzi. Facciamo l'ipotesi più favorevole ad un simile calcolo: supponiamo di aver superato tutte le difficoltà per conoscere i dati del problema, e che siano note tutte le ofelimità [con questo termine Pareto intendeva le utilità marginali] di tutte le merci per ciascun individuo, tutte le circostanze della produzione delle merci, ecc. Tale ipotesi è già assurda: eppure non basta a rendere praticamente possibile la soluzione del problema. Abbiamo veduto che nel caso di 100 individui e di 700 merci ci sarebbero 70.699 condizioni (in realtà molte circostanze, ora trascurate, farebbero crescere quel numero): avremmo dunque da risolvere un sistema di 70.699 equazioni. Ciò praticamente supera la potenza dell'analisi algebrica, e tanto più la supererebbe ove si considerasse il numero favoloso di equazioni che si avrebbe per un popolo di 40 milioni di abitanti e per qualche migliaio di merci" (v. Pareto, 1965, p. 153).
Si può, per inciso, osservare che quando Pareto scrisse queste parole non poteva neanche immaginare la incredibile potenza dei futuri calcolatori elettronici. Ma resta il fatto che a nessun calcolatore potranno mai essere forniti tutti i dati necessari per risolvere il problema dei prezzi in un'economia complessa: anche perché non sono pochi quelli non quantificabili, neanche teoricamente.
Tutto questo e molto altro sulle difficoltà di successo della pianificazione era stato detto già nei primi anni trenta, come risulta dall'eccellente resoconto del dibattito in materia fornito da von Hayek (v., The present..., 1935). Ma ciò non impedì la continuazione dell'impegno intellettuale al riguardo, specialmente da parte degli economisti di ispirazione socialista. Tra questi va ricordato, anche perché assunse una posizione originale e isolata, l'inglese Maurice Dobb. Dal momento che si era ormai pervenuti al convincimento che la pianificazione centralizzata non potesse conciliarsi con la libertà di scelta dei consumatori, Dobb propose di abolire tale vincolo, ritenendo che valesse la pena di rinunciare a questo tipo di libertà pur di rendere possibile l'avvento di un'economia socialista fondata su calcoli razionali (v. Dobb, 1933).
Ma così non poteva essere: infatti, se la rinuncia alla libertà di consumo sicuramente semplificava il problema, essa d'altra parte, oltre a negare una delle libertà fondamentali che il socialismo avrebbe dovuto garantire, non eliminava la necessità per il pianificatore di disporre di un sistema di valori, cioè di indicatori di scarsità relativa, indispensabili per decidere l'utilizzo e la destinazione delle risorse tra i vari usi possibili. Sempreché non si volesse pensare ad una società in cui la produzione da parte dello Stato sia fine a se stessa, ovverosia svincolata da ogni preoccupazione per il modo in cui le risorse vengono utilizzate, e nella quale ai consumatori non resti che acquistare ciò che lo Stato fornisce, prescindendo completamente dalle loro esigenze.
Più interessante, rispetto alle ipotesi di Dobb, fu il filone di pensiero del 'socialismo concorrenziale'. Esso si imperniava sul seguente ragionamento: preso atto che le vie fino ad allora seguite per giungere ad una distribuzione razionale nell'uso delle risorse non si erano rivelate convincenti e soprattutto praticabili, la soluzione avrebbe dovuto trovarsi ammettendo la presenza, anche in una società socialista, di mercati e di concorrenza tra imprese e tra managers indipendenti, e quindi l'esistenza di prezzi monetari per tutti i tipi di beni, intermedi e finali; con la differenza, rispetto ai mercati capitalistici, che gli imprenditori non avrebbero avuto la proprietà dei mezzi di produzione, né avrebbero agito per massimizzare i loro profitti, essendo regolarmente stipendiati dallo Stato.
Fautori illustri di questa linea di pensiero furono Oskar Lange, e ancora una volta, mutando le loro precedenti posizioni a favore della soluzione matematica. Fred. M. Taylor e H.D. Dickinson (v. Lange e Taylor, 1938; v. Dickinson, 1939).
L'idea centrale, come abbiamo già osservato, è interessante: anche perché, almeno a prima vista, non si riescono a percepire i motivi per cui un sistema socialista 'concorrenziale' non possa funzionare in maniera altrettanto efficiente di un sistema capitalistico. Ma non appena si approfondisca la riflessione i dubbi riemergono. Vale la pena di ascoltare, in proposito, von Hayek, l'autore che forse più di ogni altro ha vagliato criticamente la questione: "In questo caso [cioè nel socialismo concorrenziale] le domande cruciali sono le seguenti: quale dev'essere l'unità economica indipendente? Chi dev'essere il manager?
Quali risorse gli devono essere affidate, e come si devono verificare il suo successo o il suo fallimento? [...] Questi non sono affatto problemi amministrativi di scarsa importanza [...] sono problemi di grande rilevanza [...]. Per cominciare deve essere chiaro che il bisogno di una qualche autorità economica centrale non si ridurrà di molto [rispetto al caso dell'economia socialista pianificata dal centro]. È chiaro inoltre che questa autorità dovrà avere quasi altrettanto potere quanto in un sistema pianificato. Se la collettività possiede tutte le risorse materiali di produzione, qualcuno dovrà esercitare questo diritto in suo nome, almeno per quanto riguarda la distribuzione e il controllo dell'uso di queste risorse" (v. Hayek, The present..., 1935; tr. it., p. 383).
Si presenta così, nell'ambito del socialismo concorrenziale, un elemento di discrezionalità che, unito a quelli impliciti negli interrogativi sopra riportati, allontana sensibilmente anche questo sistema da quello capitalistico, rendendone comunque problematica la praticabilità. Anzi, per von Hayek (v., 1940) la possibilità che il socialismo concorrenziale conduca ad un calcolo razionale nell'utilizzo delle risorse, è ancora più remota di quella attribuibile ad un sistema interamente pianificato dal centro.
La sintesi storica della teoria della pianificazione potrebbe benissimo arrestarsi a questo punto, con la presa d'atto che nessuno dei tentativi concettuali sopra illustrati si è rivelato convincente. Del resto quanto è stato pensato e scritto dopo di allora, cioè a partire dagli anni quaranta, non sembra avere apportato alla discussione novità di rilievo (ad eccezione, forse, di alcune critiche inerenti a fenomeni di natura dinamica, quale quello dell'incapacità endemica dei sistemi collettivisti di innovarsi tecnologicamente: fenomeni comunque riconducibili al problema dell'utilizzazione non ottimale delle risorse da parte di tali sistemi). Basta guardare al contenuto di uno dei libri più importanti dedicati all'argomento negli ultimi decenni, dovuto a G.M. Heal (v., 1973), per rendersene conto.
La parte centrale di tale studio è infatti dedicata all'illustrazione del modo in cui i suggerimenti di Lange in materia di socialismo concorrenziale sono stati formalizzati e studiati da Arrow e Hurwicz, così come è accaduto per quelli di Taylor da parte di Malinvaud (v. Arrow e Hurwicz, 1960; v. Malinvaud, 1967). Formalizzati, appunto: ma poco di più. Concettualmente, infatti, tali affinamenti consistono nel mettere in evidenza come in una economia socialista sia concepibile una pianificazione di breve periodo basata sui prezzi: il che si realizza attraverso la predisposizione di un programma di produzione da parte dell'Ufficio centrale del piano, per il tramite di una fissazione reiterata di un vettore dei prezzi - reiterata in quanto modificata tante volte quante necessarie sulla base di informazioni provenienti dalle imprese e dai consumatori. Tale programma dovrebbe soddisfare la domanda e massimizzare i profitti d'impresa. Il fatto è che formalizzazioni del genere, ancorché eleganti, non sfuggono alla critica hayekiana di impraticabilità, cioè alla impossibilità di tradursi in guida effettiva e razionale di un sistema senza proprietà privata dei mezzi di produzione. Com'è dimostrato dalle esperienze dei paesi comunisti.Valga, per quest'ultimo punto, un solo esempio, ma molto significativo. Al momento dell'unificazione delle due Germanie "la struttura dei prezzi tra i due paesi era estremamente diversa. I prodotti e i servizi sovvenzionati [generi di prima necessità] costavano [nella Germania orientale] spesso 1/5 o 1/6 dei corrispondenti prodotti occidentali, mentre gli altri costavano anche il triplo o il quadruplo e spesso erano introvabili" (v. Sai, 1992). Ora, tenendo presente che la Repubblica Democratica Tedesca era considerata uno degli Stati socialisti più avanzati, una struttura dei prezzi così differenziata rispetto a quella della Repubblica Federale (e quindi rispetto a quelle del mondo occidentale in generale), dimostra come essa non potesse rispondere al requisito della razionalità economica; e quindi come si fossero rivelate infeconde, di fatto, quelle elaborazioni e quelle indicazioni teoriche che abbiamo appena ricordato.
In conclusione, se c'è un campo in cui la teoria economica sembra davvero aver visto giusto sin dall'inizio, questo è il campo della pianificazione. Già a partire da Gossen - e siamo alla metà del secolo scorso - gli economisti avvertirono che senza la proprietà privata un sistema economico non avrebbe potuto funzionare efficientemente. Quella intuizione, come si è visto, è stata ampiamente sviluppata nel tempo, e già alla fine degli anni trenta studiosi di grande prestigio dimostravano l'impossibilità per un sistema economico collettivista di esser gestito in maniera economicamente razionale. E ammonivano: "La differenza tra una distribuzione e una combinazione economica o non economica delle risorse tra le diverse industrie costituisce la differenza tra scarsità e abbondanza" (v. Hayek; The present..., 1935; tr. it., p. 370).
Ebbene, l'evoluzione economica di tutti i paesi ad economia collettivista, con gli sprechi di risorse da cui è stata caratterizzata senza eccezioni e con i livelli di vita certamente non esaltanti, consentiti ai cittadini, sembra fornire una prova eclatante della verità di quegli ammonimenti.
6. La ragione del ricorso alla programmazione economica
Già nel definire l'oggetto di questo articolo si avvertì che, secondo una prassi consolidata nella letteratura economica, avremmo riservato il termine 'pianificazione' ai sistemi economici collettivisti, mentre avremmo utilizzato il termine 'programmazione' allorché l'attenzione fosse stata rivolta alle economie liberiste. È appunto di queste che d'ora in poi ci occuperemo, iniziando col chiederci quale sia la ragione per cui possa sorgere in esse l'esigenza di una politica di programmazione economica (o 'di piano', come più spesso si usa dire). La domanda non è affatto peregrina, visto che se vi sono vari paesi occidentali importanti che hanno fatto esperienze di tal genere di politica, ve ne sono anche altri che non hanno avvertito tale esigenza o, comunque, che non hanno mai adottato questa politica. Senza dimenticare, inoltre, che la politica di programmazione ha avuto il suo fulgore in tempi ormai lontani, tanto che oggi, alla metà degli anni novanta, riuscirebbe difficile, con la sola eccezione del Giappone, indicare un paese liberista di rilievo in cui ci si affidi, con la fiducia di un tempo, alla programmazione economica globale. I motivi di questa disaffezione li commenteremo più avanti: anzi, forse scaturiranno autonomamente dalla descrizione che ci accingiamo a fare di un processo programmatorio e delle difficoltà ed incertezze ad esso connesse. Per ora riproponiamo la domanda: per quale ragione un paese liberista può avvertire la necessità della programmazione economica, vale a dire la necessità di adottare una politica volta a coordinare o, se si vuole, a guidare nel tempo l'andamento del sistema economico?
È una ragione del tutto diversa da quella che abbiamo visto valere per la pianificazione di un'economia collettivista. Colà, infatti, la necessità di una guida centralizzata dell'economia deriva dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà dello Stato, ed è quindi un'autorità pubblica che deve istituzionalmente occuparsi dell'utilizzo di quelle risorse. Nell'economia di mercato, invece, le risorse produttive sono in grande prevalenza di proprietà dei privati. L'esigenza di programmare il loro uso da parte dello Stato non può quindi avere natura istituzionale: si può però dire che abbia natura politica, nel senso più nobile del termine. Tale esigenza, infatti, è avvertita allorché l'evoluzione 'spontanea' del sistema economico sia avviata a conseguire risultati diversi da quelli che il paese desidererebbe conseguire. La politica di piano, in altri termini, è una politica che concettualmente dovrebbe servire a correggere l'andamento del sistema economico, in modo da facilitare il perseguimento di obiettivi ritenuti più soddisfacenti rispetto a quelli che il sistema stesso conseguirebbe, se lasciato 'libero' nella sua evoluzione (libero, s'intende, non in senso assoluto, ma nell'ambito dei vincoli da cui ogni economia sviluppata è contraddistinta: il liberismo assoluto è infatti, per le società moderne, un concetto soltanto teorico, il cui uso è confinato ai testi di economia politica).
In Italia, ad esempio, i primi tentativi di adozione di una politica di piano si ebbero negli anni cinquanta, quando la classe politica comprese che lo sviluppo del sistema economico, anche se consistente, non assicurava un soddisfacente impiego della manodopera né una tendenza alla riduzione del divario economico tra Mezzogiorno e resto del paese. Del resto, anche in Francia la politica di programmazione venne adottata, sempre a partire da quegli anni, nella convinzione "che i semplici meccanismi di mercato fossero incapaci di mantenere la piena occupazione [della manodopera] e più in generale la stabilità della crescita" (v. Camera dei deputati, 1987, p. 117).
In Giappone, il paese capitalista in cui la politica di piano ha avuto maggiore fortuna in termini di durata, essa fu adottata, in un primo tempo, per forzare il processo di accumulazione del capitale, in particolare per irrobustire la struttura industriale, al fine di favorire uno sviluppo futuro più rapido, anche se ciò comportò sacrifici temporanei nel livello di vita dei cittadini. Poi essa fu rivolta ad altri traguardi e ad altri ancora via via che, nel tempo, venivano raggiunti quelli prefissati (v. Camera dei deputati, 1987, pp. 376-377).
A questo punto ci possiamo chiedere: se la programmazione, come si è appena visto, serve a facilitare il raggiungimento di obiettivi socialmente auspicabili e se nei suoi riguardi si è ormai da tempo manifestata una diffusa disaffezione, ciò indica che i paesi che l'avevano adottata e poi abbandonata non ne hanno avuto più bisogno perché i loro sistemi economici hanno cominciato a manifestare tendenze 'spontanee' verso gli obiettivi desiderati, oppure perché tali obiettivi erano ormai stati pienamente raggiunti?
E ancora: paesi importanti come la Germania e gli Stati Uniti, che non hanno mai adottato politiche di piano, debbono il loro comportamento alla fortunata circostanza che i loro sistemi economici non hanno mai avuto bisogno di particolari correzioni di rotta per conseguire gli obiettivi desiderati?Entrambi i quesiti meritano una risposta negativa. Cominciamo dal secondo. Il problema della programmazione economica ha anche un aspetto che finora non abbiamo indicato: l'aspetto ideologico. Il termine programmare, infatti, evoca il concetto di guida e anche di imposizione: un che di autoritario, insomma, che può mal conciliarsi con l'aspirazione alla libertà, in particolare alla libertà d'iniziativa economica, che permea la cultura di paesi di antica democrazia liberale, come gli Stati Uniti d'America, o di democrazia riconquistata dopo anni di feroce totalitarismo, come nel caso della Germania di questo dopoguerra. Ed è forse proprio per tale aspetto - sul quale avremo occasione di tornare - che in questi due grandi paesi la programmazione economica non ha avuto fortuna neanche temporanea.
Per quanto riguarda la risposta al primo quesito, la rinviamo a dopo che avremo illustrato in che cosa consista una politica di programmazione, e, in particolare, lo strumento di cui questa politica si serve: vale a dire il piano economico. Perché è proprio dalla difficoltà di formulazione, prima, e di attuazione, poi, del piano, che è scaturita la disaffezione di cui abbiamo parlato. Difficoltà - osserviamo d'inciso, ma è un inciso importante - che possono avere natura diversa da quelle che vengono incontrate nella pianificazione delle economie collettiviste. Il programmatore dell'economia di mercato, ad esempio, non ha di fronte quella difficoltà di fondo che abbiamo visto costituire un ostacolo insormontabile per il pianificatore, ossia la determinazione di un sistema di prezzi logicamente coerente. A questa, infatti, ci pensa il mercato. In compenso, diciamo così, egli ha una difficoltà sconosciuta al pianificatore dell'economia collettivista: la mancanza di potere coercitivo. E dunque l'impossibilità di imporre il comportamento a qualsiasi attore dell'economia, consumatore, lavoratore o produttore che sia.
7. La formulazione di un 'piano' per un'economia di mercato
Il motivo per cui una politica di programmazione economica richiede un 'piano' per essere attuata è molto semplice: se, come si è detto, la necessità della programmazione sorge per fare assumere al sistema economico andamenti diversi da quelli cui tenderebbe 'spontaneamente', ciò comporta che per spingere il sistema nelle direzioni volute occorrerà basarsi su indicazioni quantitative predeterminate. Insomma, se si vuole che il sistema consegua certi obiettivi, occorrerà dare loro un ordine di grandezza, cercando di vagliarne in anticipo la congruità e il realismo.
Ebbene, la via per giungere a questa quantificazione è lunga e laboriosa. Ed è percorrendola per intero che si formula un 'piano' o 'programma economico', del quale le autorità di politica economica si serviranno per prendere le misure ritenute necessarie al fine di conseguire gli obiettivi in esso stabiliti.
È appunto alla illustrazione del percorso metodologico per formulare un piano che volgeremo adesso l'attenzione: tenendo presente che si tratterà di un piano riferito ad un sistema economico nel suo intero, quindi dello strumento necessario per una programmazione economica globale.
È un compito questo che già affrontammo in altra autorevole sede all'inizio degli anni ottanta (v. Del Punta, 1980). Per assolverlo, non essendo da allora mutata la logica della programmazione né quella che deve informare la predisposizione di un piano, ricalcheremo nella sostanza quello studio, anche perché continuiamo a ritenere che una via particolarmente chiara e didatticamente valida a quest'ultimo scopo sia quella indicata fin dagli anni sessanta da Vittorio Marrama, uno studioso italiano particolarmente attento ai problemi dello sviluppo economico.
Le fasi in cui Marrama suggerisce di suddividere il processo di predisposizione di un piano sono le seguenti (v. Marrama, 1968³, p. 35): a) indicazione degli obiettivi generali di sviluppo; b) proiezione, per la durata del piano, degli andamenti correnti delle grandezze fondamentali del sistema economico; c) determinazione degli obiettivi specifici del piano; d) programmazione settoriale, vale a dire determinazione degli obiettivi di produzione per ciascuno dei settori in cui il sistema economico viene suddiviso; e) programmazione regionale; f) elaborazione del programma specifico di investimenti pubblici e privati, e prove di coerenza del piano.Nelle pagine che seguono esamineremo, sia pure sommariamente ed evitando gli aspetti più tecnici, ciascuna di queste fasi.
Già più volte si è detto che l'adozione di una politica di programmazione trova la sua ragion d'essere nell'intenzione di perseguire obiettivi diversi da quelli verso cui il sistema tenderebbe. Abbiamo inoltre accennato alla necessità di dare agli obiettivi da perseguire anche un connotato quantitativo. Adesso dobbiamo aggiungere un'altra esigenza da cui nessun piano economico può prescindere: l'indicazione del periodo di tempo per raggiungere o per avvicinare nella misura desiderata quegli obiettivi, vale a dire la durata del piano. È infatti evidente che, qualunque sia o siano gli obiettivi da raggiungere, occorra del tempo per il loro conseguimento, pieno o parziale che sia: e che questo tempo debba pertanto essere indicato nel programma economico. La dottrina e la prassi tendono ad assumere come periodo di tempo più 'congruo' per un piano il quinquennio, forse anche sotto l'influenza dell'esempio dell'Unione Sovietica che ha pianificato per quinquenni sin dagli anni venti. L'approfondimento di tale questione non presenta in questa sede particolare interesse.
Basterà forse dire che affinché un sistema economico muti le direzioni di fondo verso cui è avviato è necessario qualche anno, così come un periodo di tempo analogo è indispensabile affinché investimenti pubblici e privati di dimensioni rilevanti diventino operativi; per converso, un piano che abbracci un periodo di tempo troppo lungo (dieci o venti anni, ad esempio) vedrà inevitabilmente ridursi il suo grado di attendibilità, a causa del forte margine di imprevedibilità implicito in un lasso di tempo così esteso.Immaginiamo dunque anche noi, soprattutto per ragioni di comodità, che il quinquennio sia la durata del piano ipotetico che stiamo formulando e torniamo agli obiettivi che la programmazione si prefigge. Essi possono naturalmente essere diversi da un paese all'altro, o anche nell'ambito di uno stesso paese in periodi di tempo diversi, come si è visto accennando a quelli propostisi da Italia, Francia, Giappone.
Ma ciò che più conta sul piano concettuale non è tanto il numero di obiettivi che un piano economico si propone (anche se, ovviamente, vi deve pur essere un limite realistico alle ambizioni assegnategli) quanto la chiarezza con cui vengono espressi e, ancor più, la non contraddittorietà. Non è perseguibile simultaneamente, ad esempio, il duplice obiettivo di un massiccio aumento dell'occupazione di manodopera e della realizzazione di investimenti ad alta intensità di capitale. Questi ultimi, infatti, sono verosimilmente i più auspicabili al fine di avvicinare un paese a quelli tecnologicamente più avanzati, ma presentano l'inconveniente di assorbire basse quote di lavoro in rapporto al capitale richiesto. Ciò non significa, naturalmente, che un paese con manodopera abbondante e che si prefigga di occuparne la più alta quota possibile debba, in fase di attuazione di una politica di piano, scegliere sempre tecniche produttive a bassa intensità di capitale; se così procedesse, infatti, si precluderebbe la possibilità di avvicinare i paesi più avanzati in termini di competitività internazionale, di sviluppo e, in definitiva, di benessere della popolazione. Significa, invece, che c'è la necessità di conciliare esigenze diverse e contrapposte: e quindi di scegliere investimenti ad alto e/o a basso assorbimento di manodopera a seconda dei casi. Compito non semplice, come si può immaginare, ma inevitabile, se non si vuole impostare il piano in termini, appunto, contraddittori.
Un altro esempio di conflitto tra obiettivi: non si può perseguire un innalzamento consistente nel livello dei consumi della popolazione e al contempo un alto tasso di accumulazione, cioè di investimenti del sistema. Consumi e investimenti sono infatti variabili antitetiche, almeno in un lasso di tempo relativamente breve quale quello usualmente abbracciato da un piano economico. Pertanto, se si favoriscono i primi si debbono inevitabilmente sacrificare i secondi e viceversa. Naturalmente anche in questo caso non si tratta di imporre alla popolazione di stringere costantemente la cintura pur di favorire il processo di sviluppo tramite un tasso elevato di investimenti; né, al contrario, di mortificare del tutto le potenzialità di sviluppo del paese pur di consentire alla popolazione di godere nell'immediato di un benessere maggiore. Si tratta ancora una volta di contemperare esigenze contrastanti: quindi di scegliere la combinazione ritenuta più soddisfacente e desiderabile tra i due obiettivi in questione. In ciò guidati anche dall'orizzonte temporale che il programmatore si pone e che può benissimo oltrepassare quello del piano in preparazione. Perché non v'è dubbio che in una programmazione seriamente impostata debbano trovar posto anche le preoccupazioni per le generazioni future, non solo per quelle presenti. Se, per tornare all'esempio appena proposto, si dovessero favorire troppo i consumi, ciò andrebbe certamente a vantaggio delle generazioni presenti ma a svantaggio di quelle future visto, come si è detto, che ciò impedirebbe di effettuare gli investimenti richiesti per accelerare lo sviluppo economico del paese. Né, d'altra parte, i genitori possono essere costretti a pensare solo ai figli o ai nipoti: anche le loro esigenze debbono essere tenute in considerazione. Donde, anche qui, la necessità per il programmatore di conciliare le opposte esigenze e di farle rispecchiare dal piano.
V'è un altro aspetto, non secondario, che, come accennammo, deve caratterizzare la fissazione degli obiettivi generali che il piano persegue: l'indicazione, quanto più possibile chiara, dei modi per perseguirli. In mancanza di essa, infatti, si corre il rischio di non riuscire ad imprimere al sistema le spinte appropriate per indirizzarlo nelle direzioni desiderate. Valga anche a tal proposito un esempio, tratto da un nostro scritto del 1964, destinato a raffreddare gli entusiasmi eccessivi che stavano pervadendo l'Italia in favore di una politica di piano, e che non ci sembra aver perso validità (v. Del Punta, 1964).
È a tutti noto, scrivevamo in quel saggio, che uno degli obiettivi fondamentali che si intende attribuire alla programmazione economica nel nostro paese è rappresentato dalla eliminazione del divario tra Sud e Centro-Nord nel reddito pro capite della popolazione. Ebbene non è difficile accorgersi come, espresso in questi termini, l'obiettivo in questione sarebbe troppo generico per servire da guida significativa. Varie, infatti, sarebbero le strade almeno teoricamente percorribili per il suo perseguimento: e quindi diverse le politiche da adottare a seconda della strada scelta. Fatto, questo, che introdurrebbe nel processo programmatorio un fattore aggiuntivo di incertezza.Concettualmente l'eliminazione del divario Nord-Sud potrebbe essere perseguita, per indicare una prima alternativa, sia facendo aumentare il reddito globale del Meridione in misura superiore a quello del Centro-Nord (ferma restando la distribuzione territoriale della popolazione), sia inducendo la popolazione del Sud a spostarsi verso il Nord del paese, lasciando quindi che il reddito delle due 'regioni' segua la sua evoluzione 'spontanea'.
In alternativa l'obiettivo potrebbe essere perseguito tramite un processo di industrializzazione capillare del Meridione, vale a dire facilitando la diffusione della piccola e media industria nei pressi dei tanti centri abitati, oppure creando una serie di poli di sviluppo e di zone industriali, favorendo così soprattutto la grande industria e lasciando che i piccoli centri perdano popolazione a vantaggio di quei poli.E ancora: si potrebbe puntare, per il conseguimento dell'obiettivo, su una razionalizzazione dell'agricoltura invece che su un processo di industrializzazione. E la razionalizzazione agricola la si potrebbe perseguire tramite una riforma fondiaria che creasse una serie nutrita di poderi modello, oppure con la meccanizzazione e con il potenziamento economico della grande proprietà fondiaria che utilizzasse la manodopera agricola sotto forma salariale.Infine - anche se varie altre alternative sono possibili, sul piano teorico - si potrebbe ricorrere a un espediente puramente finanziario. Sempre concettualmente, infatti, ci si potrebbe limitare ad usare lo strumento fiscale in modo tale da prelevare al Centro-Nord quanto sarebbe necessario redistribuire al Sud per ottenere il desiderato livellamento dei redditi.
Ebbene, di fronte a questa serie di possibilità alternative come si giungerà a indicare la scelta? Questo è quanto ci chiedevamo trent'anni fa, nello studio citato. La risposta non poteva e non può che essere la seguente: se con il termine 'programmatore' si intende - come si deve intendere - non solo gli uffici tecnici deputati alla predisposizione del piano ma, prima di essi, la classe politica che ha deciso di affidarsi alla programmazione economica, la scelta spetta a quest'ultima. È insomma la classe politica, per restare all'esempio testé fatto, che deve indicare se il perseguimento dell'obiettivo del livellamento dei redditi tra le due zone del paese debba essere operato puntando sull'industrializzazione o sul potenziamento dell'agricoltura, oppure su una combinazione di queste o di altre vie possibili. Ai tecnici, in particolare agli economisti, spetterà poi il compito di valutare quali possibilità abbia il paese di intraprendere il cammino sulle strade indicate, e in qual misura l'obiettivo potrà essere conseguito.
La chiarezza nell'indicazione dei modi preferiti per giungere all'obiettivo o agli obiettivi generali prefissati è dunque essenziale, perché in sua mancanza il piano non potrebbe che nascere all'insegna di una grande incertezza.
Una volta precisati gli obiettivi generali del piano, occorrerà accertare in che misura il sistema economico avanzerebbe ove fosse lasciato alla sua evoluzione spontanea. Ciò per due motivi molto ragionevoli: in primo luogo perché se si accertasse che, magari in virtù di qualche fattore non presente in passato, il sistema tenderebbe a raggiungere spontaneamente gli obiettivi desiderati la politica di piano non avrebbe allora più ragione di essere adottata. In secondo luogo - ed è questa la situazione più verosimile - perché la conoscenza quantitativa della posizione che il sistema verrebbe spontaneamente ad assumere servirà come base per predisporre le misure di politica economica volte a consentire al sistema il raggiungimento degli obiettivi desiderati: misure che, ovviamente, dovranno essere tanto più incisive quanto più forti appariranno gli scostamenti tra risultati spontanei del sistema e obiettivi specifici del piano (cioè obiettivi precisati in termini quantitativi).Questa fase del piano è dunque eminentemente tecnica. Essa consiste nell'utilizzare al meglio strumenti statistici e modelli econometrici più o meno aggregati, al fine di proiettare nel tempo l'andamento delle principali variabili economiche: cioè di accertare, nei limiti in cui ciò sia possibile, quali presumibili valori queste variabili dovrebbero assumere durante il periodo del piano (e magari oltre, se ritenuto necessario). Si verrà così a conoscere il prevedibile andamento del reddito nazionale, del livello di occupazione della manodopera, della bilancia dei pagamenti, della finanza pubblica e così via. In particolare si tenderà a mettere in evidenza il valore delle variabili che più interessano il programmatore: come quello della distribuzione territoriale dei redditi nel caso dell'Italia degli anni sessanta.
Ciò che si deve tenere presente è che nessuna elaborazione statistica ed econometrica, per quanto affinata, sarà mai in grado di fornire estrapolazioni di variabili economiche sulle quali poter contare in modo assoluto. L'andamento dei sistemi economici è infatti così complesso e imprevedibile da non consentire in alcun modo previsioni precise. E tuttavia la proiezione dei trends delle grandezze principali del sistema economico costituisce una fase fondamentale per il programmatore. Solo che se si tratta di un programmatore attento concederà ai risultati da essa ottenuti una fiducia con molte riserve.
Ha inizio, con questa fase, un lavoro delicato per i formulatori del piano. Adesso che conoscono i traguardi che il sistema economico tenderebbe a raggiungere spontaneamente, occorre stabilire con la massima precisione possibile quelli, diversi, che il processo programmatorio persegue. Si tratta insomma di quantificare gli obiettivi generali già fissati dalla classe politica, tramutandoli in obiettivi 'specifici'. L'importanza di questa operazione è evidente: se, ad esempio, un obiettivo generale del piano è quello di elevare il tasso di aumento del reddito del sistema - un obiettivo, invero, molto comune nella storia della programmazione nonché della pianificazione economica - e se la proiezione di questa variabile ha mostrato che il sistema tende a conseguire un tasso di sviluppo del 2% all'anno, occorrerà precisare di quanto si desidera che questo tasso aumenti. Perché è facilmente intuibile che le misure previste saranno di portata ben diversa se si vorrà che il tasso di sviluppo salga al 3% o invece al 5% all'anno. Discorso che vale per qualunque altro obiettivo, naturalmente, per cui non basta dire, per fare un altro esempio di obiettivo generale, che il piano si prefigge di aumentare l'occupazione di manodopera; occorre indicare di quanto dovrà essere quell'aumento, dato che i provvedimenti da prendere saranno di portata e probabilmente anche di natura diversa a seconda appunto dell'entità della variazione desiderata.
La quantificazione degli obiettivi presenta anche un altro profilo importante: quello di consentire la misurazione, se così può dirsi, degli eventuali contrasti tra gli obiettivi medesimi. Abbiamo già rilevato, parlando degli obiettivi generali, che essi potevano essere in contrasto l'uno con l'altro, il che non significava necessariamente l'esclusione dal piano di tali contrasti, bensì il loro contemperamento. Ebbene, nella fase di quantificazione degli obiettivi generali quei contrasti verranno evidenziati e il loro contemperamento verrà misurato. Un esempio al proposito potrebbe essere il seguente: se oggi, alla metà degli anni novanta, l'Italia decidesse di tornare ad adottare una politica di programmazione economica globale, è molto verosimile ritenere che tra gli obiettivi generali del piano figurerebbero sia il risanamento della finanza pubblica, sia l'ammodernamento e il potenziamento delle infrastrutture civili del paese. Ebbene, è evidente come tra i due obiettivi vi sia contrasto, dato che per costruire infrastrutture occorre spendere denaro pubblico, il che comporterebbe un aumento ulteriore di debito pubblico. Da qui la necessità di indicare il quantum per entrambi gli obiettivi: cioè quanto si intenderebbe spendere in infrastrutture nel corso degli anni del piano e quale sarebbe la cifra di riduzione del debito pubblico compatibile con tali spese.
Quello appena descritto è un contrasto tra obiettivi di un paese già altamente sviluppato; si possono tuttavia indicare contrasti più classici e, storicamente, più significativi. Come quello, che già avemmo occasione di menzionare, tra consumi privati e investimenti (pubblici e privati): i quali non possono crescere contemporaneamente in misura rilevante, dato che le risorse di cui un paese può disporre sono sempre limitate. Un esempio storico di tale contrapposizione è fornito dall'ex Unione Sovietica, dove per lunghissimo tempo furono favoriti gli investimenti, soprattutto nell'industria pesante; ciò consentiva all'URSS di divenire una grande potenza economica, ma le impediva di raggiungere un livello di benessere (cioè, in primo luogo, di consumi) che fosse anche lontanamente paragonabile con quello di cui godevano i paesi occidentali più avanzati.Il piano rende espliciti questi contrasti: e, nel caso appena richiamato, dovrà indicare se - e soprattutto quanto - sarà possibile aumentare i consumi e gli investimenti. Il tutto nei termini più realistici possibili, tenendo cioè ben conto delle vere potenzialità del sistema.
Quest'ultimissima indicazione è meno ovvia di quanto non possa sembrare a prima vista: e merita un commento. Nell'opera chiarificatrice che la specificazione degli obiettivi del piano comporta, si annida infatti un pericolo che costituisce uno dei punti più deboli di ogni processo di programmazione di un'economia di mercato. La quantificazione degli obiettivi, infatti, può ingenerare nella popolazione di un paese l'illusione che essi, proprio perché precisati quantitativamente, saranno senz'altro conseguiti. La storia insegna invece che solo raramente gli obiettivi di un piano vengono centrati: spesso sono anzi mancati di molto. Dei vari motivi di questo probabilissimo insuccesso ci renderemo conto nel prosieguo dell'analisi. Limitiamoci per ora a prender nota della cautela e delle riserve con cui gli obiettivi specifici di un piano dovrebbero essere presentati alla pubblica opinione.
La fissazione degli obiettivi specifici del piano conduce, come si è visto, a prestabilire l'entità che certe grandezze economiche del sistema dovrebbero assumere nel corso e al termine del piano stesso. Si tratta però di grandezze macroeconomiche: il tasso di aumento del reddito nazionale, ad esempio, quello dei consumi o degli investimenti, e via dicendo. In altri termini, abbiamo a che fare con una 'cornice' del piano (la letteratura anglosassone la denomina infatti plan frame) entro la quale dovranno essere indicati i valori che dovranno assumere tutta una serie di altre variabili affinché il sistema possa puntare a quegli obiettivi specifici.
Prende così avvio la parte tecnicamente più complessa della predisposizione del piano, il cui primo passo consiste nella 'programmazione settoriale', vale a dire nella predeterminazione del livello di produzione che, per ogni anno del piano, deve essere conseguito da ciascuno dei settori produttivi in cui il sistema si suddivide. Un'operazione, questa, assolutamente indispensabile se si tiene presente che un obiettivo generale come quello, ad esempio, di un dato aumento del reddito nazionale, comporta di stabilire quale dovrà essere l'apporto fornito al suo raggiungimento dal settore agricolo nonché, naturalmente, da quello industriale e dunque dai vari comparti in cui l'industria del paese si suddivide. Non dimenticando, peraltro, che nessun piano potrà mai contenere un dettaglio minuzioso dei quantitativi di tutti i beni che l'agricoltura e ancor più l'industria producono in un'economia avanzata. Ciò significa che la disaggregazione dei settori non potrà essere spinta oltre un certo limite, e che tuttavia non potrà non esserlo in misura adeguata, dal momento che la validità della programmazione settoriale dipende sicuramente anche dalla sufficienza del grado di disaggregazione a cui viene effettuata.
Nel piano dovranno così comparire, per restare all'industria, le stime dei livelli produttivi dei settori che fabbricano beni strumentali (in senso anche lato: siderurgia, macchine utensili, chimica di base, energia elettrica, ecc.), nonché dei settori che producono i principali beni di consumo (tessile e abbigliamento, automobili, elettrodomestici, edilizia abitativa e così via), i quali dipenderanno naturalmente dalla evoluzione della domanda (anch'essa da stimare), a sua volta dipendente dall'andamento del reddito delle famiglie (da valutare) e dei prezzi (da prevedere anche sulla base di un atteso tasso di inflazione) dei beni in questione.
V'è poi da tener presente che se il sistema economico per cui si sta predisponendo il piano è aperto agli scambi internazionali - e si tratta, ovviamente, del caso più comune - i livelli di produzione settoriali dovranno essere stimati tenendo anche conto delle esportazioni e delle importazioni dei relativi prodotti: perché è evidente che il fabbisogno di un certo bene nell'ambito del sistema può essere soddisfatto sia dalla produzione interna che dalle importazioni, così come è chiaro che il livello di produzione di un settore oltreché dalla domanda che gli proviene dall'interno del sistema sarà influenzato anche da quella proveniente dall'estero.
Già questi accenni dovrebbero fare intuire le difficoltà tecniche insite nella programmazione settoriale. È tuttavia opportuno indugiare ancora su di esse per porle meglio in evidenza. All'uopo dovrebbe bastare l'illustrazione, sia pure sommaria, di due fra le tante operazioni connesse a questa fase di predisposizione del piano. La prima di esse è quella che abbiamo appena indicato, vale a dire la necessità di stimare, per i vari anni del piano, le correnti di importazione ed esportazione settoriali del sistema. Per effettuare questa stima non sono tanto le eventuali carenze dei modelli econometrici o delle serie statistiche a creare le maggiori difficoltà, quanto le incognite legate all'evoluzione dei mercati di sbocco o fornitori del paese per cui si sta predisponendo il piano. È infatti evidente come le esportazioni ed importazioni di un paese siano influenzate dalla situazione congiunturale - ovverosia dalle condizioni di domanda e di offerta - dei sistemi economici con i quali il paese è in rapporti di scambio. Ma prevedere quelle condizioni è un compito improbo, perché esse dipendono da una serie di fattori spesso neanche immaginabili.
L'altra operazione particolarmente complessa che deve essere eseguita per procedere alla programmazione settoriale è il computo dei fabbisogni intermedi di produzione, vale a dire degli acquisti che i vari settori del sistema economico effettuano tra di loro per esigenze di produzione. Per esemplificarla iniziamo il discorso da un settore produttivo di grande importanza per i grandi paesi industriali: quello automobilistico. In che cosa consistano i fabbisogni intermedi di produzione di questo settore è presto detto: in ciò che esso acquista da tutti gli altri settori produttivi per fabbricare automobili, autocarri, autobus e via dicendo. Per individuarli, dunque, il programmatore, una volta stimati i livelli di produzione che il settore automobilistico dovrebbe raggiungere in ogni anno del piano per soddisfare la domanda prevista, dovrà calcolare, sempre anno per anno, la quantità di lamiere d'acciaio, di gomma, di vernici, di materiale elettrico ed elettronico, di tessuti, e così via, di cui il settore abbisognerà per ottenere quei livelli di produzione. Tale calcolo sarà necessario perché tutti quei materiali dovranno rientrare negli obiettivi di produzione dei rispettivi settori: di quello siderurgico, appunto, di quello dei pneumatici, di quello tessile, chimico, elettronico, e via dicendo. Obiettivi che debbono a loro volta essere considerati e quantificati dal programmatore.
Naturalmente ciò che si è appena detto per il settore automobilistico vale anche per tutti gli altri settori del sistema economico, agricoltura compresa. L'agricoltura moderna si serve infatti ampiamente di prodotti industriali per la sua conduzione: fertilizzanti, macchine agricole, diserbanti, trattori. E dunque, anche per essa, sarà necessaria la stima dei fabbisogni intermedi per ogni anno del piano, visto che questi si riflettono sui livelli di produzione dei settori fornitori, incluso quello automobilistico che le dovrà fornire gli autocarri e gli altri mezzi di trasporto di cui necessita. Estendendo questo ragionamento ai restanti settori del sistema si dà luogo ad una rete estremamente complessa di interdipendenze nell'ambito della quale un qualunque aumento nel livello di produzione di un settore qualsiasi si ripercuote sui livelli di produzione di tutti gli altri. Torniamo, come esempio, al settore automobilistico. Se la sua produzione, secondo le stime del programmatore, dovrà aumentare di una certa percentuale nel corso del piano, non saranno solo i settori che lo riforniscono direttamente a doversi porre in condizione di garantirgli le quantità maggiori di fabbisogni che esso presenterà, ma anche tutti i settori che riforniscono questi ultimi. Ora, poiché nell'ambito di un piano di sviluppo pluriennale saranno verosimilmente tutti i settori a dover presentare aumenti produttivi, al fine di soddisfare la domanda di un sistema economico in crescita, e quindi ad incrementare gli acquisti dai loro fornitori diretti, la grande complessità di calcolare tutto ciò risulta più che evidente.
Per buona sorte dei programmatori e dei pianificatori, essi possono disporre da alcuni decenni di uno strumento econometrico atto a calcolare i fabbisogni intermedi di produzione. Si tratta del modello delle interdipendenze economiche strutturali (input-output analysis, nella letteratura anglosassone) dovuto allo studioso russo-americano Wassily Leontief (e che ha fruttato al suo autore il premio Nobel per l'economia). Non si possono tuttavia tacere le difficoltà che l'utilizzo di questo strumento comporta: non tanto per la sua 'gestione', ormai affidabile ai calcolatori elettronici, quanto per la messe di informazioni statistiche che richiede e per le ipotesi semplificatrici su cui si basa. Resta comunque il fatto che in sua assenza la stima dei fabbisogni intermedi di produzione di un grande sistema economico, datane la complessità, non potrebbe che essere così grossolana da risultare pressoché inattendibile, rendendo così altrettanto inattendibili i calcoli per stabilire congruamente i livelli di produzione settoriale durante il decorrere del piano.
Un profilo di non secondaria importanza che un piano economico può presentare è quello della suddivisione del paese in regioni economiche. Il motivo per cui si procede a questa suddivisione risiede nel fatto che lo sviluppo economico di un paese spesso non avviene in modo uniforme, ma privilegia certe zone rispetto ad altre. In tal caso, è facile che l'adozione di una politica di programmazione globale contenga, tra i suoi principali obiettivi, la correzione degli squilibri territoriali determinatisi nel corso del tempo. È, ad esempio, il caso dell'Italia, anzi del Mezzogiorno d'Italia, il cui recupero in termini di reddito pro capite ha rappresentato uno degli obiettivi principali della politica di piano realizzata nel nostro paese.
Dire che cosa significhi attuare la programmazione regionale nell'ambito di un piano economico globale è alquanto agevole a livello concettuale, mentre è molto più difficile sul piano operativo. Concettualmente, una volta individuata la regione economica (o le regioni, intendendo per regione economica una zona i cui confini siano tracciati sulla base di parametri appunto economici e non amministrativi) per cui si ritenga necessario l'aiuto particolare, si tratta di fissare l'obiettivo che si intende perseguire con il piano di sviluppo, nonché di predisporre gli strumenti volti a consentire il raggiungimento di quell'obiettivo. Se, ricalcando l'esempio appena fatto, l'obiettivo è quello di attenuare il divario tra il reddito pro capite delle diverse regioni e se si decide che tra le vie possibili per raggiungere questo obiettivo quella da percorrere in maniera prioritaria e prevalente sia l'accelerazione del processo di industrializzazione della regione stessa, il profilo più rilevante della programmazione regionale sarà quello di specificare quanti e quali insediamenti industriali dovrebbero essere impiantati nella regione durante il trascorrere del piano.
Già a livello di studio, tuttavia, non è affatto semplice stabilire se ai fini del raggiungimento dell'obiettivo sia preferibile puntare sull'insediamento di questo o quel tipo d'industria; se su aziende di grandi oppure di medie o piccole dimensioni; se su queste o quelle parti della regione in base alle loro rispettive vocazioni; e così via. Ma anche ammettendo che il programmatore riuscisse a risolvere in modo economicamente efficiente tutti questi problemi, ne resterebbe ancora uno, che peraltro è forse il più importante: cioè cosa fare per indurre gli imprenditori privati ad effettuare proprio gli investimenti indicati dal piano, sia come quantità che come qualità ed ubicazione. È questo un problema fondamentale per ogni programmatore di un'economia di mercato: il quale, al contrario del pianificatore dell'economia collettivista, non ha, né può avere, la proprietà dei mezzi di produzione. Tale problema, data la sua importanza, merita una riflessione a parte, che svolgeremo nelle pagine seguenti. Per adesso ci limiteremo a dire che si tratta di un problema che non può avere soluzioni certe ma solo probabili, e con un grado di probabilità alquanto basso.
Quanto appena detto ci apre la via per illustrare la fase cruciale del processo programmatorio: la predisposizione del programma specifico di investimenti, ossia l'individuazione quantitativa e qualitativa degli investimenti che dovrebbero essere effettuati nell'ambito dei vari settori produttivi affinché questi possano raggiungere i livelli di produzione individuati nella fase della programmazione settoriale e richiesti, come sappiamo, per conseguire gli obiettivi che il piano si prefigge.
L'importanza di questa operazione è facilmente intuibile ove si pensi che solo se saranno effettuati investimenti nella quantità e della qualità indicate dal piano gli obiettivi, qualunque essi siano, avranno la possibilità di essere raggiunti: perché è soltanto tramite nuovi investimenti, effettuati nella misura voluta, che sarà ragionevole aspettarsi dal sistema il tasso di sviluppo auspicato, o il conseguimento di qualunque altro obiettivo fissato dal piano.
Ebbene, gli investimenti attuabili in un'economia liberista sono di due tipi, pubblici e privati. Entrambi sono importanti ai fini dello sviluppo economico del sistema. I primi perché sono prevalentemente costituiti da opere infrastrutturali indispensabili al progredire del sistema stesso (strade, ferrovie, porti, aeroporti, oltre, naturalmente, ad opere che accrescono il grado di civiltà di un paese: scuole, ospedali e così via), anche se possono talvolta includere impianti direttamente produttivi come quelli che in Italia fanno capo al sistema delle partecipazioni statali, la gestione del quale ha per molti anni obbedito più a decisioni ed esigenze di ordine politico che non economico. I secondi, cioè gli investimenti privati, perché abbracciano la parte più rilevante degli investimenti produttivi in senso proprio.
Ora, mentre sugli investimenti pubblici il programmatore ha la possibilità di influire e financo di decidere in maniera diretta, su quelli privati, quindi proprio sulla parte più importante ai fini del conseguimento degli obiettivi del piano, questa possibilità non esiste. E non esiste perché in un'economia di mercato l'imprenditore privato ha, in fatto di investimenti, due principali gradi di libertà: quello di scegliere il modo in cui investire, cioè il tipo di investimento da effettuare nonché il luogo in cui ubicarlo, e quello di decidere il tempo dell'investimento, cioè il momento in cui realizzarlo. Anche dunque facendo l'ipotesi - alquanto inverosimile - che il programmatore riesca a limitare questa libertà, imponendo agli imprenditori di scegliere solo tra le forme degli investimenti indicate dal piano, non potrebbe mai toglier loro la facoltà di scegliere il momento in cui dar luogo all'investimento, sempreché si voglia conservare almeno in parte al sistema l'attributo di economia di mercato. Ebbene, anche così ridotta, la libertà di scelta degli imprenditori privati potrebbe ancora far saltare qualunque piano economico, anche il più accurato: dato che gli obiettivi di questo potrebbero essere conseguiti solo se gli investimenti venissero effettuati nei tempi previsti dal piano stesso.Il programmatore, dunque, non ha che una strada per accertarsi se gli investimenti che verranno effettuati durante il periodo del piano saranno nella quantità e della qualità desiderate: quella di interpellare gli imprenditori privati per venire a conoscenza delle loro intenzioni al riguardo e per studiare le misure di politica economica atte a far sì che quelle intenzioni possano conformarsi il più possibile alle esigenze del piano. È una via impervia, senza alcun dubbio: perché è quasi certo che le scelte d'investimento che gli imprenditori privati hanno in animo di fare potranno divergere anche di molto rispetto a quelle desiderate dal programmatore; ed escogitare misure fattibili di politica economica atte a modificare quelle scelte nel verso desiderato non è invero cosa facile. Il risultato più probabile, del quale il programmatore dovrà prendere atto, sarà di registrare un sicuro scarto tra ciò che, in fatto d'investimenti, il sistema registrerà durante gli anni del piano e ciò che il piano stesso aveva indicato. Ma se questo scarto non risulterà tanto grande da costringere il programmatore a riformulare il piano fin dalla fissazione degli obiettivi generali, la prima e forse la più importante 'prova di coerenza' del piano stesso potrà dirsi superata.
Al programmatore non resterà allora che sottoporre il piano ad altre eventuali prove di coerenza: ad esempio a quella della 'divisa estera', consistente nel verificare se i flussi di importazioni ed esportazioni previsti consentano di mantenere le riserve valutarie del paese ai livelli desiderati; o alla verifica della compatibilità tra le spese a carico dello Stato, comportate dalle misure incentivanti previste per indurre gli imprenditori ad effettuare gli investimenti desiderati, e le condizioni della finanza pubblica. E via dicendo.Svolte le prove di coerenza, ed avendole il piano superate, questo potrà essere varato. Vale a dire sottoposto all'approvazione degli organi di governo o legislativi, ove sia previsto che il piano debba diventare legge dello Stato (come accadde in Italia al 'piano Pieraccini' nel luglio del 1967): una legge che avrà comunque come principale caratteristica l'aleatorietà, perché nessuna legge sarà mai in grado di garantire il successo di un piano economico, specie all'interno di un'economia di mercato, la quale è soggetta, per definizione, ai tanti 'venti' della congiuntura interna ed internazionale.
8. Le vicende della politica di programmazione economica
La descrizione, appena conclusa, della maniera in cui dovrebbe essere predisposto un piano pluriennale per un'economia di mercato (o meglio, 'potrebbe essere', visto che quello indicato non è l'unico percorso metodologico possibile) ha comportato la messa in evidenza di una serie di difficoltà tecniche. Ad esse vanno aggiunti gli ostacoli istituzionali, che non hanno certo minore peso nel probabile verificarsi di uno scostamento tra risultati effettivi conseguiti dal sistema economico e obiettivi previsti dal piano.
Di uno di tali ostacoli abbiamo già parlato, ancorché fugacemente: la libertà d'iniziativa economica, che consente all'imprenditore privato di decidere i modi e i tempi dei propri investimenti. Ma ve ne sono altri. Ad esempio, e non è certo un ostacolo da poco, la libertà dei lavoratori di costituirsi in sindacato, al fine di rappresentare e tutelare i propri interessi. Ora, il sindacato può benissimo opporsi all'attuazione del piano, ogni volta che esso preveda misure ritenute insoddisfacenti per il mondo del lavoro. Se, ad esempio, un piano, per consentire più alti investimenti pubblici e/o privati, prevede un basso incremento dei consumi, dovrà contemporaneamente prevedere, per esser coerente, anche aumenti contenuti nei tassi salariali: ma ciò incontrerà difficilmente il consenso dei sindacati dei lavoratori. E se questi promuovono iniziative di protesta, specie in forme aspre e prolungate, è difficile che un piano possa esser condotto in porto in maniera soddisfacente.
Gli ostacoli di natura istituzionale possono anche avere un'origine esterna al sistema economico. I paesi che appartengono alla Comunità Europea, ad esempio, sono tenuti ad osservare una serie di regole che potrebbe determinare effetti in contrasto con le indicazioni di un piano. Un esempio: si ricorderà come una fase cruciale nella formulazione di un piano sia costituita dal programma specifico di investimenti, tramite il quale si giunge a stabilire la quantità e qualità degli investimenti settoriali. Ebbene, se si tiene presente che nell'ambito dell'Unione Europea vige la libertà di stabilimento - in base alla quale qualunque imprenditore di qualsiasi Stato membro può effettuare i suoi investimenti in qualunque altro paese dell'Unione e, naturalmente, nei tempi da lui scelti - si capisce come ciò possa risultare in contrasto con le previsioni d'investimento contenute nel piano e quindi con gli obiettivi da esso stabiliti.
Arrestiamo qui l'illustrazione delle asperità che si presentano sul cammino del programmatore in un'economia di mercato: ne abbiamo elencate a sufficienza per comprendere come il riporre grande fiducia nel raggiungimento degli obiettivi indicati da un piano, anche del più accurato, corrisponda ad un atteggiamento alquanto fideistico, pressoché sicuramente destinato a provocare delusioni più o meno cocenti. Eppure fu proprio questo il genere di atteggiamento assunto dai paesi europei che, alcuni decenni orsono, decisero di adottare una politica di programmazione economica: l'Italia in testa, ma anche la Francia e, in qualche misura, sia pure con una dose non trascurabile del pragmatismo che le è consueto, la Gran Bretagna.
Le delusioni, però, non si fecero attendere: non passarono cioè molti anni dall'adozione di quella politica per rendersi conto che i risultati attinti dai vari sistemi economici divergevano non di poco da quelli previsti dai piani per essi via via predisposti.In Italia si riscontrò che il principale obiettivo della programmazione economica, quello, come sappiamo, della riduzione del divario economico tra Sud e Centro-Nord del paese, continuava ad allontanarsi nel tempo. E così il 'piano Pieraccini' (dal nome del ministro in carica), riferito al quinquennio 1966-1970, venne a rappresentare l'ultimo piano in senso proprio predisposto per il nostro paese. Ad esso, infatti, seguì un generico documento, il cosiddetto 'Progetto ottanta', che avrebbe dovuto ispirare il piano per il quinquennio 1971-1975. Ma questo non vide mai la luce: travolto, si può forse dire, dalla crisi del petrolio del 1973, ma ancor prima e ancor più dalle delusioni che la programmazione sino allora tentata aveva provocato.In Francia, alla programmazione economica veniva attribuita la virtù di ridurre le incertezze degli operatori economici, cioè di accrescerne il grado di razionalità, ed in tal modo di pervenire più agevolmente al conseguimento degli obiettivi desiderati, ossia la piena occupazione e la stabilità della crescita economica del sistema. Si riteneva, insomma, che il piano, in virtù delle sue indicazioni qualitative e quantitative, fornisse maggiori certezze agli imprenditori inducendone comportamenti e strategie in linea con quelle indicazioni. E forse così sarebbe potuto essere, se le previsioni dei vari piani predisposti a partire dagli inizi degli anni cinquanta fino a quelli degli anni ottanta non avessero via via accusato scostamenti sempre più marcati rispetto ai risultati effettivamente conseguiti dal sistema.
Un fenomeno, questo, verificatosi anche in Gran Bretagna fin dal primo tentativo di adozione della politica di piano. Il piano 1964-1970, ispirato alle esperienze francesi, fissava infatti obiettivi in termini di tassi d'incremento del prodotto interno lordo, del reddito pro capite, degli investimenti pubblici e privati che risultarono fortemente sopravvalutati rispetto ai risultati realmente conseguiti. Uno smacco non facilmente sostenibile per la credibilità di una politica di programmazione, che ha nella fiducia degli operatori economici un pilastro fondamentale.Oltre ai paesi in cui la programmazione economica è stata prima adottata e poi, per delusione, abbandonata o relegata in secondo piano, ve ne sono stati altri - già lo dicemmo - che non vi hanno mai fatto ricorso. Tra questi ne spiccano due, Germania e Stati Uniti d'America, per i quali il rifiuto ha avuto motivazioni anche, forse soprattutto, ideologiche. Gli Stati Uniti forniscono l'esempio più chiaro al riguardo.
Liberista per eccellenza, questo paese, dopo un'esperienza di programmazione parziale per lo sviluppo della valle del Tennessee realizzata negli anni trenta nell'ambito del New Deal rooseveltiano, vide affacciarsi l'idea di una programmazione globale alla metà degli anni settanta, ad opera, a livello parlamentare, del senatore democratico Hubert Humphrey e, a livello di pubblica opinione, dell'Initiative Committee for National Economic Planning, un Comitato composto da economisti di grande rinomanza come W. Leontief, K. Galbraith, G. Myrdal e da personalità di spicco di altre discipline nonché del mondo sindacale, finanziario e imprenditoriale.
Agli argomenti a favore della programmazione di tale Comitato fece eco il più importante organo di stampa statunitense, il "New York Times", il quale, in un editoriale del 23 febbraio 1975, poneva la domanda: "Perché la pianificazione è considerata una cosa positiva per gli individui e per le imprese, ma negativa per l'economia nazionale?". Una domanda provocatoria, rivolta a chi non condivideva le idee che il Comitato proponeva e che stava continuando a portare avanti. Le risposte non mancarono: ed una delle più significative e meditate fu quella data da von Hayek.
La discussione sulla pianificazione - scrisse von Hayek (v., 1976) - non ha mai riguardato e non riguarda il problema se i privati, consumatori o produttori che siano, debbano pianificare i loro affari, ma quello di chi dovrebbe pianificare tali affari. Si tratta, in altri termini, di stabilire se questi siano meglio, cioè più efficacemente e razionalmente, organizzati dal mercato, tramite gli stimoli che esso invia in maniera automatica, o invece da un'autorità centrale che stabilisca come la gente si debba comportare.Inutile dire come von Hayek, critico da sempre della pianificazione, propendesse per il mercato, bocciando quindi le proposte del Comitato. Anzi, egli spinse la polemica al punto da dare, neanche troppo implicitamente, dell'ignorante a Leontief per non aver tenuto conto, nel propagandare le tesi del Comitato, delle conclusioni raggiunte dal dibattito degli anni trenta sulla pianificazione, vale a dire del riconoscimento che tale metodo di conduzione di un sistema economico non avrebbe potuto che risultare inefficace. Von Hayek temeva il carattere intrinsecamente coattivo della programmazione (che lui, come del resto i suoi interlocutori del momento, chiamava pianificazione) ancorché applicata da un sistema di stampo liberista come quello americano. E scriveva tra l'altro: "L'idea di dirigere l'industria privata annunciando in anticipo le quantità di beni che le imprese dovrebbero produrre in futuro è un pasticcio dall'inizio alla fine, completamente inefficiente e fuorviante se non accompagnato da sanzioni che costringano l'industria a fare quello che è stato previsto, distruttivo nei confronti del mercato concorrenziale e della libera impresa, e destinato, per la sua logica interna, a portare diritti ad un sistema socialista" (v. Hayek, 1976; tr. it., p. 436).La polemica si spense con l'accantonamento da parte dell'amministrazione Carter di ogni velleità programmatoria centralizzata e l'approvazione, nel 1978, del Full Employment and Balanced Growth Act, legge dalla quale era scomparso ogni riferimento persino al termine 'pianificazione'.
Gli Stati Uniti, dunque, non hanno accettato e, probabilmente, non accetteranno mai la programmazione globale perché in essa vedono una limitazione intollerabile alle libertà economiche individuali e un pericolo di mutamento istituzionale del sistema. Si tratta, come dicevamo, di un rifiuto ideologico.Ma l'ideologia, lo si sa, spesso non giova alla chiarezza e soprattutto alla giustezza delle idee. Se infatti viene considerata senza pregiudizi, la politica di programmazione può presentare aspetti positivi non trascurabili. Il Giappone ne fornisce un esempio. In questo paese i governanti non si sono lasciati intimorire dal profilo ideologico della questione, né si sono fatti prendere dallo scoramento per gli eventuali insuccessi di tale politica. Sicché, a partire dal 1955, hanno sempre continuato a varare piani quinquennali, ma anche sessennali e settennali, mutandone di volta in volta gli obiettivi, mano a mano che quelli prefissati venivano raggiunti più o meno compiutamente. Si è passati così dal Piano per l'indipendenza economica del 1955, che oltre all'indipendenza puntava anche al pieno impiego della manodopera, al Piano per il raddoppio del reddito nazionale del 1960, al Piano a medio termine del 1965, destinato a correggere gli squilibri settoriali e ad accrescere il benessere della popolazione; e così via, sino a quelli più recenti ai quali, riguardando un'economia ormai forte, sono stati assegnati obiettivi di grado più elevato come lo sviluppo equilibrato del sistema, la stabilizzazione delle relazioni economiche con l'estero e, per il piano attualmente in corso relativo al quinquennio 1992-1996, il miglioramento della qualità della vita (a partire da una riduzione dell'orario di lavoro).
Si può dunque dire che il Giappone abbia interpretato meglio di qualunque altro grande paese liberista il significato della programmazione economica, comprendendone chiaramente anche i limiti. La programmazione nipponica ha infatti sempre avuto carattere indicativo ma anche 'concertato' grazie ai dibattiti che vengono promossi, per ogni piano, dalle autorità di governo con le categorie interessate e che le hanno sistematicamente guadagnato ampio consenso e notevole coerenza interna. Gli operatori economici sono stati in tal modo abituati ad avere fiducia negli obiettivi che il piano in corso di volta in volta proponeva. Tanto che è stato registrato un 'effetto pubblicazione' del piano stesso: nel senso che se un piano prevedeva, ad esempio, settori produttivi in espansione, vi erano imprenditori pronti ad effettuare investimenti in quei settori; così come altri imprenditori erano lesti ad abbandonare settori produttivi indicati dal programmatore come declinanti (v. Camera dei deputati, 1987, p. 378).
In Italia, lo abbiamo già detto, la politica di programmazione venne abbandonata agli inizi degli anni settanta, dopo nemmeno vent'anni dal suo esordio. Dunque non si può parlare di un suo successo. Eppure non sarebbe corretto imputarle un totale fallimento. Essa infatti comportò innanzi tutto un'abitudine ad un'analisi approfondita dei problemi e delle caratteristiche del nostro sistema economico. E poi, assumendo obiettivi generali di grande rilievo economico-sociale, ha contribuito a radicarli nella coscienza della classe dirigente e della popolazione. Prendiamo ancora ad esempio l'obiettivo più importante: quello del riequilibrio del reddito pro capite tra Sud e resto del paese. L'obiettivo non fu certo raggiunto, come è noto, ma fu pubblicizzato e sottolineato al punto da far ritenere che le misure in favore delle aree meno fortunate del nostro paese, prese anche dopo l'abbandono della politica di programmazione, siano almeno in parte retaggio di quella politica.
9. Brevi conclusioni sulla programmazione
Il resoconto delle vicende vissute dalla programmazione economica globale sembra condurre alla conclusione che tale politica abbia un futuro alquanto buio, perlomeno al livello dei paesi altamente industrializzati. Ciò pare tanto più vero se si tiene presente che anche il mondo ex comunista di obbedienza sovietica ha ormai abbandonato la pratica della pianificazione e sta tentando di instaurare economie di mercato modellate su quelle occidentali.La programmazione, dunque, è, se non defunta del tutto, sulla strada per esserlo? Forse lo è se al termine programmazione si continua a dare il significato attribuitogli finora. Non lo è invece, e non lo sarà mai, almeno per quanto ci è dato immaginare, se al termine 'piano' diamo anche il significato che Lionel Robbins, eminente economista ed epistemologo inglese, già gli attribuiva nel 1935. Egli allora scriveva che "il sistema dei diritti e dei doveri della società liberale ideale può essere considerato un piano buono o cattivo. Ma dire che questo sistema non è un piano significa non capire assolutamente nulla" (v. Robbins, 1935; tr. it., pp. 150-151).
Applicare questo concetto all'economia di mercato, come Robbins stesso fece, significa riconoscere che i sistemi economici liberisti, anche se non adottano esplicitamente una politica di programmazione, sono nella sostanza dei sistemi pianificati, visto che una miriade di norme impersonali, sedimentate attraverso i secoli, ne regola l'andamento. Ciò che comunque ad essi manca, rispetto a quelli programmati esplicitamente, è l'indicazione di obiettivi preordinati. Ma anche questo è vero solo in parte, dato che ogni sistema tende alla crescita economica e al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.Una conclusione, questa, che non vuole affatto costituire un inno alla 'mano invisibile' di smithiana memoria e ai meccanismi spontaneamente ottimizzanti di un'economia di mercato, ma, al contrario, indicare come, almeno surrettiziamente, la programmazione globale possa essere considerata non del tutto assente, neppure dai sistemi economici che più sembrano rifuggirne.
(V. anche Comunismo; Economia; Economia pubblica; Mercato; Nazionalizzazioni; Politica economica e finanziaria; Prezzi).
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